Giorgio Cremaschi (in Contropiano anno 23 n° 1 – febbraio 2014)
Vorrei sinteticamente affrontare quelli che, secondo me, sono i tre temi di fondo che ci pone questa discussione: uscire dall’UE, l’Europa mediterranea e la transizione.
Per quanto ognuno di essi sia passibile di possibili approfondimenti, condivido il fatto di stringerli in unico nodo. Per chiarezza espositiva, cercherò di svilupparli uno per uno.
Il primo: uscire dall’Unione Europea. Io preferisco il termine utilizzato nella sua relazione da Mauro Casadio: rompere. Anche per le cose che qui ci diceva prima Andrea Ricci, non credo che se l’Italia uscisse dai meccanismi del governo dell’Unione Europea, questa resterebbe in piedi. L’uscita dell’Italia è la rottura dell’Unione Europea e quindi penso che ci convenga considerare questo aspetto anche per un’altra ragione: per sconfiggere quell’idea che viene usata dai nostri governanti e dalle classi dominanti, secondo la quale uscendo dall’UE noi usciremmo dal “mondo civile”.
Noi per contro sosteniamo che l’Europa c’è e resta. Per questo motivo noi siamo per la rottura dell’Unione Europea. Questo è il tema di fondo sul quale bisogna riflettere, proprio perché io sono convinto (ci sono arrivato credo con una maturazione progressiva e quindi non con valutazioni a priori ma soprattutto con la consapevolezza del rapporto tra l’Unione Europea e le sue politiche economiche e sociali) che questo meccanismo che ci governa sia irriformabile.
Di fronte alle politiche di austerità, alle politiche di massacro sociale che oggi propongono tutti i giorni i governanti dell’Europa, la Troika ecc. in Italia e in Europa, noi abbiamo, nel mondo della sinistra, l’equivalente di quei militanti di sinistra e di quei dirigenti della sinistra europea che durante la Iª Guerra mondiale, tra il ‘14 e il ‘18, si chiamavano interventisti democratici, e che dicevano: la guerra è nata da ragioni sbagliate, però adesso dobbiamo trasformarla in una guerra per la democrazia.
Oggi mi pare che gran parte della sinistra socialdemocratica europea, della socialdemocrazia, dei partiti di centrosinistra europeo, pratichino – senza esagerare – l’interventismo democratico, cioè sostengono l’idea che si possa, “sbattendo i pugni sul tavolo”, riformare l’Europa e costruire una politica economica progressista che superi l’austerità. È una favola. I meccanismi di governo dell’Unione Europea sono intrinsecamente liberisti, non esiste Unione Europea senza le politiche economiche liberiste. Lo ha spiegato un sociologo riformista, il quale poi nelle conclusioni politiche incorre nello stesso errore, anche se nell’analisi dice le cose che diciamo noi, Luciano Gallino, il quale nel suo ultimo libro ha parlato di “colpo di stato”.
Prima si ricordava, giustamente, che le politiche economiche liberiste per la prima volta – queste politiche economiche, non quelle dell’Ottocento – sono state sperimentate nel Cile di Pinochet con una violentissima dittatura. Noi in Europa abbiamo un pinochettismo blando, blando dal punto di vista politico e dal punto di vista della forza repressiva, concertato. Decisiva, da questo punto di vista, è un’analisi critica sul ruolo delle grandi confederazioni sindacali europee, ma la politica economica è la stessa.
Da questo punto di vista io non starei troppo a calcare sul fatto che siamo di fronte a una crisi e che questa crisi quindi porti il capitalismo al crollo. Non ci credo. Penso invece che questa crisi per il capitalismo europeo sia una grandissima occasione per fare i conti con il sistema sociale e le conquiste sociali dell’Europa.
Il progetto dell’Europa liberista nasce prima della crisi europea, perché il Trattato di Maastricht, la Banca Centrale Europea, la lotta contro l’inflazione sono nati prima della crisi finanziaria. Essa è diventata, per il governo europeo dittatoriale delle banche, non un incidente, ma un’occasione per poter praticare con tutta la brutalità le proprie politiche economiche. Quindi noi siamo di fronte ad un’accelerazione e io non credo affatto che questa sia una cosa che non ha possibilità di risultato.
Come ci veniva detto, la barbarie può anche funzionare. Da parte nostra è giusto avere, come si dice, un’idea ottimista di fondo sull’umanità, altrimenti non saremmo comunisti, però con qualche cautela politica. Abbiamo sperimentato nella storia che sistemi orrendi, per un certo periodo, possono funzionare.
In Grecia, purtroppo, sembra che stia funzionando, nel senso che quel modello di distruzione dell’occupazione, di selezione sociale, di costruzione di una società ultragerarchizzata, di dittatura economica e sociale in qualche modo riesce a governare. Naturalmente la Grecia è un Paese piccolo, quindi ha subito un attacco più concentrato in un piccolo territorio da tutte le forze del capitalismo europeo e internazionale. È chiaro che in Paesi come l’Italia e Spagna siano necessari più tempo e strumenti più intelligenti e flessibili; non siamo di fronte a delle classi dirigenti che non sanno cosa fare, siamo di fronte a un progetto: quello di una dittatura economico-finanziaria che, per riconquistare competitività internazionale, mette in discussione alla radice lo Stato e le conquiste sociali dell’Europa e costruisce una società gerarchizzata negli interessi e che accetti tutto questo. O comunque che non arrivi ad un livello di conflitto tale da metterlo in discussione.
Questo è il progetto. È un progetto economico, sociale e culturale. Culturale, anche per la sinistra. Per troppo tempo, anche nella sinistra radicale abbiamo accettato l’ideologia e la propaganda che di sé faceva il capitalismo occidentale: la società liquida, le moltitudini, la società della conoscenza, tutte queste cose sono anche parte della cultura di movimenti (penso ad Occupy WallStreet, ecc.).
A me ha colpito molto, devo dire, e consiglio di leggerlo, il dialogo letterario che è stato pubblicato adesso da Micromega ma si trova anche sui siti, tra Slavoj Žižek da un lato e la Pussy Riot Nadežda Andreevna Tolokonnikova dall’altro, dove Žižek rappresenta l’esponente puro di questo pensiero: quello di oggi è un capitalismo pacificato nel quale solo le soggettività, le moltitudini, possono intervenire.
Mentre dal carcere la Tolokonnikova rispondeva che il capitalismo non è solo ideologia a cui contrapporre la critica della propaganda ideologica. Ha molta ragione Casadio quando dice: basta con l’eurocentrismo, con l’occidentalismo del capitalismo, perché l’altra faccia di questa parziale pacificazione che viviamo in Occidente è la condizione di schiavitù di milioni e milioni di proletari che sono la base della manifattura del mondo. Dobbiamo dunque ripristinare una visione mondiale dei rapporti di produzione.
L’idea della fine della classe operaia, del post-fordismo e di tutti i post che hanno distrutto in particolare in Italia il senso di una sinistra collocata tra le questioni sociali, ha un difetto di fondo, oltre a non riuscire a descrivere nemmeno la realtà com’è: essa non guarda al mondo quando dà per scomparsa la classe operaia, mentre nel mondo la globalizzazione mette in atto il più complessivo, radicale e sofisticato sistema di sfruttamento e di crescita mondiale della classe operaia. È per questo che la rottura dell’Unione è un punto qualificante, determinante e discriminante nelle posizioni. Da un lato c’è chi pensa che si possa “riformare il colpo di stato”, mentre noi pensiamo che il “colpo di stato” vada rovesciato, costruendo un’alternativa, partendo dalle lotte e dalle mobilitazioni.
Secondo punto: Mediterraneo. Noi siamo italiani e siamo un popolo auto-razzista, siamo uno dei popoli più auto-razzisti. Se ci dicono che siamo terroni ci offendiamo, si offendono anche i meridionali, non solo i settentrionali… La campagna euro-mediterranea è una questione di cultura: occorre ricostruire la consapevolezza che – la dico proprio così – abbiamo più a che fare con gli albanesi, con gli jugoslavi o con i marocchini piuttosto che con i lituani. Questa è una questione culturale ed è un problema, perché qui ci sono i tabù veri che vengono utilizzati dal regime in Italia. Uscire dall’Europa significa diventare un negro. Uso apposta questo termine. Invece no, noi dobbiamo agitare questa questione di fondo anche perché quella del Mediterraneo non è la questione del sud d’Europa, è la questione del Mediterraneo, cioè di quella frontiera che noi dobbiamo rompere e che oggi è la frontiera dove muoiono tutti gli anni decine di migliaia di persone. Non solo quelli che muoiono in mare, ma quelli che muoiono nei campi di concentramento che l’Europa ha delocalizzato per l’accordo che avevano l’Europa e l’Italia con la Libia per tenersi i migranti nei lager. Noi abbiamo l’esternalizzazione delle produzioni, delle attività, degli apparati ed anche dei lager.
Abbiamo l’idea, ma appaltiamo ai Paesi dell’altra parte del Mediterraneo la realizzazione.
Questo è un pezzo della mostruosità: la riunificazione del Mediterraneo è un grandissimo progetto sociale e civile, secondo me di infinita valenza morale più dell’unità dell’Europa. È un punto centrale su cui bisognerà insistere perché parte della nostra battaglia.
Noi abbiamo oggi una ripresa dell’emigrazione in Italia in due direzioni. I lavoratori qualificati vanno nel nord Europa, i piccoli imprenditori vanno invece nel sud Europa o sulla costa, fin sulla costa africana. L’Egitto era diventato il Paese dove c’era gran parte del decentramento della delocalizzazione della produzione tessile. Oggi la marcia dei piccoli imprenditori dall’Italia verso la Romania si è interrotta e su questo una piccola battuta la voglio fare: quando si sono aperte le frontiere e la Romania è entrata nell’Unione Europea e sono arrivati in Italia molti romeni, tra cui anche molti della malavita romena, c’è stata appunto una sollevazione in Italia. Io l’ho trovata una piccola legge del contrappasso, perché se pensiamo a che tipi di personaggi abbiamo mandato lì a fare gli imprenditori, io trovo giusto che ci abbiamo rimandato appena hanno potuto persone della stessa stregua. È stato uno scambio di delinquenti che abbiamo fatto. Allora io penso che se noi vogliamo intervenire su queste cose, dobbiamo aprire davvero l’idea che c’è una dimensione, un’altra dimensione, che esiste per tutti perché tu non puoi negarla, non puoi metterla solo con i respingimenti, con le corazzate che vanno a respingere in mare o con i campi di concentramento. C’è un problema, cioè che uno sviluppo sociale giusto deve essere su tutte e due le sponde del Mediterraneo, altrimenti l’idea di Europa che si costruisce è l’idea dell’Europa fortezza e non aggiungo ariana, ma potrebbe diventarlo.
Infine, l’ultima questione: la transizione.
Quando arrivò negli anni Venti al potere il Fascismo in Italia ci fu una discussione analoga a quella odierna: il fascismo italiano era il ritorno alla monarchia assoluta di Carlo Alberto? No, era peggio, perché totalitario e perché usava gli strumenti della tecnologia e del potere moderno per una società reazionaria. Analogamente il capitalismo liberista è molto peggio, da questo punto di vista, del capitalismo ottocentesco. Questo mi fa dire che proprio per questo, se è giusto, ovviamente, sottolineare la ferocia e la barbarie di questo sistema, noi non possiamo contrapporre semplicemente ad esso le bandiere del socialismo, affermando, come fanno tanti compagni, unica soluzione, socialismo subito.
Io sarei d’accordo, beninteso. Però domani la questione concreta è: come ci si arriva, qual è il processo, qual è il percorso di transizione (è giusto il paragone con i Paesi dell’America Latina, con i dovuti distinguo, perché l’Italia è un Paese “subimperialista” e non è solo vittima dell’imperialismo)? Quindi abbiamo una posizione molto più contorta e distorta, e ciò vale per la Spagna, così come per la Francia.
Ma, detto questo, sono d’accordo sul fatto che il processo che mettiamo in moto sia un processo di transizione nel quale per un lungo periodo vige ancora il capitalismo – questo bisogna dircelo – e si rimane dentro i meccanismi di mercato, pur avendo riaperto la via alla prospettiva al socialismo, che oggi viene totalmente negata dalla dittatura finanziaria europea. Perché la cosa vera che ha fatto l’Europa, questa dittatura europea, è negare l’esigenza stessa, anche sul piano culturale, dell’alternativa. La terza questione, dunque, su cui dobbiamo lavorare molto, anche nei processi di ricostruzione della sinistra, è l’idea di transizione. Uno dei guai della sinistra radicale nel nostro Paese è che da un lato c’è la rivendicazione immediata e dall’altra il socialismo. In mezzo non c’è niente, non c’è percorso e questo indebolisce anche la rivendicazione immediata, perché quando in una fabbrica si chiedono 100 euro di aumento, e dall’altra parte in questa situazione di crisi il padrone risponde: ma perché lo chiedi? E tu magari replichi: “perché voglio il socialismo”, non sei più forte, sei più debole. Devi allora poter indicare la praticabilità di un percorso, devi poter mostrare che il percorso macina obiettivi, è un percorso, appunto, non un salto altissimo dalla tua condizione immediata al sistema futuro. Queste questioni sono centrali e si fa bene a porle in questa sede. Naturalmente tali questioni richiedono la pratica, la costruzione del movimento, la costruzione dell’iniziativa. Noi ne stiamo discutendo con tanti compagni, con i compagni dell’Unione Sindacale di Base e della Rete 28aprile in Cgil. Abbiamo bisogno di costruire un movimento forte prima dell’avvio della grande campagna elettorale, quando arriverà qui Hollande a discutere di occupazione. I vampiri discutono di sangue… Ecco, se in quei giorni noi piazzeremo una gigantesca manifestazione italiana contro la Troika e contro l’austerità, saremo riusciti a fare una cosa importante.
Una nota di ottimismo. Quando ero bambino, mi ricordo che mia nonna mi diceva sempre: non devi passare davanti allo specchio e soprattutto non devo guardarti allo specchio perché se ti guardi allo specchio compare il diavolo. Io non so se a voi è capitato. Si diceva così e mia nonna me lo diceva: era un modo antico di combattere il narcisismo. Allora io all’inizio ero terrorizzato e quindi appena vedevo uno specchio giravo lontano per la paura, poi però con il tempo questo avvertimento mi ha portato alla cosa opposta. Volevo vedere se sarebbe comparso realmente il diavolo, e quindi cominciavo ad andare a guardare lo specchio di proposito.
E poi ho visto che non compariva. Dobbiamo fare la stessa cosa con l’Europa. Abbattere questo tabù, sconfiggere questa campagna ideologica, perché quando la gente capirà che con la rottura dell’Europa non compare il diavolo, avremmo avuto un processo di liberazione senza precedenti, perché tutte le cose, tutte le rinunce dei lavoratori, tutti i massacri a cui oggi ci stanno sottoponendo, non solo in Italia ma in tutta Europa, si mostreranno per quello che sono: subalternità a un tabù. Quando scoprirà che questo diavolo non esiste, l’Europa ricomincerà a parlare con la voce di una volta.