Sergio Cararo (in Contropiano anno 23 n° 1 – febbraio 2014)
Questo forum viene realizzato otto anni dopo uno analogo, da noi organizzato qui a Roma, dedicato a “L’Europa superpotenza. I comunisti, la democrazia e l’Europa”.
In quel dibattito – come in altri precedenti – incrociammo la spada dell’analisi con molti compagni che contestavano la nostra chiave di lettura sull’Unione Europea, come passaggio della costruzione del polo imperialista europeo. Questo non è tempo o luogo per recriminazioni, ma per portare il dibattito e le proposte nel merito e trasferire un’idea generale del cambiamento sul piano di prospettive credibili e praticabili per il movimento reale. Sembra una banalità, ma dobbiamo ammettere che sono ormai troppi anni che è stata abbandonata qualsiasi discussione sulla prospettiva della trasformazione sociale, fino a renderla evanescente e a sostituirla con la tattica, con le proposte congiunturali e spesso con una visione politicista del giorno per giorno.
Dobbiamo ammettere che questo si è dimostrato devastante per la sinistra, per i comunisti e per le forze di classe in Italia e in Europa.
Nel forum organizzato nel 2005 scrivevamo:
«Vorremmo evidenziare che quella del determinismo è una concezione che ha accompagnato tutti noi, le autocritiche sono qui inevitabili, nelle vicende dell’ultimo scorcio del ’900: ad esempio, la convinzione che negli anni ’60 e ’70 il capitalismo fosse agli ultimi suoi passi era diffusa e forte tanto ad est come ad ovest.
Nella Unione Sovietica si era talmente sicuri della forza delle contraddizioni “oggettive” del capitalismo che si è pensato come unico livello di confronto quello militare, lasciando poi ai popoli del terzo mondo ed alle classi operaie il compito di approfondire la crisi. Il contare sui rapporti di forza militari come elemento principale ha sostituito la costruzione del progetto sociale alternativo al capitalismo e la capacità teorica necessaria a questa stessa progettualità. Nei movimenti e partiti comunisti occidentali la situazione non è stata certo diversa; anche qui la “inevitabile” crisi del capitalismo ha condotto ad una sopravvalutazione della contingenza e della tattica, producendo anche una deleteria competizione tra le varie frazioni e organizzazioni, generando quel politicismo che ha prodotto e produce tanti danni. Tutto ciò ha impedito, anche qui, una capacità di teoria e di azione più avanzata producendo lo stesso blocco che si è avuto all’est».
Qualche mese fa abbiamo così titolato la conferenza annuale della RdC: “Rivoluzione è il senso del momento storico”. Lo abbiamo fatto senza velleitarismo, ma per rimettere al centro dell’azione politica, dentro una crisi di sistema dei capitalismi, l’esigenza della rottura, dell’alternativa e del cambiamento come esigenza oggettiva e priorità soggettiva.
Nasce di qui il dibattito e la proposta che la RdC ha deciso di portare dentro la discussione tra le forze di classe e la comunità intellettuale rivoluzionaria sia in Italia che nei Paesi europei e del Mediterraneo Sud.
1) Una prima valutazione dirimente è quella sulla natura dell’Unione Europea (cosa diversa dall’Europa). L’Unione Europea, a nostro avviso, è l’apparato imperialista al quale le classi dominanti europee hanno impresso una accelerazione in questi ultimi venti anni, ed in particolare dal 2010 con una raffica di Trattati che hanno consolidato questa natura. L’Unione Europea è la prima sintesi del processo di costituzione di un polo (quindi non più di un singolo Stato) imperialista, sufficientemente forte e ampio da poter pesare nella competizione globale con gli altri poli (gli Usa innanzitutto, ma anche la Russia, la Cina e i BRICS). La moneta unica è stato il passaggio costitutivo e decisivo di questa costruzione. In questa dimensione si è via via adeguato e rafforzato il sistema di poteri decisionali, sia attraverso i trattati, sia attraverso un processo di gerarchizzazione sociale e concentrazione economica monopolista a livello europeo. Non solo la classe lavoratrice, ma anche un pezzo delle borghesie nazionali è stato polarizzato, destrutturato e reso subalterno a questo processo.
2) L’Unione Europea e i suoi apparati, in quanto espressione politica, economica ed istituzionale della classe dominante e della borghesia vincente, sono oggi il nemico principale delle classi subalterne nell’area euromediterranea, non solo sul piano degli interessi sociali ma anche su quello democratico e dell’autodeterminazione. La fine del modello sociale europeo, la deregolamentazione liberista anche nelle economie dei Paesi europei e il colonialismo di ritorno verso i Paesi del Medio Oriente e africani, sono due facce dello stesso problema. La relazione e lo scontro tra interessi popolari e Unione Europea rappresenta oggi il punto più alto della contraddizione di questa fase storica caratterizzata da una aspra competizione globale interimperialista. Una competizione che la crisi sta rendendo più acuta, più estesa e più feroce.
3) Se è vero che l’Unione Europea non è riformabile, perché conformata sugli interessi strategici della classe dominante, essa non può essere il terreno di rivendicazione di una sua democratizzazione o del ritorno ad un modello sociale europeo (per decenni contrapposto al capitalismo selvaggio del modello anglosassone). Nessuna “altra Unione Europea è possibile” e continuare a confonderla con l’Europa è diventato qualcosa di più di un equivoco sulle categorie.
4) L’Unione Europea nasce e cresce sulle disuguaglianze interne e sociali perché questo è il terreno ideale e inesorabile della lotta per l’accumulazione capitalistica. Disuguaglianze interne accentuate dalla polarizzazione sociale verso l’alto (per pochi) e verso il basso (per molti), ma anche disuguaglianze regionali tra i Paesi del nucleo centrale (Germania soprattutto) e i Paesi PIGS. È sotto gli occhi di tutti come questo processo agisca in modo più forte in Spagna, Italia, Grecia, Portogallo di quanto agisca (ed agisce) in Germania o nei Paesi nordeuropei. Esiste una aristocrazia salariale tra i lavoratori del Nord Europa che beneficia del surplus accumulato dal capitalismo in Germania anche attraverso l’introduzione di una moneta – l’euro – strutturatasi intorno ai parametri del Deustsche Mark piuttosto che come media ponderata delle monete dei Paesi aderenti all’eurozona. Certo, le disuguaglianze agiscono anche in Germania (vedi i milioni di precari nei minijob o la differenziazione salariale di fatto tra lavoratori tedeschi e gastarbeiter), ma è indubbio che la condizione della classe – e la sua soggettività – non sia affatto sovrapponibile tra quella dei PIGS e quella tedesca. Non è una contraddizione solo di questa fase storica, perché è per molti aspetti la stessa con cui hanno dovuto fare i conti i movimenti rivoluzionari del XX Secolo.
5) Se parliamo della necessità della rottura come presupposto fondamentale per ogni trasformazione sociale, non possiamo che sostenere pubblicamente la necessità della rottura del punto più alto del sistema di comando capitalista sulla classe: l’Unione Europea. E se sosteniamo che la rottura sia un passaggio inevitabile e preliminare con l’obiettivo del cambiamento, non possiamo che partire dagli “anelli deboli” della catena imperialista europea. Nasce da qui il ragionamento sui PIGS, confortato dai dati della situazione oggettiva e dalla presenza di forze soggettive con possibilità inferiori di essere sussunte all’ideologia capitalista e ai benefici del surplus. L’idea straordinaria di una sollevazione simultanea di tutta la classe lavoratrice in tutti Paesi, che ha animato l’internazionalismo proletario e rivoluzionario nella storia, ha però sempre fatto i conti con la realtà in parte oggettiva e in parte soggettiva, di quei Paesi dove questa rottura è avvenuta.
La Russia rivoluzionaria ne aveva desiderio e necessità in Germania, Austria, Francia, Italia. La Cuba rivoluzionaria voleva trascinare con sé tutta la Nuestra America. La stessa rivoluzione Cinese avrebbe voluto che intorno a sé si sollevassero tutti i Paesi colonizzati del Terzo Mondo. Sappiamo che così non è stato, ma le rivoluzioni sono avvenute lì dove condizioni oggettive e intervento delle forze soggettive le hanno rese possibili.
6) Molti compagni hanno sottolineato come la proposta di rottura e fuoriuscita dall’Unione Europea in qualche modo rompa l’unità della classe lavoratrice europea e rischi di alimentare visioni e soluzioni di tipo nazionalista. Questa è una chiave di lettura sbagliata e fuorviante. E lo è per diverse ragioni:
a) L’unità della classe lavoratrice europea è una dichiarazione di principio molto discutibile, sia perché appare ormai quasi come un dogma, una sorta di destino manifesto che non si è mai manifestato, sia perché conferma una visione eurocentrista della classe lavoratrice proprio nel momento in cui essa si è ingrandita e distribuita a livello mondiale. I lavoratori tunisini o quelli sudafricani o quelli indiani che rapporto di alleanza dovrebbero avere concretamente con la classe lavoratrice europea? Essi trarrebbero maggior beneficio da una unità tutta ideale o dalla rottura rivoluzionaria o anche solo dall’indebolimento di uno dei poli imperialisti che contribuisce – e in alcuni casi determina – la loro oppressione? Ma anche i lavoratori tedeschi o danesi o olandesi sarebbero indeboliti o rafforzati dall’emancipazione rivoluzionaria o democratica dei lavoratori in uno o più dei Paesi PIGS europei? I fatti ci dicono che la rottura nella Russia rivoluzionaria ha reso il resto dei lavoratori europei – e anche nel resto del mondo – più forti e non certo più deboli, fino a costringere per decenni la borghesia in Europa al compromesso sociale sul welfare e sul modello sociale europeo.
b) La proposta di fuoriuscita dall’Unione Europea non è una campagna che la RdC intende circoscrivere all’Italia, ma che intende estendere ai Paesi PIGS, che rappresentano l’anello debole del polo imperialista europeo. La presenza dei compagni spagnoli e greci al forum ne è la dimostrazione. Ciò non significa alimentare il mito della simultaneità della rottura, ma significa dare alle classi subalterne l’esatta percezione che per rompere ed edificare una alternativa, la dimensione nazionale non è più sufficiente, che l’aggregazione e l’integrazione tra Paesi non è un tabù né un processo che può gestire solo la borghesia. Questo è un aspetto decisivo per coinvolgere nel processo di rottura e costruzione i Paesi del Mediterraneo Sud, vera e propria periferia produttiva e serbatoio di forza lavoro del polo imperialista europeo.
c) Una visione distorta e, sotto certi, aspetti rinunciataria di molti compagni porta a ritenere che un processo di rottura e di integrazione in Europa possa essere gestito solo dalla borghesia. Il fatto che settori della borghesia perdente nel processo di gerarchizzazione europea si schierino contro l’euro o l’Unione Europea (cosa già avvenuta in Paesi come Francia, Olanda, Danimarca), processo oggi in crescita anche nei Paesi PIGS (basti pensare al blocco sociale berlusconiano in Italia), non significa affatto che tale processo debba essere inevitabilmente egemonizzato dalla borghesia. Qui si riapre e si ripropone il problema della lotta per l’egemonia tra classe lavoratrice e gli altri settori sociali che in alcune fasi storiche vedono interessi congiunturali convergenti. In ogni processo di transizione, finanche in quelli rivoluzionari, le alleanze sociali sono state decisive, così come è stato decisivo chi ha spinto più in avanti il processo di trasformazione e lo sviluppo delle forze produttive. In alcuni casi la borghesia ha prevalso (vedi in Medio Oriente), in altri è stata sconfitta (Russia, Cina, Cuba), in altri partecipa al processo in una posizione ancora in gioco (vedi l’America Latina dell’Alba). Dichiarare che questa lotta per l’egemonia sui processi di rottura, transizione e integrazione sia persa in partenza, significa arrendersi al riformismo come la migliore delle prospettive possibili o trastullarsi su una rivoluzione da manuale. Entrambe le posizioni non possono che agevolare il rafforzamento della forze di destra e la loro egemonia anche sul nostro blocco sociale di riferimento, oggi disgregato e privato di identità e soggettività politica.
Alcune proposte di lavoro
Una proposta politica che si fonda sulla rottura del quadro esistente e degli apparati costruiti dalla classe dominante non può che riporre con forza il problema della prospettiva del cambiamento, un cambiamento non solo necessario ma possibile. Senza questa visione “lunga”, quel guardare i propri piedi che in qualche modo rappresenta la logica dominante nella sinistra, perde qualsiasi potenzialità di poter rappresentare di nuovo una ipotesi di emancipazione e avanzamento della classe lavoratrice e dei settori sociali subalterni nel loro complesso. Noi dobbiamo agire sulla rottura come necessità e avanzare soluzioni alternative che indichino percorsi credibili di fronte all’orizzonte limitato e regressivo rivelato dal capitalismo anche in Europa. In questo senso appare di straordinaria importanza la campagna “Noi restiamo”, che i compagni e gli studenti del Coordinamento Giovani della Rete dei Comunisti hanno messo in campo contro la fuga dei cervelli, la destrutturazione e il dualismo nei sistemi formativi e nella ricerca tra i Paesi del nucleo centrale della UE e quelli periferici, la sottrazione di nuove generazioni, capitale umano e risorse intellettuali a questi Paesi e la loro emigrazione verso il nucleo centrale del polo imperialista europeo.
Per fare questo non basta più (e non è mai stato sufficiente) un sistema di buone idee e buone proposte, perché le buone idee e le buone proposte camminano sulle gambe degli uomini e delle donne in carne ed ossa. Dunque la sedimentazione e l’organizzazione diventano l’elemento decisivo.
Alcuni degli obiettivi nella proposta politica che punta alla rottura della UE, alla fuoriuscita dall’eurozona e alla costituzione di un’area alternativa euromediterarnea, non sono il prodotto di ragionamenti accademici o a tavolino ma una risultanza dei processi reali: 1) Il ripudio del pagamento del debito pubblico, oggi per l’84% in mano a banche, assicurazioni, fondi di investimenti privati italiani e stranieri. Non solo un debito pubblico di 2mila miliardi non potrà mai essere pagato, ma questo sottrae ogni anno tra i 70 e i 100 miliardi di interessi.
Se si vuole avviare una controtendenza è inevitabile ripudiare questa ipoteca del debito pubblico sul futuro. I Paesi latinoamericani, che abbiano dato vita all’ALBA o meno, sono partiti proprio dal non pagamento del debito estero per far ripartire lo sviluppo; 2) Le nazionalizzazioni delle industrie e dei servizi strategici – pensiamo all’Ilva, all’Alcoa, all’Alitalia, alla Telecom etc. – sono emerse come soluzioni obiettive a fronte del fallimento della gestione privata di queste aziende. Lo stesso problema e la stessa soluzione attengono alle banche. La sottrazione delle leve del credito ai privati è decisiva per poter disporre delle risorse per lo sviluppo e per limitare o spuntare i danni della speculazione finanziaria sui Paesi che “rompono” la gabbia dell’eurozona.
La rottura della UE e la fuoriuscita dall’eurozona sono un terreno di aperta competizione anticapitalista e antifascista – un antifascismo moderno e attualizzato e non liturgico e straordinariamente inefficace – tra una opzione progressista e internazionalista e una reazionaria e xenofoba sulla quale la destra può raccogliere forze e consensi. Se la sinistra di classe rinuncia a questa competizione dentro e a ridosso del nostro blocco sociale di riferimento, si suicida politicamente, come già accaduto in passato in Europa.
Noi dobbiamo lavorare alla ricomposizione in una fase in cui è fortissima la tendenza alla disgregazione, sia sul piano sociale che politico. In questo senso il progetto di confederalità sociale messo in campo da alcuni sindacati di base e conflittuali è decisivo per riunificare il fronte sociale del lavoro, della precarietà e della disoccupazione, delle domande sociali sull’abitazione e i servizi e dei diritti ambientali, in un quadro drammatizzato dalla crisi e dalla devastazione prodotta dagli interessi privati sui beni collettivi e naturali (vedi la Campania o la Val di Susa).
Sul piano politico abbiamo investito e stiamo lavorando dentro Ross@ con spirito leale, insieme ad altri compagni che hanno posizioni diverse e non del tutto coincidenti con le nostre. Occore saper praticare uno spirito unitario e di sintesi e agire affinché il demone del politicismo venga superato dalla capacità di sedimentazione e organizzazione del conflitto sociale reale.
La campagna di Ross@ per il referendum contro i Trattati Europei va perseguita con forza perché consente ai militanti e agli attivisti della sinistra di classe di “rimettere la faccia nelle strade e tra la gente”. Questa campagna prevede un passaggio politicamente forte con la proposta di tenere una manifestazione contro i diktat dell’Unione Europea in primavera, una manifestazione esplicita di ripudio dell’Unione Europea, dei suoi istituti, dei suoi trattati, delle misure antisociali che ha imposto ai lavoratori e ai Paesi più deboli.
Infine serve un presupposto comune, una visione comune con i compagni e le forze di classe in Paesi come Grecia, Spagna, Portogallo, Cipro affinché questa proposta o gran parte di essa cominci a marciare in parallelo in più Paesi. In tal senso è già in agenda una vera e propria ricognizione sul campo anche nei Paesi del Mediterraneo sud (Maghreb e Medio Oriente) per includerli nel dibattito e nell’azione comune intorno a questa proposta.