Tra declino USA e ambizioni del polo arabo-islamico
Sergio Cararo (in Contropiano anno 23 n° 2 – novembre 2014)
E’ evidente come ormai, dopo anni di interventi militari e di destabilizzazione imperialista sistematica, il già precario equilibrio mediorientale stia saltando completamente e con esso stiano saltando anche i precedenti sistemi di alleanze o di contrapposizione sui quali si erano rette le relazioni nell’area. L’entrata in campo dello Stato Islamico o Isis segna una nuova rottura della situazione precedente e spalanca la porta a nuovi scenari di guerra e instabilità in molti Paesi della regione. Creato, finanziato e sostenuto per combattere in Siria contro il governo di Assad, l’Isis ha rotto i patti e ha cominciato a muoversi anche in proprio.
L’Iraq, il Paese maggiormente sottoposto alla pressione dello Stato Islamico, dall’invasione statunitense del 2003 è stato di fatto diviso e dilaniato al proprio interno in tre aree (come teorizzato dall’analista israeliano Oded Ynon già dai primi anni ’80): la regione curda nel nord, i sunniti al centro e gli sciiti nel sud.
I regimi di ispirazione non religiosa con le primavere arabe sono stati bruscamente sostituiti in Libia e Tunisia, per un periodo in Egitto ma non ancora in Siria né, tantomeno, in Barhein. L’impeto delle primavere arabe, nate con aspirazioni democratiche e sociali ma anche agevolate dall’apertura di Obama all’Islam politico moderato con il discorso del Cairo nel 2009, è stato ben presto “normalizzato”. Quando l’amministrazione statunitense decretò nel 2011 che il loro esito poteva essere “Evolution, but not revolution”, era evidente che nessun cambiamento dei rapporti sociali di proprietà o controllo autonomo delle risorse sarebbe stato consentito.
I palestinesi sono stati divisi in due entità distinte e talvolta contrapposte (Hamas e Al Fatah) tra Cisgiordania e Gaza. I contrasti si sono estesi poi anche alla rete dei campi profughi in Libano e Siria. Solo recentemente Al Fatah e Hamas hanno rilanciato il progetto di unità nazionale.
In Libano attentati e scontri – sia interni che importati dalla vicina Siria – stanno facendo saltare i fragili equilibri raggiunti negli anni più recenti tra la componente sciita e quella sunnita e maronita.
L’Iran, continuamente sotto il mirino di Israele che ne teme la crescita come potenza regionale, oscilla tra l’essere il nemico principale dell’asse tra USA, Israele, Arabia Saudita e un interlocutore necessario per evitare l’instabilità in Iraq e contrastare lo Stato Islamico.
La Turchia sta rinculando dopo anni in cui ha cercato con ogni mezzo di diventare una potenza regionale di riferimento, spesso in alternativa alle ingerenze dell’Arabia Saudita.
Le petromonarchie del Golfo hanno separato le loro ambizioni tra l’Arabia Saudita (che ha fomentato lo jihadismo in ogni teatro, spesso su richiesta dagli USA) e il Qatar (potenza emergente) che guarda ad altri interessi.
La Giordania appare come il classico vaso di coccio che sa di non poter più campare di rendita con le garanzie che in questi decenni ha offerto a Stati Uniti e Israele.
Ad acutizzare questa divaricazione di ruoli e alleanze storiche sono venuti la crisi e il golpe in Egitto nel 2013 e poi i bombardamenti israeliani su Gaza nell’estate del 2014.
Due fatti che hanno frantumato tutte le alleanze preesistenti e cominciano a definirne delle nuove, alimentando così uno scenario di destabilizzazione permanente in tutta la regione. Turchia e Qatar sono contro il nuovo regime egiziano, mentre Arabia Saudita e Israele hanno sostenuto il colpo di stato dei militari e la messa fuorilegge dei Fratelli Musulmani ma anche i bombardamenti israeliani su Gaza di questa estate. Alla divisione storica dell’Islam tra sunniti e sciiti, si aggiunge uno scontro durissimo per l’egemonia dentro il mondo sunnita, alimentato apertamente dai Guardiani della Mecca (i wahabiti dell’Arabia Saudita) che devono però fare i conti con gli altri competitori.
La spregiudicatezza nelle alleanze e i loro repentini cambiamenti stanno ben dentro la storia recente del Medio Oriente. Ma è innegabile come in tale scenario abbiano influito le ingerenze e adesso il logoramento dell’egemonia imperialista degli Stati Uniti. In questo tutti contro tutti, l’unico elemento che sembra poter ricomporre le vecchie alleanze – almeno temporaneamente – è formalmente la guerra contro lo Stato Islamico (Isis) che si va facendo strada tra la Siria e l’Iraq. Ma a nessuno può sfuggire che la destabilizzazione del governo di Assad possa diventare l’agnello sacrificale che può rimettere insieme Stati Uniti e Turchia, Qatar e Arabia Saudita, Israele e le vecchie potenze coloniali dell’area come Francia e Gran Bretagna.
Lo scossone che è arrivato dall’Egitto ha fatto saltare parecchi equilibri e compromessi precedenti. Rimetterli insieme attraverso il “nemico comune” oggi dell’Isis, domani della Siria e dopodomani dell’Iran, può essere la carta – parecchio disperata però – per cercare di rimettere una pezza sui numerosi strappi in Medio Oriente. Che il gioco riesca è tutto da dimostrare, a partire dalla convergenze e divergenze su chi dovrebbe sostituire Assad. Gli esempi che vengono dai risultati delle aggressioni militari in Iraq e Libia, tra i quali l’affermazione dello Stato Islamico (Isis) in Iraq/Siria e dell’Alba islamica o del Califfato di Derna in Libia, non sono certo confortanti.
Gli Stati Uniti creano instabilità ma non riescono più a gestirla
Gli USA in Medio Oriente (sollecitati in questo da Israele) hanno agito per frammentare, dividere, contrapporre, destabilizzare l’area.
L’idea statunitense è stata sempre quella di sentirsi talmente forti da poter gestire la instabilità che hanno contribuito a determinare, preferendo la destabilizzazione e la divisione del mondo arabo alla stabilità e consolidamento delle relazioni all’interno dei Paesi arabi e islamici. A pochi anni di distanza viene da chiedersi quale siano stati i risultati ottenuti con l’attacco e l’invasione dell’Iraq o della Libia. Il buon senso direbbe che la situazione precedente – pur fondandosi su regimi autoritari – assicurava sicuramente maggiore stabilità, mentre oggi si è convertita nel suo esatto contrario. E non bastano certo i droni o i bombardamenti aerei per gestire questa situazione.
Gli equilibri in Medio Oriente erano stati bruscamente definiti nel 1916 dal trattato Seyss-Piquot che spartì gran parte della regione resa disponibile dal crollo dell’impero Ottomano tra le due maggiori potenze coloniali dell’epoca: Francia e Gran Bretagna. Ma solo quaranta anni dopo, nel 1956, era la potenza imperialista emergente, gli Stati Uniti, a stoppare bruscamente l’intervento militare anglo-francese (e israeliano) contro l’Egitto che aveva nazionalizzato il Canale di Suez.
Veniva così sancita la fine dell’egemonia delle vecchie potenze coloniali europee in Medio Oriente e l’avvento del nuovo imperialismo egemone nella regione: gli USA. Sessanta anni dopo, nonostante ripetuti interventi militari diretti e indiretti in Medio Oriente (golpe in Iran nel ’56, intervento militare in Libano nel 1982, prima e seconda guerra contro l’Iraq nel 1991 e 2003, sostegno sistematico alle aggressioni e al colonialismo israeliano), possiamo davvero affermare che la situazione sia ancora questa? Dentro la crisi di sistema che si andava delineando piuttosto nitidamente all’inizio del XXI secolo (è sempre bene ricordare che i giornali della mattina dell’11 settembre 2001, quella degli attentati alle Torri Gemelle, dedicavano le loro prime pagine alla crisi), la sintesi tra interessi capitalisti divergenti e prevalenti è diventata molto più difficile. I centri decisionali hanno cominciato a riempirsi di “apprendisti stregoni” che pensavano – come in passato – di poter gestire la lotta al terrorismo jihadista insieme all’alleanza con alcune correnti dell’Islam politico, di poter agire in Iraq prima a sostegno degli sciiti e poi contro gli sciiti con repentini cambi di alleanza, di poter armare lo Jihad in Libia e in Siria come era avvenuto in Afghanistan, Cecenia, Jugoslavia, di poter continuare a essere arbitri unici di un negoziato tra israeliani e palestinesi che tutti percepiscono come inutile e inesistente.
Il problema è che venti anni fa gli Stati Uniti avevano l’egemonia mondiale dopo la dissoluzione dell’URSS. Venti anni dopo lo scenario è cambiato. Sono in tanti nel mondo a percepire che l’egemonia globale statunitense segna il passo, che altri soggetti stanno emergendo, che l’alleanza servile con Washington non è sempre la scelta migliore perché gli USA hanno la brutta abitudine del dio Saturno: mangiano i propri figli per paura che diventino troppo forti.
Consapevole di questo processo, il documento dei neocons statunitensi, il famoso Progetto per un Nuovo Secolo Americano, scriveva già nel settembre 2000: «Al momento, gli Stati Uniti non hanno un competitore globale. La grande strategia americana deve essere finalizzata a tutelare ed estendere nel futuro più lontano possibile questa posizione di vantaggio. Esistono tuttavia potenzialmente Stati potenti non soddisfatti dell’attuale situazione e desiderosi di cambiarla, se sarà a essi possibile, in direzioni che mettono a rischio la condizione relativamente pacifica, prospera e libera di cui il mondo gode oggi» [1].
Scongiurare con ogni mezzo, soprattutto militare, ogni segnale di declino e di perdita dello status di potenza egemone, è l’incubo con cui stanno facendo i conti tutte le amministrazioni statunitensi, siano esse repubblicane o democratiche. In realtà i centri decisionali dell’imperialismo – negli Stati Uniti in particolare, ma anche nell’Unione Europea – devono sempre trovare una sintesi tra i vari interessi dominanti in gioco.
Sono questi poi a determinare le scelte delle varie amministrazioni presidenziali, repubblicane o democratiche, socialiste o democristiane che siano. In alcune fasi prevalgono alcuni interessi (industria bellica, petrolifera, etc.) in altre ne prevalgono altri (finanza, industria, etc.). Ma oggi che gli spazi e gli sbocchi si sono ristretti bruscamente, la competizione interna tra i vari interessi e poi quella internazionale si sono fatte più pesanti, cattive, pericolose.
Quando il generale egiziano Al Sissi ha “fatto di testa sua” nella repressione delle piazze nonostante le quindici telefonate del segretario del Pentagono che pretendeva una scelta diversa, è stato il segno che qualcosa stava cambiando. Quando la minaccia della sospensione dei finanziamenti annuali all’Egitto diventa un’arma spuntata, perché gli sceicchi di Riad promettono il triplo di quello che arriva dagli USA, siamo di fronte a un segnale rilevante. Quando gli USA sono a un passo dalla guerra con la Russia per convincere i partners regionali a investire sulla loro pipeline “Nabucco” invece che sui corridoi russi per gestire le rotte di gas e petrolio che arrivano nel Mediterraneo e in Europa, è un sintomo importante. Difficile dire se lo scenario è cambiato in meglio o in peggio di prima. Quel che è certo è che sta cambiando.
Il problema semmai è che il cambiamento sarà violento, tumultuoso, per moltissimi aspetti indecifrabile. Come detto di recente da Henry Kissinger, «il concetto di ordine mondiale che ha governato sinora i rapporti internazionali, è entrato in una crisi irreversibile» [2].
Il declino di una potenza egemone come sono stati gli USA in Medio Oriente non può che generare una fase di devastante instabilità, di cambiamenti di alleanze, di scontri e repentine tregue. Un nuovo equilibrio nascerà, se nascerà, da un periodo di grande caos.
Ma dalla instabilità generale e dentro l’instabilità del Medio Oriente possono crescere anche nuove forze e nuove ambizioni con cui in molti, comprese le vecchie e nuove potenze imperialiste, dovranno fare i conti.
La grande potenza islamica. Un nuovo polo emergente?
È interessante l’analisi avanzata da Aldo Giannuli in un suo recente articolo relativo al contesto in cui si è presentato alla ribalta lo Stato Islamico (Isis). «Il mondo islamico conta più di un quinto della popolazione mondiale, ha un potenziale militare fra i maggiori del mondo, pesa per circa il 9% della finanza mondiale e ha in pugno la maggior parte delle risorse petrolifere. Ma, essendo frammentato in una trentina di Stati, pesa pochissimo nella scena internazionale: non ha un solo membro permanente del Consiglio di Sicurezza o nel G8, conta pochissimo nelle istituzioni finanziarie come nelle alleanze militari e anche nel G20, ha una presenza del tutto marginale» [3].
È una diagnosi che può aiutare a comprendere molti fattori e ambizioni emergenti nell’area mediorientale. Ma c’è dell’altro, in questa analisi, che merita di essere segnalato: «Il mondo islamico è coinvolto nell’80% dei conflitti armati attualmente in corso e ha sviluppato un forte antagonismo nei confronti degli altri Paesi espressione di diversi modelli di civiltà. Infine, soprattutto nel mondo arabo, c’è una diffusa consapevolezza di stare attraversando una stagione straordinaria grazie alle risorse petrolifere, ma che questo momento magico non durerà ancora a lungo e quando il petrolio sarà esaurito, il mondo islamico avrà perso la sua grande occasione, se non si sarà costituito prima in grande potenza mondiale. Tutto questo è fonte di esasperate frustrazioni e di uno stato ansioso che investe in particolare buona parte del mondo arabo. Questo senso di frustrazione, sta producendo la nascita di un’area transnazionale (di cui l’elemento più vistoso, ma non unico, sono i Fratelli Musulmani). Tutto questo trova il suo elemento di precipitazione nella ricerca della costituzione della “grande potenza islamica”, un polo in grado di assumere la leadership dell’intera area, di riscattare le troppe sconfitte subite e che si inserisca nel novero delle maggiori potenze mondiali». Secondo Giannuli però, se una grande potenza islamica dovesse sorgere «molto difficilmente potrebbe venire da Paesi islamici non arabi come Iran, Pakistan, Bangladesh, Turchia, Indonesia, Nigeria. Il “Califfato” può essere costruito solo intorno alla “centralità araba”».
Si sta dunque delineando lo spazio per l’affermazione di una potenza arabo-islamica capace di pesare sia in tutto il Medio Oriente che nelle relazioni internazionali? Se è vero che siamo passati nella fase storica della competizione globale, del relativo declino dell’egemonia USA e della ridefinizione dei rapporti internazionali, diventa difficile escludere che queste ambizioni ci siano e che in parte fossero quelle rese già visibili al mondo dal commando che realizzò gli attentati dell’11 settembre negli Stati Uniti.
Su questo, negli anni, siamo andati spesso in controtendenza rispetto alle tesi che sostengono che l’11 settembre sia stato “organizzato dalla Cia”. Se non si può sottovalutare quanti buchi la rivalità tra le varie agenzie di intelligence statunitensi abbia lasciato aperti nella sicurezza nazionale, abbiamo anche ritenuto questa tesi consolatoria e fuorviante. Consolatoria perché pensare che sia opera della Cia ci risparmia da ogni sforzo di analisi, fuorviante proprio perché ha negato sin dall’inizio che dentro le borghesie arabo-islamiche stesse maturando l’ambizione a contare di più in Medio Oriente e nel mondo e – di fronte allo stop imposto dagli USA a tali ambizioni – che esse abbiano cercato di portarle alla luce con degli attentati clamorosi e per certi versi epocali nel cuore dell’imperialismo egemone.
Chi erano e cosa rappresentavano ad esempio gli attentatori dell’11 settembre? «Troppo spesso descritte esclusivamente come tradizionali e conservatrici, le società arabe e musulmane sono comunque cambiate in questo quarto di secolo», sostiene un autorevole osservatore come Alberto Negri. «Non si spiega altrimenti il fatto che i jihadisti coinvolti nelle operazioni di Al Quaeda siano borghesi istruiti con basi tecniche e scientifiche secolari. Il terrorismo islamico, come molti suoi predecessori in Occidente, è un’attività borghese» [4].
Ma come è nato questo “embrione di classe dirigente” nel mondo arabo-islamico? E di quali mezzi dispone? Per rispondere a tali domande, dobbiamo porci le stesse domande che si sono posti centinaia di “rampolli” delle élites nei Paesi arabi e islamici a metà degli anni Novanta, quando – racconta un esperto conoscitore di quel mondo come Ahmed Rashid – Osama Bin Laden riunì intorno a sé i veterani della guerra afgana, «disgustati dalla vittoria statunitense contro l’Iraq e dalle élites al governo nei Paesi arabi che avevano permesso la permanenza delle truppe statunitensi nel Golfo» [5].
Si tratta della crème delle nuove generazioni delle petromonarchie del Golfo, ma anche di ricchi rampolli egiziani, algerini, giordani, pakistani. Alcuni hanno combattuto in Afghanistan ma anche in Bosnia e nella prima guerra in Cecenia, spesso lo hanno fatto fianco a fianco con istruttori militari statunitensi o di Paesi della Nato dai quali hanno imparato molti trucchi della “guerra sporca”. Esattamente come accaduto adesso in Siria con molti miliziani dell’Isis.
Sono istruiti perché in molti casi hanno studiato nelle università USA o nei college inglesi. Sono ricchi perché la Jihad Corporation può mettere le mani dentro i 230 miliardi di dollari delle istituzioni finanziarie islamiche [6]. Secondo fonti dell’intelligence, la Rabitat al Alam al Islami (Lega mondiale musulmana) costituisce il principale finanziatore delle attività salafite in tutto il mondo. Essa finanzia, organizza e gestisce le università religiose in Arabia Saudita e attraverso gli sceicchi locali, nel resto del globo, finanzia e gestisce anche le case editrici e gli istituti di comunicazione di massa sparsi nei vari continenti.
Non solo, le petromonarchie arabo-islamiche hanno circa 1.800 miliardi di dollari investiti negli Stati Uniti e in Europa dove si sono comprati prestigiosi club calcistici, quote di compagnie aeree, di banche o di case di moda e marchi di lusso.
Un loro spostamento provocherebbe danni significativi (nel caso degli USA devastanti) sulle economie dei Paesi occidentali.
Uno dei primissimi documenti di Osama Bin Laden (23 agosto 1996), ad esempio, esplicitava l’appello a «riprendere tutto il petrolio nelle mani nell’Islam» e a ritenere la presenza degli USA nel Golfo come «il più grande pericolo che minaccia le più grandi riserve di petrolio del mondo». Per queste ragioni, i popoli sarebbero stati costretti allo Jihad armato contro gli occupanti.
Una parte di questa élite ha anche realizzato una delle principali e più riuscite operazioni di omogeneizzazione culturale del mondo arabo-islamico, dando vita al network televisivo Al Jazeera nell’emirato del Qatar. Al Jazeera (da alcuni anni sfidata dal network Al Arabja, messo in piedi dall’Arabia Saudita) si è rivelato uno strumento di altissima qualità che per la prima volta ha mostrato alla popolazione arabo musulmana, e non solo, quanto avviene in tutto il Medio Oriente fino all’Asia Centrale, ridando – per la prima volta – identità e protagonismo a un mondo vissuto dentro la totale subalternità coloniale e post coloniale. Il brusco passaggio di Al Jazeera nelle mani dei Fratelli Musulmani (sostenuti dal Qatar) e la concorrenza di Al Arabja hanno ridotto l’influenza di Al Jazeera, ma non ne hanno certo eliminato l’esempio né la capacità.
Ma se una parte della nuova borghesia arabo-islamica ha scelto la strada della modernizzazione per “vie pacifiche”, un’altra parte ha scelto di passare all’azione militare con un progetto politico ben preciso. Questa frazione si rifà in qualche modo alla rottura operata nell’Islam politico dall’egiziano Sayyed Qutb (fatto fucilare da Nasser nel 1966), che possiamo definire come l’iniziatore dell’Islam combattente e che teorizzò il ricorso alla lotta armata per prendere il potere spodestando i leader e i governi arabi “apostati”. La tesi di Qutb sulla necessità di un Islam combattente fu in qualche modo confermata dal colpo di stato con cui in Algeria nel 1992 fu impedita la conquista del potere politico, tramite le elezioni, dell’islam politico, in qual caso espresso dal Fis (Fronte Islamico di Salvezza).
Questi settori della nascente borghesia arabo-islamica ritengono di poter essere classe dirigente, hanno ingenti mezzi finanziari, controllano gran parte delle riserve petrolifere del mondo ma non hanno alcun peso politico internazionale, né sul teatro regionale del Medio Oriente.
A opporsi a questa ambizione sono soprattutto gli Stati Uniti e la subalternità delle monarchie o dei clan familiari al governo nel mondo arabo-islamico.
Questa frazione della borghesia araboislamica ha una sua visione della modernità ma la declina con una visione fondamentalista che in verità ha mutuato, nel suo esatto contrario e sulla base di una inevitabile reciprocità, da Samuel Huntington e dal suo saggio su Lo scontro delle civiltà del 1996. Huntington infatti scriveva: «La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e le fonti di conflitto principali saranno legate alla cultura. Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro» [7].
I neocons statunitensi hanno provato a costruire una guerra su questa tesi, la stessa cosa sta facendo oggi Obama e l’amministrazione statunitense con la guerra dei volenterosi «contro l’orrore dell’Isis». Ma entrambi hanno sottovalutato un “dettaglio”, e cioè che la guerra di civiltà poteva e può essere anche bilaterale e non solo unilaterale, nel senso che anche il nemico ti fa la guerra. L’11 settembre negli USA o gli attentati di Madrid e Londra hanno dimostrato che te la possono fare anche dentro casa. Dunque la guerra di civiltà può avere un carattere costituente anche per le ambizioni di potenza nel mondo arabo.
Questo blocco di potere arabo-islamico inoltre conosce bene l’Occidente. Lo ha frequentato, ci ha studiato, ci ha vissuto e in molti casi ci vive. Spesso ne conosce le leadership (vedi i rapporti tra il clan Bush e il clan Bin Laden) e ne conosce i punti deboli. Maneggia adeguatamente le comunicazioni di massa, oggi terreno fondamentale di ogni guerra globale. I video dell’Isis, per quanto allucinanti, confermano una regia sapiente e capace dietro la comunicazione di massa che diffondono.
Ma la nascita di una grande potenza arabo-islamica deve fare i conti con parecchi intoppi sulle sue ambizioni. Ad esempio l’atomica islamica al momento la detiene un Paese non arabo come il Pakistan (con una operazione finanziata soprattutto dall’Arabia Saudita), forse ci sta andando vicino l’Iran (altro Paese non arabo e per di più non sunnita ma sciita) e nella regione agiscono le ambizioni di un’altra potenza islamica ma non araba come la Turchia, oggi alleata con il Qatar e in aperta competizione con l’Arabia Saudita. La stessa sunna (la maggioranza della umma musulmana) appare divisa tra il network dei Fratelli Musulmani e quello wahabita-salafita. Con il secondo che ha agevolato, ad esempio, il colpo di stato militare in Egitto, si oppone al governo islamico in Tunisia, ha sostenuto i bombardamenti israeliani su Gaza per indebolire Hamas, contrasta il network avversario in Libia e, attraverso la sua longa manu dello Stato Islamico (Isis), entra spesso in conflitto con le altre tribù sunnite sia in Iraq che in Siria [8].
Dunque all’instabilità e alle guerre incentivate o pianificate dall’imperialismo statunitense in Medio Oriente, alle periodiche punizioni che Israele infligge contro i popoli e i Paesi arabi, si somma una competizione interna all’Islam politico che disegna e ridisegna continuamente le alleanze e le inimicizie, ostacolando una centralizzazione degli interessi e degli obiettivi regionali e internazionali. Ma anche nel mondo arabo-islamico, come nel resto del mondo, il ricambio generazionale, il logoramento delle caste dominanti corrotte e le maggiori opportunità stanno creando le basi per un possibile polo geopolitico autonomo. Non è un caso che l’Isis abbia scelto come definizione di se stesso quello di Stato Islamico, l’idea di uno Stato è sicuramente una evoluzione rispetto a quella della “base” dalla quale era ispirata ad esempio Al Qaida.
In Medio Oriente un nuovo equilibrio nascerà, ma nascerà da un periodo di grande caos e di guerra che, al momento e purtroppo, non vede come protagonisti movimenti progressisti o rivoluzionari nel senso migliore del termine. Al contrario i cambiamenti hanno un segno tuttora reazionario. Le aspirazioni panarabiste, laiche e progressiste sono state demolite dall’alleanza tra imperialismo e petromonarchie e coperte ideologicamente dall’Islam politico più reazionario. L’unica certezza è che in ogni modo e con ogni mezzo dobbiamo sottrarci alla tentazione di arruolarci nella mistificazione tutta imperialista della “guerra di civiltà” o delle guerre umanitarie che ne coprono gli orrori.
Note
[1] ↑ Project for a New American Century, settembre 2000.
[2] ↑ Sul «Corriere della Sera» del 2 settembre 2014 è apparsa qualche anticipazione del nuovo libro di H. Kissinger, World Order, Penguin Press, 2014.
[3] ↑ A. Giannuli, Ma Al Qaida o l’Isis sono solo quel che sembrano?, su www.aldogiannuli.it, 22 agosto 2014.
[4] ↑ A. Negri, Viaggio nella Jihad Corporation, «Il Sole 24 Ore», 3 agosto 2005.
[5] ↑ A. Rashid, Talebani. Islam, petrolio e il Grande scontro in Asia centrale, Feltrinelli, Milano, 2002, p. 165.
[6] ↑ I. Warde, Islamic finance, «Le Monde diplomatique», settembre 2001.
[7] ↑ S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano, 2000. Huntington scrive le sue tesi sullo scontro di civiltà prima in un saggio su «Foreign Affairs» nel 1993 e poi nel libro dall’omonimo titolo che lo renderà famoso nel 1996.
[8] ↑ Cfr. E Ardemagni, Dal Sinai allo Stato Islamico, i nuovi fronti dell’Arabia Saudita, «Limes», settembre 2014.