Mauro Casadio (in Contropiano anno 23 n° 2 – novembre 2014)
Da questa estate si tengono in tutta Europa le iniziative dei Governi per il centenario della Prima guerra mondiale, vengono propinate ore e ore di trasmissioni televisive, di pubblicità di iniziative a ricordo, vengono scritti articoli sui giornali, tutti ricordando i lutti della guerra, la sua irrazionalità, la sua inumanità. Da ogni parte viene profuso a piene mani un pietismo per quelle vittime che nel contesto attuale mostra tutta la sua ipocrisia.
Su questa ricorrenza si sta infatti consumando un’opera di mistificazione storica, necessaria all’attuale politica dei governi europei e dell’Unione Europea. Si afferma infatti che la costruzione della dimensione continentale dell’UE sia il superamento storico della frammentazione degli Stati nazionali del continente, e sia anche la condizione necessaria per impedire la ripetizione degli eventi bellici della Prima e della Seconda guerra mondiale. Si tratterebbe, insomma, di una risposta progressiva a un’epoca che non potrà più ripetersi.
Ancora una volta gli strateghi della disinformazione deviante del capitale sono all’opera per riscrivere, dal punto di vista degli interessi delle classi dominanti, una pagina fondamentale della storia contemporanea, operando una totale mistificazione e opacizzazione delle vere ragioni sociali che scatenarono quell’immane macello.
È davvero impressionante mettere a confronto alcuni fattori che portarono alla Prima guerra mondiale con la realtà di oggi. Più di dieci anni fa, nel 2001, come Rete dei Comunisti abbiamo pubblicato un quaderno dal titolo La belle époque è finita. Imperialismo ed economia di guerra. I diversi contributi segnalavano come l’epoca degli imperialismi (1875-1914) avesse visto realizzarsi quella che è stata poi definita nel XX Secolo la globalizzazione, e come quella globalizzazione – sviluppatasi attraverso la rete delle colonie a livello mondiale – si fosse esaurita nel primo decennio del Novecento e avesse portato allo scontro della Prima guerra mondiale.
Non è un caso che i prodromi della guerra tra le maggiori potenze fossero cominciati prima nelle colonie e solo dopo fossero deflagrati nel cuore dell’Europa. Ed è indicativo che fino al 1900, tra le maggiori potenze imperialiste agisse la stessa concertazione che abbiamo visto in questi ultimi decenni.
Se nel 1900 le potenze imperialiste sono intervenute concordemente contro la rivolta dei Boxer, per poi spartirsi porti, concessioni commerciali e risorse della Cina, negli anni immediatamente successivi hanno cominciato a scontrarsi tra loro, prima nelle colonie e poi nelle trincee in Europa.
Purtroppo la realtà si sta incaricando, giorno per giorno, di smentire l’affermazione dalla quale siamo partiti, sul presunto carattere pacificatore dell’UE.
In primo luogo perché all’interno dell’Unione c’è da tempo una “guerra” di classe che vede i gruppi dominanti all’attacco delle classi sociali subalterne. Una guerra che punta alla riduzione del reddito diretto e indiretto, alla completa subordinazione dei lavoratori al sacro principio del profitto e della competizione, all’annichilimento politico degli spazi democratici. Questa prospettiva per ora non vede risposte di lotta coscienti nei vari Paesi, ma sta creando tendenzialmente le condizioni per un conflitto di classe più radicale e vasto.
In secondo luogo perché, se il problema è quello della guerra guerreggiata, basta volgere lo sguardo all’esterno dei confini dell’Europa per vedere la diretta smentita di una retorica istituzionale fatta a uso e consumo delle classi dominanti. La faglia bellica, infatti, non è mai stata così estesa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Esiste una linea di fuoco orizzontale che va dall’Asia centrale e arriva fino all’Africa atlantica, e una verticale che va dai Paesi arabi fino all’Ucraina e, grazie alla NATO, forse fino ai Paesi baltici. L’incrocio di queste due linee avviene proprio attorno alla Unione Europea. Tutto questo è un caso? Siamo certi che la risposta non può che essere un NO deciso.
La tendenza alla guerra che procede da anni è un effetto diretto di quella che già negli anni ’90 definivamo la costruzione di un polo imperialista. Certo bisogna recuperare il reale concetto di “imperialismo”, che spesso o viene ignorato o viene mistificato, usandolo solo come espressione di una politica e non come livello sociale complessivo raggiunto, in questo caso, da un gruppo di nazioni. Su questo come Rete dei Comunisti intendiamo fare una battaglia teorica a tutto campo, nei movimenti di lotta e oltre, per recuperare il pieno significato del termine e le conseguenze politico/pratiche che ne derivano.
Nel breve arco di pochi anni, non a caso dopo l’esplosione della crisi economico-finanziaria, abbiamo registrato attorno all’Unione Europea una serie di conflitti che partendo dall’Ucraina sono arrivati fino alla Siria e, di nuovo, all’Iraq. Attraversando il conflitto quasi secolare israelo-palestinese, questi hanno proceduto con il colpo di Stato in Egitto, con l’eliminazione della Libia di Gheddafi e sono arrivati fino agli interventi militari nell’Africa ex francese.
Il pensiero dominante, nel quadro di una narrazione rassicurante e fuorviante allo scopo di espungere ogni contenuto di classe da tali avvenimenti, sta rappresentando questi conflitti come ognuno a sé stante, uno diverso dall’altro. Da una parte c’è il nazionalismo russo, dall’altra gli estremisti islamici oppure “feroci” dittatori che negano la democrazia. Questa lettura mistificante va rifiutata nettamente: quello che sta avvenendo è il risultato di un unico processo che nasce dalla crisi sistemica del capitale la quale da alcuni anni sta attraversando i Paesi imperialisti e sta moltiplicando le spinte alla competizione globale in un mondo dove la “stella” unipolare degli USA è chiaramente in declino.
Il movimento reale che ci viene occultato non è una guerra “a pezzetti”, come il Papa va affermando, anche se dall’alto della esperienza millenaria della Chiesa cattolica, ma è un conflitto trasversale e asimmetrico che vede molti competitori ora in alleanza e ora in competizione.
Il primo di questi soggetti sono indubbiamente gli USA che già dai primi anni del secolo cercano di mantenere la propria supremazia, controllando le risorse energetiche mondiali e usando armi tecnologicamente sofisticate. In questo contesto la nascente Unione Europea, la quale è comunque la prima area per potenza economica nel mondo, non può che ritagliare il proprio spazio “vitale” a spese dei Paesi periferici, né più né meno come avveniva alla vigilia della prima grande guerra nella corsa alla conquista e alla definizione degli imperi coloniali.
Gli interventi in Libia e in Siria hanno esattamente questo significato: il braccio armato della UE, anche per il possesso delle armi nucleari, è ovviamente la Francia, che ha spinto direttamente per l’intervento militare.
Su tale versante gli USA, non a caso, sono rimasti piuttosto tiepidi mentre Parigi ha continuato nel silenzio dei mezzi di comunicazione la sua politica di aggressione militare nei Paesi dell’Africa ex francese.
L’UE, con la Germania in prima fila, ha tentato lo stesso gioco con l’Ucraina, dove però ai nostri apprendisti stregoni è sfuggito di mano il gioco, irritando un partner strategico sulla questione energetica e nuclearmente potente come la Russia, e dando l’opportunità agli USA di inserirsi nella contraddizione aperta, sostenendo i Paesi dell’est e i nazisti in Ucraina, per riportare l’Europa sotto l’ombrello americano, ripetendo il giochetto già fatto all’epoca della Ostpolitik di Brandt e degli euromissili sul finire degli anni ’70.
Un pensiero indipendente si manifesta proprio nella capacità di lettura dei processi reali e di quelli storici, a differenza di un nefasto metodo, proprio della sinistra italiana, che continua nelle sue variegate versioni a schierarsi per l’uno o per l’altro dei competitori internazionali, magari, anche inconsapevolmente, vedendo nella Russia di Putin un’Unione Sovietica che non c’è più, in termini negativi o positivi non importa; o valutando l’estremismo islamico, e poi rifiutandolo o giustificandolo, senza comprenderne però genesi, storia e ricadute politiche. Dal nostro punto di vista va contrastata quell’idea che vede nell’Unione Europea una possibilità di emancipazione per i suoi popoli, o quella attigua che dà una visione edulcorata dell’UE, nell’ipotesi di una (impossibile) vittoria delle forze di sinistra.
Purtroppo per questi ingenui osservatori, contano i dati strutturali di uno sviluppo capitalistico ultramaturo e il carattere imperialista di quei Paesi che ideologicamente, in questi ultimi venti anni, si sono proclamati storicamente i “vincitori”.
Torna al centro la questione della prospettiva e della natura della UE. Non si può liquidare tale questione usando i parametri dell’avversario e accettando il terreno che ci propone, sia quello elettorale o quello delle riforme, magari di sinistra. Quando le contraddizioni emergono al loro livello massimo, ovvero quello politico-militare, bisogna essere precisi nelle analisi e chiari nelle indicazioni degli obiettivi politici. Se la UE porta alla guerra, come i fatti stanno mostrando, bisogna porsi l’obiettivo di rompere questa costruzione politico-istituzionale che penalizza i suoi popoli e quelli della periferia.
Come RdC dunque riteniamo che questo obiettivo della rottura della UE sia estremamente attuale e pensiamo che vada fatta anche una proposta alternativa all’attuale assetto istituzionale del continente. A tale proposito richiamiamo all’attenzione dei compagni e dell’insieme degli attivisti politici e sociali le nostre precedenti elaborazioni e i momenti di discussione collettiva che abbiamo promosso anche a proposito dell’alternativa possibile all’Unione Europea.
Per quanto ci riguarda, per dirla davvero sinteticamente, proponiamo la costruzione di un’area euromediterranea indipendente dalle forze egemoni che oggi gestiscono il processo di costruzione della UE, non perché pensiamo che sia un obiettivo immediatamente praticabile, ma perché riteniamo che occorra offrire una indicazione netta di carattere internazionale e internazionalista, nel gorgo del conflitto politico, sociale e sindacale, per contrastare l’ideologia predominante che pone l’Unione Europea come unico orizzonte, come ultima spiaggia dei popoli civilizzati che si devono difendere dalla barbarie del resto del mondo. Hic sunt leones! La necessità di contrastare il “nostro” polo imperialista – è sempre la cosa più difficile lottare contro il proprio imperialismo! – non viene solo dalle contingenze politiche e militari ma anche da un’analisi comparativa: da una parte i processi che hanno portato alla Prima guerra mondiale e a quella successiva, la guerra dei “trent’anni”, che si è conclusa con la fine del secondo conflitto mondiale; dall’altra i nostri ultimi quarant’anni.
Gli elementi di similitudine sono molti e per certi versi sono indicativi delle tendenze che potranno affermarsi non nei prossimi anni ma nei prossimi mesi; i tempi di manifestazione delle contraddizioni si sono velocizzati oltre ogni nostra aspettativa. Certamente un dato che può far associare i due periodi è il lungo periodo di crisi strutturale da sovrapproduzione che comincia negli anni Settanta dell’Ottocento, ma che ha caratterizzato, mutatis mutandis, anche i “nostri” anni Settanta.
Una crisi, quest’ultima, che ricordiamo bene e che è stata superata solo provvisoriamente (e superficialmente), ma che oggi si ripropone anche come crisi di sovrapproduzione di capitale. Questo è solo il “quadro” in cui si manifestano i due periodi di crisi, ma ci sono anche altri elementi da analizzare e su cui invitiamo ad approfondire la riflessione.
Il primo è quello della “competizione globale” che si è manifestata nei due periodi in modo diverso ma con effetti egualmente pesanti. La competizione dell’800/’900 era quella nelle colonie, per il controllo delle materie prime e per il ruolo di imperialismo predominante (o da scalzare) a seconda delle potenze che in Europa si contendevano questo primato. L’Inghilterra soprattutto, ma anche la Francia, con la Germania come potenza “emergente” che sgomitava per avere le sue colonie.
Anche l’Italia (da Giolitti a Mussolini) ha preso parte a questo gioco, ma come espressione dell’imperialismo di una borghesia pezzente, la quale doveva affrontare il nodo del ritardo storico nella formazione di uno Stato nazionale unitario e di una debole struttura produttiva, né più né meno di come avviene oggi Le contraddizioni adesso si presentano ancora come appropriazione delle materie prime, nonostante la forma coloniale sia stata abbandonata e sostituita da modalità più complesse e sofisticate di potere imperialista. In particolare assume una crescente centralità strategica la lotta per il dominio e il controllo delle fonti energetiche, vista la dimensione enorme della produzione mondiale e la costante necessità di approvvigionamenti che essa richiede.
Queste contraddizioni prendono la forma di una lotta per la conquista del controllo dei mercati di sbocco delle merci. La globalizzazione di fine secolo ha complicato le relazioni commerciali e le ha intrecciate al punto che la crisi che si è aperta nel 2007, con la bolla dei subprime americani, oggi si manifesta come limite allo sviluppo dei mercati centrali ma anche di quelli periferici, ossia dei cosiddetti BRICS (anche se quella cinese è una situazione diversa), che ne rappresentano la gran parte. È entrata in crisi la circolazione del capitale e ciò produce un contraccolpo sulla produzione di valore, per giunta in una condizione di precarietà della finanza che fino a oggi è stata il volano dei recuperi alle varie crisi che si sono manifestate.
Quella che vediamo come guerra guerreggiata è il “riflesso” di una situazione che si trascina ormai da anni e che ora si manifesta per i mercati come limite economico, ma anche come limite politico dovuto alle continue crisi militari che, in aggiunta, contribuiscono a contenere ulteriormente la “libera” circolazione di merci e capitali. Si conferma, insomma, un classico dispositivo politico/economico circa la difficoltà di parte capitalistica di garantire un accettabile tasso di accumulazione generalizzato e continuativo.
A questa contraddizione strutturale se ne aggiunge un’altra di carattere storico, ossia la fine dell’egemonia degli USA. Il crollo dell’URSS ha fatto nascere una grande illusione in quel Paese, quella che da solo potesse mantenere l’egemonia a livello mondiale. Da qui anche il delirio di onnipotenza di intervenire militarmente in ogni parte del mondo.
È sfuggito un particolare: la fine dell’URSS ha segnato la ripresa degli spiriti animali del capitalismo che la competizione bipolare aveva solo congelato per circa quarantacinque anni. Dunque si è passati dall’illusione di essere i padroni del mondo a un mondo dove i competitori si sono moltiplicati, da quelli imperialisti come la UE e il Giappone a quelli della periferia produttiva, a cominciare dalla Cina. Quello che è in crisi non è solo il capitalismo così come si è configurato negli ultimi venti anni, ma anche la sua potenza egemone nel ruolo di direzione complessiva, cioè gli Stati Uniti.
Anche qui il parallelo con la parabola dell’imperialismo inglese avutasi tra la Prima e la Seconda guerra mondiale è immediato, quando questo dovette lasciare lo “scettro” proprio ai cugini d’oltreoceano. D’altra parte non si è mai vista una potenza egemone che rinunciasse al suo ruolo riconoscendo “sportivamente” la sconfitta (questo lo ha fatto solo l’URSS e forse varrebbe la pena di indagarne il perché); dunque quello che abbiamo di fronte è un periodo storico imprevedibile e pericoloso.
In questo senso non vogliamo fare i “tifosi” di nessuno, in un mondo dove gli sviluppi possono essere drammatici e dove la scelta tra le idee giuste e il disastro, come ha detto Fidel Castro (o tra socialismo e barbarie come un tempo si diceva), sarà inevitabile.
Non siamo di fronte a una qualche evoluzione della geopolitica ma dentro uno snodo storico dove le soggettività, inclusa quella dei comunisti, potranno contare se verranno fatte le giuste scelte.
Questa relazione ha un limite voluto, ovvero si è concentrata soprattutto sulla questione della Unione Europea ma non vuole essere vittima dell’eurocentrismo che ha caratterizzato gran parte della storia politica della sinistra occidentale.
Se la situazione di tensione politico-militare raggiunge il suo culmine attorno al nostro continente, essa possiede però una dimensione mondiale che riguarda, in seconda posizione, l’estremo Oriente e i rapporti con la Cina, la penisola coreana, il Giappone e poi altre zone dell’Asia centrale o dell’Africa. Infine, non è certo una forzatura pensare che gli USA non rinunceranno facilmente a condizionare quello che hanno sempre inteso come il loro “cortile di casa”, l’America Latina. Su questi e altri scenari, come RdC, siamo intenzionati a tornare già nei prossimi mesi.
In conclusione, pensiamo che sia importante capire esattamente il punto in cui siamo, a circa venticinque anni dal crollo del muro di Berlino.
I conflitti bellici che si stanno manifestando non sono, evidentemente, simili a quelli sorti nel periodo del bipolarismo URSS/USA, ma nemmeno a quelli emersi dagli anni ’90, dove lo strapotere degli USA e dell’Occidente in generale era incontestato. Oggi i conflitti che gli imperialismi hanno generato hanno la caratteristica di non essere più pianificabili: non è più possibile decidere se, come e quando iniziarli o terminarli, in quanto si sono modificati i rapporti di forza sul piano mondiale a tutti i livelli, da quello economico a quello militare.
Oggi i Paesi imperialisti giocano a fare gli apprendisti stregoni ed è questo il vero problema che abbiamo, come forze politiche che si battono per il cambiamento della società, in questo momento storico, ovvero nel momento in cui le classi dominanti sono irresponsabili di fronte agli effetti che le loro azioni producono e diventano concretamente il nemico dell’umanità.
La discussione odierna, il dibattito tra gli attivisti politico-sociali, il contributo degli intellettuali che non abbassano la testa nei confronti dell’ideologia dominante vuole essere un contributo che come RdC offriamo per la ripresa di un adeguato movimento di lotta contro la guerra, consapevole dei profondi mutamenti intervenuti, a un secolo dal primo macello imperialista.