La guerra, nelle sue varie forme, è immanente al modo di produzione capitalistico: guerra di mercati, tra capitali, oligopoli, Stati, regioni, tra “razze” (socialmente create), “culture”, “popoli” e così via… Tutte declinazioni che ruotano attorno alla guerra cruciale per la sopravvivenza del capitale: quella civile, di classe, tra padroni e subalterni.
La guerra che il capitale sta conducendo con aggressività e vigore impressionanti da circa quarant’anni contro i subalterni dei Paesi a capitalismo avanzato, per distruggere tutti i presidi di tutela dei diritti e degli interessi che erano stati strappati con le lotte nei decenni precedenti, ha un obiettivo preciso: comprimere drasticamente il salario sociale medio della classe lavoratrice, così da garantire al capitale – in una lunga fase di crisi strutturale – di poter ripristinare saggi di profitto soddisfacenti anche nei settori non finanziari (che comunque operano in perfetta osmosi con quelli della cosiddetta “economia reale”). La ristrutturazione del processo di lavoro e l’ideologia neo-liberista hanno operato in combinato per distruggere la vecchia composizione e la soggettività della classe, i luoghi di ricomposizione ed esercizio della propria forza organizzata, i legami solidaristici che consentivano di alimentare la rappresentazione pubblica della dimensione collettiva degli interessi dei subalterni. La concorrenza (la quintessenza del moto del capitale) viene spinta in ogni stratificazione della classe lavoratrice, scomponendola, atomizzandola e facendola scomparire dal piano della stessa autonarrazione.
Le politiche in materia di immigrazione assumono un ruolo decisivo nella più ampia strategia di messa in concorrenza di persone portatrici dei medesimi interessi. Esse sono un aspetto e uno strumento della guerra civile tra capitale e lavoro che si alimenta anche con la costruzione sociale di “linee di colore” per debilitare il nemico. La “produzione” dell’immigrato ruba-lavoro, pericoloso, criminale per tendenza e natura, fanatico per definizione, intenzionato a colonizzare le terre dei Paesi “centrali”, garantisce al capitale una risorsa inesauribile di forza-lavoro a basso costo e priva di diritti. Già Lenin, circa un secolo fa, nel suo saggio popolare dedicato all’imperialismo, ebbe a sottolineare come «[u]na delle particolarità dell’imperialismo […] [sia] la diminuzione dell’emigrazione dai Paesi imperialisti e l’aumento dell’immigrazione in essi di individui provenienti da Paesi più arretrati, con salari inferiori» [1].
Le politiche restrittive in materia di immigrazione adottate dai Paesi a capitalismo avanzato, politiche che producono irregolarità di massa, intervengono tuttavia su processi migratori già esistenti, socialmente e storicamente determinati, legati alle più complesse e generali dinamiche dei rapporti tra aree imperialistiche forti e deboli e aree dominate dagli imperialismi. Leggere le cause sociali e storiche dei grandi movimenti migratori internazionali ci consente non solo di comprendere meglio alcuni aspetti della guerra civile mondiale del capitale contro il lavoro, ma anche di porre dei limiti alla dilagante letteratura post-moderna che, anche su questi temi, ha favorito un approccio individualistico, concentrandosi sulle “singole biografie” dei migranti, valorizzandone pure aspetti estremamente interessanti, ma perdendo di vista il lungo processo di determinazione oggettiva, sociale del fenomeno.
A strategie belliche intelligentemente manovrate dal capitale su scala mondiale e variamente articolate nei singoli territori nazionali, è necessario opporre una strategia del conflitto dal basso altrettanto internazionale.
È per questi motivi che di seguito abbiamo deciso di pubblicare alcuni brani stralciati da un saggio di Pietro Basso, Sviluppo diseguale, migrazioni, politiche migratorie, pubblicato nel libro curato da P. Basso e F. Perocco, Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, edito dalla Franco Angeli nel 2005 (pp. 82- 117). Uno scritto, quello di Basso, che – sebbene siano trascorsi un po’ di anni dalla pubblicazione – mantiene intatta la freschezza di allora e l’attualità non solo del metodo analitico adottato e quindi dell’impostazione generale data al tema, ma anche dei contenuti stessi dello scritto, il quale interviene in maniera puntuale nel dibattito nazionale, e non solo, per ribadire la dimensione globale delle “determinazioni oggettive” dei movimenti migratori, precisando come essi si inseriscono all’interno dei mutati rapporti tra classi [2].
Per evitare un appesantimento della lettura, si è preferito eliminare tutte le note contenute nel testo originale, ciò anche a scapito di una più puntuale conoscenza delle tesi dell’Autore, che sferza spesso con precisione e acume a piè di pagina tesi avversate nel testo. Si spera che tale scelta editoriale funga anche da stimolo a una lettura integrale del testo, che rimanda anche a una vasta letteratura in materia. Tutte le interpolazioni della Redazione di Contropiano sono tra parentesi quadre nel testo.
Pietro Basso (in Contropiano anno 23 n° 2 – novembre 2014)
Le diseguaglianze nello sviluppo tra Paesi e aree sono, fin dall’inizio, un necessario portato di quella costruzione storica che va sotto il nome di mercato mondiale. La loro riproduzione allargata ed esasperata a opera della mondializzazione in corso è la causa primaria (non l’unica) delle migrazioni internazionali contemporanee. […] Il mercato è un meccanismo unitario, sì, ma ineguale e produttore di diseguaglianze non solo per quel che riguarda il “libero scambio” tra capitale e lavoro, ma anche per quel che riguarda i rapporti tra Paesi. […] Il processo di formazione del mercato mondiale ha spezzato il lungo equilibrio relativo proprio dell’“antico sistema mondiale” [Samir Amin], un mondo che si presentava senza centro e con più “centri”. E al suo posto ha creato un nuovo sistema sempre più unificato, dai rapporti interni sempre più stretti, e polarizzato, con un solo centro mondiale, all’inizio l’Europa, poi gli Stati Uniti (con l’Europa e il Giappone a latere), in una posizione di supremazia rispetto alle restanti parti del sistema declassate progressivamente, incluse le aree che un tempo erano tra le più progredite, come la Cina e l’India, al rango di periferie. A legare centro e periferie all’interno del mercato mondiale è stato ed è il meccanismo della divisione internazionale del lavoro, che si è costituita sulla base di un’autentica spoliazione (“originaria”) delle aree colonizzate da parte dei Paesi colonizzatori; che si è poi definita come suddivisione del mondo in un’immensa campagna fornitrice di beni agricoli e di materie prime per le metropoli monopolizzatrici dell’industria; per assumere infine, oggi, una fisionomia assai più complicata, poiché anche un buon numero di Paesi dominati sono produttori di beni industriali, ma che è pur sempre segnata da una netta linea di demarcazione tra i Paesi (e gli Stati) che stanno “sopra” e danno gli ordini, e quelli che stanno “sotto” e devono eseguirli, tra i Paesi (e gli Stati) che incamerano profitti ovunque e quelli obbligati a cedere a forze “esterne” una quota-parte, più o meno larga a seconda dei casi, dei profitti prodotti all’interno del proprio territorio.
Questa caratteristica unità diseguale del mercato mondiale è ben visibile anche nel processo di formazione del mercato mondiale del lavoro, che del sistema dell’economia di mercato è stato ed è parte fondamentale. […] Esso ha avuto come suo punto di partenza la decimazione delle popolazioni indigene del centro e del sud-America […], la creazione di una forza-lavoro coatta indigena, per poi passare attraverso la tratta degli schiavi africani, l’emigrazione forzata dei coolies asiatici, le grandi migrazioni transoceaniche, verso gli Stati Uniti, le migrazioni dalle colonie alle “madrepatrie”, le migrazioni infraeuropee dell’ultimo mezzo secolo, le migrazioni di massa interne ai maggiori Paesi del Terzo Mondo e infine quelle dai Paesi formalmente indipendenti del Terzo Mondo verso le metropoli occidentali e verso sub-centri regionali (quali l’Arabia Saudita, il Brasile o le “piccole tigri” asiatiche). Dal processo storico di formazione del mercato mondiale e del mercato del lavoro in specifico, emerge dunque come la loro struttura e il loro funzionamento attuale siano incomprensibili senza prendere in considerazione le grandi migrazioni internazionali, e come queste siano incomprensibili al di fuori della (diseguale) divisione internazionale del lavoro creatasi e consolidatasi all’interno del capitalismo mondiale.
[Le grandi migrazioni internazionali hanno inciso sensibilmente] nel rapporto tra i Paesi colonialisti e le popolazioni colonizzate, contribuendo a creare una gerarchia tra i popoli e le “razze” che è stata solo in parte scalfita dal moto di liberazione dei popoli di colore. Le cicatrici di questa lunga storia di distruzioni, saccheggi, sfruttamento e oppressione, diretti e indiretti, sono aperte tutt’oggi, e molto incidono sulla genesi e sulla direzione dei movimenti migratori contemporanei e a venire.
[…] [Certo, sono] cambiate, in parte, le forze colonizzatrici e le forme della colonizzazione, ma la condizione di subordinazione e di asservimento permane. […] [Si pensi al caso dell’Africa, ove] la tratta degli schiavi neri, “la più grande e fatale migrazione – migrazione forzata – della storia dell’umanità” [Basil Davidson] [nel] corso di quattro secoli […] ha coinvolto almeno 25 milioni di africani, ha ridotto l’Africa a una rovinosa forma di monocoltura, la monocultura di “uomini”, bestie da soma, e ha causato la distruzione su vastissima scala di civili “imperi” e di una miriade di comunità di villaggio. Disintegrando queste istituzioni sociali e politiche, la tratta degli schiavi ha provocato il declino dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio africani, e in questo modo ha gettato le premesse difficili da scalzare di un secolare sottosviluppo generalizzato a fronte di quelle aree del mondo che del commercio degli schiavi africani poterono approfittare.
[…] In questa lunga storia della formazione e dell’unificazione del mercato mondiale che è insieme la storia del mercato del lavoro e delle migrazioni internazionali, la Potts propone di distinguere due fasi: una prima fase, legata al colonialismo tradizionale, che si è prolungata fin dentro il XX secolo, nella quale ha avuto un ruolo centrale, se non preponderante, l’esercizio della violenza fisica diretta nello sfruttamento della forza-lavoro migrante (e non); e una seconda fase, legata alla costituzione di un’economia mondiale unitaria sempre più fortemente integrata (e squilibrata), nella quale a causare i movimenti migratori è stata ed è sempre più determinante la violenza indiretta del mercato, la tirannia dei mercati, in specie di quelli finanziari, e dunque il colonialismo finanziario. Ebbene, in entrambe le fasi è stata ed è co-essenziale alla costruzione, ormai portata a compimento, del mercato globale, del capitalismo monopolizzato, l’utilizzo della forza-lavoro migrante come forza-lavoro a basso (o bassissimo) costo e priva di diritti: è questo, e nessun altro, il segreto che la fa tanto ambita. Ed è un utilizzo destinato a durare poiché, e finché, durano il meccanismo economico-sociale e le diseguaglianze di sviluppo che l’hanno generato. […] [Di fatto] nel corso dei cinque secoli di progressiva (non lineare, né incontrastata) mondializzazione del capitalismo le “condizioni preliminari per il decollo” sono andate fortemente concentrandosi in alcuni Paesi e aree non per una naturale evoluzione delle cose, bensì sulla base della espropriazione forzata delle stesse “condizioni” in quelli che, per semplicità, chiamo i continenti di colore. Non si tratta di tempi diversi, differenziati lungo la via comune e obbligata dello sviluppo, ma di una concentrazione, di un’accumulazione delle possibilità, dei mezzi materiali e umani dello sviluppo capitalistico, della possibilità di produrre cultura, tecnologia e scienza, a un polo (il “centro” del sistema economico mondiale), realizzatasi proprio attraverso la precoce distruzione, l’arresto o il freno permanente posto all’accumulo delle medesime pre-condizioni all’altro polo (la periferia, o le periferie di esso).
Del pari, in luogo del progressivo eguagliamento internazionale dei livelli di vita, oltre che dei fattori della produzione, di cui alle cattive astrazioni dell’economia politica classica e neo-classica, è avvenuto l’inverso: «il tratto distintivo della moderna storia economica è costituito [proprio] dalla diversificazione assoluta e massiccia della distribuzione internazionale dei redditi» [Jacques Adda].
Sull’arco degli ultimi due secoli il differenziale tra il reddito dei Paesi più ricchi e quello dei Paesi più poveri è salito da 1 a 4 del 1820, a 1 a 13 del 1913, a 1 a 26 del 1950, a 1 a 39 del 1989.
[…] In questo sistema di squilibri combinati i dati, i rapporti, che per la loro importanza oltrepassano tutti gli altri sono quelli relativi alla centralizzazione dell’attività bancaria, per il 90% nelle mani dei Paesi dell’OCSE, delle riserve monetarie (90%), dei prestiti commerciali (94%), delle obbligazioni internazionali (94%), della spesa per la ricerca scientifica e tecnologica (92%) e della detenzione dei brevetti (90%). Nel mercato mondiale, il capitale liquido e la scienza, le due risorse fondamentali […] per lo […] sviluppo, – e che sono peraltro due diversi nomi per indicare la stessa sostanza: il lavoro umano universale accumulato nello spazio e nel tempo –, […] si trovano “distribuite” in modo ancor più polarizzato della produzione di beni e del commercio. Sia a livello sociale, poiché è solo una piccola parte della società che se n’è appropriata, nei confronti del lavoro vivo, come di una sua esclusiva (in questo senso privata) proprietà, sia a livello territoriale poiché è solo una piccola parte del mondo che se n’è appropriata nei confronti dell’altra, maggioritaria, come si trattasse di un suo proprio esclusivo prodotto. Si osservi come nel gruppo dei Paesi dominanti ci siano tutti i Paesi “ex”-possessori di colonie e tutti i Paesi che hanno potuto beneficiare delle migrazioni internazionali (nel mondo primeggiano gli Stati Uniti, Paese di immigrazione per eccellenza, l’Australia, il Canada e, in Europa, la Germania che, dopo essere stata a lungo anche un Paese di emigranti, dal 1945 a oggi ha assorbito ben 14 milioni di immigrati), mentre in quello dei Paesi dominati si assembrano le ex-colonie e i Paesi storicamente penalizzati dalle migrazioni internazionali, esportatori di braccia e sempre più anche di cervelli, e importatori di capitali e di scienza e tecnologia.
[…] Ci sono dunque solidissime premesse strutturali – niente di più, ma niente di meno – perché masse di esseri umani continuino a mettersi in marcia “dalle periferie verso il centro”. Tanto più perché quella parte dell’Asia che si sviluppa a passo di carica […] deve non poco del suo dinamismo alla trasformazione capitalistica delle campagne che sta “liberando” enormi contingenti di contadini espiantandoli dalla terra. In conseguenza di questa trasformazione e del generalizzarsi della nuova rivoluzione tecnologica capace di un forte risparmio di lavoro, si va formando alla scala mondiale la sovrappopolazione relativa, l’esercito proletario di riserva più ampio della storia del capitalismo. Più dei suoi quattro quinti sono nei continenti di colore.
Una quota di esso è, lo si voglia o meno, destinata alle migrazioni, interne o internazionali […] come riserva di lavoro a buon mercato. “Sovrappopolazione differenziata”, indispensabile per l’accumulazione mondiale in quanto fattore di obiettivo abbassamento generale del valore della forza-lavoro e strumento di erosione delle “garanzie” del welfare state: ma utile anche per la stabilità sociale dei Paesi occidentali, solo, s’intende, nella misura in cui i lavoratori immigrati accettino passivamente il ruolo […] di capri espiatori per il crescente malessere sociale provato dalle popolazioni autoctone e di ultimo gradino della gerarchia sociale.
[La mondializzazione delle politiche neo-liberiste degli ultimi decenni non ha fatto altro che intensificare queste disuguaglianze, aggiungendone di nuove. Peraltro, la tendenza strutturale alle disuguaglianze di sviluppo ha prodotto mutamenti nei movimenti migratori con numerose conseguenze.] La prima di tali conseguenze è l’ulteriore alimento alle migrazioni internazionali verso gli Stati Uniti e l’Europa [ma anche verso il Giappone e quelli interni ai Sud del mondo]. Nel sottolineare questo nesso di causa-effetto intendo mettere in evidenza il carattere oggettivamente determinato dei movimenti migratori. E per farlo utilizzerò un passo di Sayad: «Come la colonizzazione, l’immigrazione costituisce un sistema di “rapporti determinati, necessari e indipendenti dalle volontà individuali” in funzione del quale si organizzano tutte le condotte, tutte le relazioni così come tutte le rappresentazioni del mondo sociale in cui si è costretti a vivere (a causa, rispettivamente, della colonizzazione e dell’immigrazione).
Dimenticare l’effetto di sistema equivarrebbe a cancellare surrettiziamente la verità oggettiva della situazione dell’immigrato. In effetti, tra le numerose caratteristiche naturali che formano un sistema dell’emigrazione, al primo posto figurano i rapporti di dominio prevalenti su scala internazionale.
Una particolare bipolarità contraddistingue il mondo attuale, diviso in due insiemi geopolitici diseguali – un mondo ricco, sviluppato, il mondo dell’immigrazione, e un mondo povero, “sottosviluppato”, il mondo dell’emigrazione (reale o soltanto virtuale). Questa bipolarità può essere considerata la condizione che genera il movimento migratorio e, ancor più sicuramente, la forma attuale dell’immigrazione, la sola vera immigrazione (socialmente parlando), cioè quella che proviene da tutti quei Paesi, addirittura da quei continenti, raggruppati sotto l’unico nome di Terzo mondo. Il rapporto di forza all’origine dell’immigrazione si ritraduce nei suoi effetti, che si proiettano sulle modalità della presenza degli immigrati, sul luogo loro assegnato, sullo status loro conferito, sulla posizione (o, più esattamente, sulle differenti posizioni) che essi occupano nelle società in cui di fatto (se non di diritto) vengono contati come abitanti».
[…] [Dunque,] vedere le determinazioni oggettive dei movimenti migratori significa al tempo stesso poter vedere anche le determinazioni oggettive della soggettività degli immigrati; di cui non a caso qui si parla quasi sempre al plurale per evidenziare come il “singolo” immigrato sia, al fondo, in una situazione non del tutto singolare, bensì sociale. E sociale (e collettiva, un collettivo che coinvolga a pieno insieme agli immigrati anche gli autoctoni) è di conseguenza la sola vera possibilità di riscattarsi in pieno da una condizione che i “rapporti di forza” esistenti tra il centro e le periferie del mercato mondiale “vogliono” come una condizione sociale di inferiorità. Se non ci si attiene saldamente a questa visione “di sistema” dei movimenti migratori, è poi facile scivolare verso una rappresentazione delle migrazioni centrata sulla figura ideal-tipica del “migrante globale” (al singolare), costruita sociologicamente, con una cattiva sociologia, sulle basi delle vuote astrazioni dell’economia politica ultra-individualista di gran moda in questi tempi. Di questa versione (stravolgente) dei processi migratori Charles-André Udry ha parlato come di una “mitologia dei cretini”: «Il cosiddetto «migrante globale» nasce dalla cosiddetta sociologia concreta statunitense, che prende un caso particolare e lo trasforma in un fenomeno emblematico. Il “migrante globale” è configurato come un attore sociale razionale che agisce sul mercato globale liberamente, libero da ogni altra determinazione che non sia quella della sua capacità di calcolo dei benefici, facendo le proprie scelte in base alla massimizzazione delle sue capacità di investimento. In questo modo anche quella di emigrare appare come una libera scelta. Ma i movimenti migratori non sono libere scelte dei migranti, ma “scelte” obbligate».
[…] Nell’elencare le cause di questi imponenti movimenti migratori, i documenti ONU allineano in modo confuso e disordinato la povertà, i disastri ecologici, i conflitti armati, il razzismo, le persecuzioni politiche o religiose, quasi fossero cause senza causa, e senza alcun legame tra loro e con il sistema dell’economia mondiale.
[…] Nella nostra ottica, la politica internazionale non è tutt’altra cosa dalla economia internazionale, dalle sue leggi e dai suoi diseguali rapporti di forza, è l’economia mondiale rappresa e concentrata. I Paesi che detengono più del 90% del capitale liquido del mondo detengono al tempo stesso il potere – extra-parlamentare ed extra-elettorale – di fare e disfare, con le pressioni economiche e con mezzi militari, i governi e gli Stati dei Paesi dominati […]. Essi dispongono del FMI e della Banca mondiale […], della stragrande parte delle armi del mondo e, soprattutto, della capacità di suscitare guerre “per procura” […].
È vero, a differenza di quello che molti credono, che la quota tuttora maggioritaria (anche se di poco) dei movimenti migratori a livello internazionale segue il percorso che va dalle aree del Sud del mondo meno sviluppate a quelle più sviluppate dello stesso Sud, ma […] la tendenza di fondo è quella a un incremento assoluto e relativo dei movimenti migratori che seguono la rotta da Sud a Nord e, nel Nord, da Est a Ovest, e dunque la rotta verso l’America del Nord e l’Europa.
[…] Dunque: l’emigrazione di forza-lavoro dai continenti di colore verso il mondo occidentale in generale e l’Europa in particolare è “destinata” a durare e, semmai, a ulteriormente incrementarsi.
[…] L’immigrazione europea del periodo della ricostruzione post-bellica e del boom economico ebbe come destinazione la Germania, il Belgio, la Francia e la Svizzera, e fu costituita in larga prevalenza da lavoratori europei dei Paesi meno sviluppati (i lavoratori terzomondiali erano la minoranza), da maschi soli, giovani, poco istruiti, provenienti dalle zone rurali, intenzionati a passare lontano da casa solo un periodo transitorio della propria vita, e diretti esclusivamente, o quasi, a ricoprire posti di lavoro de-qualificato ma relativamente stabili nell’industria, nelle miniere e nell’edilizia, con un bassissimo tasso di partecipazione ad attività illegali o criminali.
[…] L’immigrazione europea dell’ultimo ventennio, della “fase della mondializzazione neo-liberista”, arriva in società che stanno strutturando radicalmente e anche amputando la grande industria, che stanno destrutturando lo “stato sociale”, che si stanno fortemente polarizzando, che hanno oramai generalizzato la precarietà nei rapporti di lavoro, che sperimentano alti tassi di disoccupazione, e i cui strati popolari vivono una crescente inquietudine per il proprio futuro. In quest’ambiente poco ospitale, richiamati un po’ da tutti i comparti economici e non soltanto dall’industria, arrivano in tutta l’Europa occidentale, ivi compresa quella mediterranea finora esportatrice di forza-lavoro, lavoratori che sono in prevalenza non-europei, africani, asiatici, arabo-islamici, e tra gli europei soprattutto balcanici ed est-europei, mediamente istruiti, con una composizione di genere molto più equilibrata (in Italia le donne sono in numero quasi pari con gli uomini, e non di rado sono loro ad aprire la “catena migratoria” o a migrare da sole), non necessariamente giovani, provenienti in prevalenza dalle aree urbane dei propri Paesi, con “progetti migratori” che assai meno di un tempo prevedono il ritorno indietro, tant’è che è sempre più frequente il caso dell’emigrazione di interi nuclei familiari o del rapido ricongiungimento di essi.
[Peraltro, i] nuovi immigrati sembrano dare per scontato, più dei “vecchi”, che la loro è un’emigrazione definitiva, ma quello che li aspetta in Italia e in Europa non è, di solito, molto esaltante.
Nei lavori agricoli o nei ristoranti, nel lavoro domestico o nelle imprese alimentari, nei servizi di pulizia o nei trasporti marittimi, nelle fabbriche più nocive o negli ospedali, nell’edilizia o nella vendita al dettaglio, il lavoro sotto-pagato nelle mansioni meno qualificate è, quanto meno, il non breve corridoio d’ingresso dei nuovi immigrati e immigrate. Non è detto che non possano uscirne, anche con il conflitto, ma la “promozione sociale” che si prospetta loro è sostanzialmente limitata, per la massa, all’accesso a un lavoro regolato e remunerato secondo norma. Non oltre. Ha scritto Reyneri:«La nuova immigrazione in Italia non presenta grandi storie di successo, come è accaduto in passato nei Paesi europei di vecchia immigrazione. La catena migratoria ha comunque l’effetto di far proseguire il processo e di aumentare in chi è rimasto a casa il desiderio di seguire gli emigrati, anche di fronte alle serie difficoltà che questi possono avere incontrato».
[…] Permane uno status sociale complessivo di inferiorità degli immigrati in Italia anche in quelle aree in cui la loro presenza è stata in tutta evidenza indispensabile a frenare e invertire il declino economico e/o relativamente regolarizzata, come nel Nord-Est, là dove il lavoro degli immigrati è fondamentale per la “sopravvivenza di parecchi distretti industriali” e il loro inserimento lavorativo è agevole, ma vi è «un sentimento di rifiuto da parte della popolazione maggiore che nella media italiana» [3].
[…] [Su un piano più generale, va detto che i] maggiori attori delle migrazioni internazionali non sono i governi e gli Stati; sono il mercato (il capitale, i capitali, le imprese) e il lavoro (i lavoratori emigranti, e con essi e dietro di essi i popoli di colore). I governi e gli Stati fungono […] da attori non protagonisti. Le migrazioni internazionali contemporanee sono infatti, da un lato, un fenomeno necessario per, come si è visto, l’ulteriore accentuazione delle diseguaglianze di sviluppo e per l’inesauribile domanda di forza-lavoro precaria a basso costo delle economie “centrali” (e delle economie “periferiche” più dinamiche); sono dall’altro lato un fenomeno difficile da contenere per la resistenza delle popolazioni di colore, e in particolare della loro parte più dinamica e giovane, ad accettare con fatalismo il regresso o il disastro economico e sociale dei propri Paesi, e dunque per la persistente spinta che vive in esse a emigrare verso il “centro” dove cercare condizioni di esistenza meno inumane. […] Le […] politiche migratorie [dei governi e degli Stati europei] appaiono […] come una variabile dipendente anzitutto dalle necessità immediate dei mercati nazionali forti e di quello internazionale di avere a disposizione contingenti più o meno ampi di forza-lavoro immigrata; e in secondo luogo delle loro necessità di lungo periodo di mantenere stabilmente questa forza-lavoro in uno stato di inferiorità sociale, e di contrastare ogni azione indipendente per sé dei lavoratori immigrati e ogni significativa convergenza tra lavoratori immigrati e autoctoni.
Parlare di variabile dipendente non equivale a negare la “dialettica” tra mercato e Stato: vuol “solo” significare che nella loro navigazione le politiche statali si servono di una bussola il cui ago è calamitato fisso sugli interessi complessivi del sistema dell’economia di mercato (del sistema delle imprese) […].
[Le politiche migratorie degli Stati europei hanno subito dei mutamenti sensibili negli ultimi decenni. Nel periodo che va dal 1946 al 1973, ovvero] quello della ricostruzione post-bellica all’insegna dei prestiti pubblici statunitensi all’Europa (il cosiddetto Piano Marshall), gli Stati del centro-Europa, anzitutto la Germania Federale, la Francia, la Gran Bretagna, il Belgio e la Svizzera, secondando in pieno i bisogni delle rispettive economie nazionali, si muovono sulla scena europea e nelle rispettive riserve coloniali per incentivare e organizzare sempre più consistenti afflussi di lavoratori immigrati. Lo strumento di intervento più usato è quello degli accordi bilaterali tra Stati. Italia, Spagna, Portogallo, ma anche Turchia e Jugoslavia sono i principali bacini di reclutamento; gli Stati di questi Paesi, a loro volta, incentivano e organizzano anch’essi l’emigrazione per smaltire le proprie eccedenze di disoccupati e, da parenti poveri dei Paesi importatori di manodopera, per attingere un po’ di capitali liquidi per la propria economia dalle rimesse degli emigrati.
[…] Si colloca [invece] alla metà degli anni ’70 la “svolta” che vede tanto gli Stati europei di vecchia quanto quelli di nuova immigrazione organizzare prima il rimpatrio di molti immigrati, poi la restrizione degli accessi, indi la chiusura ufficiale delle proprie frontiere, e infine, in progressione, quella produzione di “clandestini” che impazza ai nostri giorni. […] [L]e ragioni di fondo di tali politiche migratorie restrittive, di segno formalmente opposto a quelle del ciclo affluente, [risiedono nelle] caratteristiche della mondializzazione neo-liberista, che richiede una forza lavoro strutturalmente più precaria e meno “garantita” di quella del precedente ciclo […]. Ancora una volta, perciò, come nel periodo del “miracolo economico”, i governi e gli Stati europei non svolgono affatto un ruolo super partes, ma assecondano le imperiose necessità delle imprese e dei mercati globalizzati ai danni del salariato, di immigrazione e autoctono.
da Pietro Basso, Sviluppo diseguale, migrazioni, politiche migratorie, in P. Basso e F. Perocco (a cura di), Gli immigrati in Europa. Diseguaglianze, razzismo, lotte, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 82-117.
Le legislazioni nazionali dei Paesi membri dell’UE hanno cominciato a convergere da anni, divenendo sempre più omogenee, caratterizzate dalla costruzione di una “cittadella” arroccata su se stessa che, nella misura in cui si difende dalle “invasioni” paventate dagli imprenditori della paura, ha la necessità strutturale di ricorrere alla forza-lavoro immigrata, proprio per garantire ai settori più deboli dell’economia di sopravvivere nella competizione globale e a quelli più centrali di ricorrere a manodopera meno cara così da aggredire sul piano salariale quella autoctona.
A discapito del formalismo giuridico istituzionale che, in teoria, garantisce pari diritti a tutti i lavoratori, senza distinzione di provenienza geografica, così da preservare la forma dello Stato di diritto liberale (che nega l’esistenza delle disuguaglianze sostanziali nella misura in cui afferma l’uguaglianza formale di tutti), tali legislazioni restrittive producono masse di immigrati irregolari. La norma produce irregolarità – l’irregolarità produce marginalità sociale – la marginalità produce devianza e un effetto di rifiuto del diverso da parte degli autoctoni – il rifiuto del diverso e la devianza legittimano le politiche di tolleranza zero – tali politiche legittimano ulteriori restrizioni in materia di politiche migratorie. È un circolo vizioso da cui trae linfa anche il discorso dominante dei mass-media, che incidono pesantemente nella costruzione del senso comune.
Contro questi dispositivi di guerra di classe, è necessario riorganizzare l’unità degli sfruttati, poiché il «lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro» [4]. L’autorganizzazione dei lavoratori immigrati, che sappia incalzare sui temi del lavoro anche i sindacati percentualmente molto più partecipati dagli autoctoni, è fondamentale in questo percorso di crescita collettiva.
Note
[1] ↑ Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo (Saggio popolare), La Città del Sole, Napoli 2001, pp. 126- 7
[2] ↑ Altro lavoro collettaneo curato da P. Basso e F. Perocco, e che aveva preceduto quello appena richiamato, è Immigrazione e trasformazione della società, Milano, Franco Angeli, 2001. Più di recente P. Basso ha curato un’altra importante opera, Razzismo di Stato. Stati Uniti, Europa, Italia, Franco Angeli, Milano 2010. Lavori cui si rimanda per maggiori approfondimenti, tematici e bibliografici.
[3] ↑ [C’è da notare, tuttavia, che negli ultimi anni, con l’incalzare della crisi e la chiusura di numerose imprese nel Nord Italia, tanti sono stati i lavoratori immigrati che dalle fabbriche del Nord Italia sono scesi al Sud per andare a lavorare nelle campagne senza contratti né diritti, pagati a cottimo con salari bassissimi e condizioni di lavoro e di vita impietose. Infatti, numerosi di tali immigrati hanno partecipato attivamente alle rivolte o alle mobilitazioni di lotta che si sono consumate, ad esempio, da Rosarno a Nardò, NdR].
[4] ↑ K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Einaudi, Torino, 1998, p. 20.