Marco Santopadre (in Contropiano anno 23 n° 2 – novembre 2014)
E’ sempre utile tenere d’occhio le riflessioni e i consigli che l’ormai anziano e lucido Henry Kissinger rivolge all’amministrazione statunitense e a coloro che prendono le decisioni a Washington. Come alcune di quelle contenute in un suo nuovo libro, intitolato World Order (Ordine Mondiale). L’uomo politico statunitense, riportato recentemente alla ribalta perché dalla scoperta che nel 1976 voleva bombardare Cuba e schiacciare la rivoluzione castrista, infastidito dall’invio delle truppe di L’Avana in Angola, scrive cose assai interessanti per chi, come la Rete dei Comunisti, si interroga sulle tendenze di un mondo che appare immerso in un mutamento assai rapido e afflitto da una pericolosa instabilità.
«Il concetto di ordine mondiale che ha governato sinora i rapporti internazionali è entrato in una crisi irreversibile. Nei decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si accollarono l’onere di portare la fiaccola della leadership internazionale», scrive Kissinger, accennando, seppur eufemisticamente, alla lenta ma inesorabile fine del dominio assoluto degli Stati Uniti sul mondo e sul campo “occidentale”, e introducendo il tema dell’affermazione di uno scenario contraddistinto da un multipolarismo asimmetrico e dalla competizione globale.
Poi Kissinger descrive lo scenario di caos che caratterizza una consistente porzione del pianeta: «La Libia è in piena guerra civile, i fondamentalisti islamici con i loro eserciti stanno mettendo in piedi un autoproclamato Califfato invadendo i territori di Siria e Iraq, mentre la giovane democrazia in Afghanistan è in preda alla paralisi. A questi conflitti vanno aggiunti l’inasprimento delle tensioni con la Russia e un rapporto ambiguo con la Cina, alternante tra promesse di cooperazione e pubbliche recriminazioni». L’anziano leader politico segnala brevemente quella che potremmo definire l’opera di distruzione di numerosi “Stati deboli”, o “Stati falliti” (cioè di organizzazioni statuali contraddistinte da un forte squilibrio interno, spesso frutto dell’artificiosa e frettolosa spartizione del sud del pianeta operata dalle ex potenze coloniali) da parte degli Stati forti e che produce conflitti e guerre civili in cui paradossalmente gli apprendisti stregoni responsabili del caos si sentono chiamati a intervenire per ristabilire l’ordine, generando nuovo caos e un effetto a catena che inasprisce contraddizioni e competizione tra i Paesi imperialisti e nuove potenze regionali emergenti. Il passaggio che abbiamo riportato cita, inoltre, quelli che vengono esplicitamente individuati come nemici strategici degli Stati Uniti e dei suoi interessi, cioè Russia e Cina, Paesi con i quali Washington è impegnata in un evidente braccio di ferro.
Kissinger poi se la prende con l’Unione Europea, lamentando che «l’Europa si è data il compito di trascendere lo Stato e di plasmare una politica estera basata sui principi del “potere soft”. È lecito tuttavia dubitare che le pretese di legittimità, disgiunte da precise scelte strategiche, possano assicurare l’ordine mondiale. L’Europa, tuttavia, non ha ancora adottato, nel suo insieme, una struttura di Stato unitario, rischiando di creare un vuoto di autorità al suo interno e uno squilibrio di potere lungo i suoi confini». Paradossalmente, Kissinger accusa il polo imperialista europeo in formazione di essere troppo debole e lento, inadatto quindi ad affiancarsi a Washington nel ristabilimento di un ordine mondiale accettabile per l’Occidente, tacendo però il fatto che alcuni dei ritardi giustamente segnalati sono anche il frutto di una cosciente strategia statunitense di indebolimento del processo di unificazione europea, anche attraverso l’utilizzo di una quinta colonna costituita da alcuni Paesi dell’Europa dell’Est e del Nord, quella che qualche anno fa dall’altra parte dell’Atlantico fu ribattezzata “nuova Europa”, contrapposta a una “vecchia Europa” sempre più restia a intervenire supinamente al fianco della macchina militare statunitense contro il “male assoluto” di turno.
Ad un certo punto, analizzando lo scenario tendenzialmente più interessante e al tempo stesso pericoloso per le pretese di dominio statunitense, l’anziano ex segretario di Stato cita apertamente il pericolo della guerra: «In Asia la sfida assume una posizione opposta rispetto all’Europa: qui prevalgono i principi dell’equilibrio del potere, a prescindere da un concetto condiviso di legittimità, e i disaccordi occasionali rischiano di sconfinare nel conflitto armato».
Insomma Kissinger divide il globo in tre grandi aree: gli Stati Uniti, potenza in declino ma affatto arrendevole; un’Europa troppo indaffarata a utilizzare uno spesso inefficace soft power; l’Asia, terra di dittature, le quali però mettono in discussione l’espansione occidentale e che quindi riportano in primo piano il pericolo di uno scontro bellico su grande scala. Neanche i vecchi momenti di composizione tra potenze, le antiche e a lungo efficaci camere di compensazione tra interessi distinti e opposti, funzionano più: «il terzo fallimento dell’attuale ordine mondiale è l’assenza di un meccanismo efficace a disposizione delle grandi potenze per consultarsi e adottare misure collaborative sui problemi più urgenti e drammatici. Questa potrebbe apparire una critica superflua, alla luce dei moltissimi vertici multilaterali già in funzione, di gran lunga più numerosi di quanti ve ne siano mai stati nella storia dell’uomo. Eppure la natura e la frequenza di questi incontri sembrano invece ostacolare l’elaborazione di una strategia di lungo raggio».
I conflitti tra potenze e tra blocchi regionali, avverte Kissinger, non sono più componibili e il rischio è che l’aumento della competizione crescente e permanente produca una tensione tale da sfociare in una serie inarrestabile di conflitti lungo quella faglia nella quale le aree di influenza delle potenze si incontrano. «Lo scotto da pagare […] non sarà tanto una guerra tra Stati (anche se questo è un rischio reale in alcune regioni), quanto un’evoluzione verso sfere di influenza contraddistinte da particolari strutture interne e forme di governo. Ai margini, ciascuna sfera potrebbe essere tentata di dimostrare la sua forza contro altre entità reputate illegittime.
Una conflittualità protratta tra regioni potrebbe rivelarsi ancor più debilitante e perniciosa di una guerra tra nazioni».
Il rischio di guerra, avverte l’ex leader statunitense, è molto elevato, e per porvi rimedio Kissinger suggerisce alle parti in causa di sviluppare una “governance partecipativa” che sappia ricomporre alcune delle contraddizioni, basata sul principio che ognuno dei blocchi e delle potenze attive nella competizione eviti di invadere le sfere d’influenza altrui. «L’invasione militare di una regione, pur restituendo una parvenza di ordine, rischia di mandare in crisi il resto del mondo», scrive in World Order.
Consigli che però, analizzando la strategia statunitense e anche europea in Medio Oriente, in Estremo Oriente e in Ucraina, sembrano essere stati completamente inascoltati, visto che l’esplicita ingerenza occidentale nelle sfere di influenza di Russia e Cina sta causando esattamente “l’effetto collaterale” che Kissinger denuncia.
È eclatante, da questo punto di vista, quanto sta accadendo in questi mesi in Ucraina. Nell’ex repubblica sovietica Washington e Bruxelles sono state esplicitamente impegnate in un’opera di destabilizzazione di un governo che tentennava di fronte alle richieste occidentali affinché Kiev entrasse nella NATO, firmasse un Patto di Associazione con l’UE, si sottoponesse a un massiccio piano di privatizzazioni e permettesse alla Troika e in particolare al Fondo Monetario di fare e disfare senza impedimenti. Nel 2008 la Germania disse apertamente no agli Stati Uniti quando la Georgia invocò l’articolo 5 del trattato della NATO per imporre a tutti i partner dell’Alleanza Atlantica un folle intervento contro la Russia. Ma questa volta il ruolo di Berlino, di altri Paesi europei – Francia e Polonia – e dell’apparato dell’UE in quanto tale, nel sostegno prima ai manifestanti di “EuroMaidan” e poi all’escalation che ha portato al colpo di stato di febbraio, è stato rilevante. Ma quando il sostegno occidentale alle forze ultranazionaliste contro il governo e le pressioni contro il presidente Yanukovich hanno ottenuto i primi importanti risultati, le strategie di Stati Uniti e Unione Europea si sono diversificate, con Washington e i suoi maggiori alleati all’interno dell’Europa – Repubbliche Baltiche, Polonia e Romania – che hanno mosso le proprie pedine, in particolare le formazioni neonaziste, per imporre un’escalation violenta che non solo ha portato alla defenestrazione di un Yanukovich ormai sconfitto, ma anche all’inizio della guerra civile nelle regioni orientali e di uno scontro duro e dai difficili esiti tra fronte occidentale e Russia. Mentre Bruxelles pensava che bastassero sostanzialmente il soft power e una piazza etero-diretta a sfiancare il governo di Kiev e a imporre i propri interessi senza operare una rottura netta con Mosca, Washington ha premuto per una soluzione assai più drastica, che ha, sì, rimesso in campo l’egemonia statunitense in tutto lo spazio europeo, ma proprio penalizzando e incartando l’Unione Europea in un meccanismo di muro contro muro con la Russia, che si sta rivelando poco gestibile e assai negativo per l’economia di un’Europa già in crisi.
Uno scenario e un esito probabilmente preparato accuratamente da anni, come prova il fatto che le squadracce neonaziste entrate in scena dal gennaio scorso prima a Maidan e poi contro le regioni orientali dell’Ucraina, insorte contro il nuovo regime, sono il frutto di un lungo lavoro di addestramento e finanziamento da parte degli Stati Uniti e della NATO tramite gli avamposti di Washington nell’Europa orientale e settentrionale. Un piano scattato quando apparve evidente che gli effetti della cosiddetta “rivoluzione arancione” sponsorizzata da Europa e Stati Uniti si erano dissolti troppo presto a causa della litigiosità e della voracità dei leader della presunta opposizione democratica e filoccidentale.
La reazione della Russia – obbligata, del resto, nonostante Putin e soci non mostrassero alcuna esplicita intenzione di collidere con l’Occidente – ha contribuito a un’escalation che in pochi mesi ha “costretto” UE e USA a imporre sanzioni, esponendo l’economia europea alle dure contro-sanzioni di Mosca, spinta paradossalmente dall’aggressività occidentale verso un drastico ridimensionamento delle relazioni economico-commerciali con Bruxelles e in particolare con la Germania e a un riorientamento delle stesse verso Cina e BRICS.
Con il risultato che Berlino, così come Roma e Parigi, stanno ora subendo un tremendo effetto boomerang dal punto di vista economico, al quale si somma una rinnovata egemonia statunitense rispetto alle aspirazioni europee sia in campo militare che in quello energetico, con Washington che, di fronte alla prospettiva di una chiusura dei rubinetti del gas russo all’Europa, si propone come fornitore sostitutivo di idrocarburi.
È in questo quadro che non si può non notare il rinnovato e improvviso protagonismo della NATO nel contesto di uno scontro tra i due blocchi occidentali riavvicinati – quello forte ma in declino USA e quello debole ma teoricamente in ascesa dell’UE – e quello di Mosca, costretta al contrattacco dall’incalzare delle provocazioni politiche, economiche e militari.
Le due principali crisi in atto sullo scacchiere mondiale – Ucraina e Iraq-Siria – sembrano aver permesso a Washington di resuscitare rapidamente un’alleanza militare che negli ultimi anni si era assai affievolita, spesso scalzata dall’emergere del protagonismo autonomo dell’Unione Europea al quale Washington, nell’impossibilità di utilizzare la NATO in quanto tale, ha tentato di rimediare intervenendo in solitaria o tramite coalizioni approntate ad hoc (come del resto sta avvenendo anche nel caso dell’intervento obamiano in Medio Oriente).
All’interno di questa rapida escalation il vertice della NATO di Newport di inizio settembre ha segnato un momento di svolta e chiarificazione, formalizzando la nuova strategia dell’Alleanza Atlantica tornata prepotentemente – e tristemente – protagonista della scena internazionale attraverso la messa in opera di alcuni passi che hanno riportato il pianeta verso una Guerra Fredda che sembra assai più “calda” di quella chiusa alla fine degli anni ’80. Il tutto inquadrato in una cornice di tipo ideologico basata sul dovere degli Stati Uniti e dei suoi alleati di «affrontare le attuali e future sfide alla sicurezza» attribuite alla «aggressione militare della Russia contro l’Ucraina» e di contrapporsi alla «crescita dell’estremismo e della conflittualità settaria in Medio Oriente e Nord Africa».
Nel giro di poche settimane l’Alleanza Atlantica ha deciso di militarizzare ulteriormente il proprio confine orientale inviando migliaia di uomini e mezzi nelle Repubbliche Baltiche, in Polonia e in Romania, Paesi dove verranno realizzate cinque basi militari, definite eufemisticamente “temporanee”. D’altronde a maggio il Congresso statunitense aveva già concesso a Obama un pacchetto da un miliardo di dollari che, sotto il nome di European Reassurance Initiative, prevede il rafforzamento delle esercitazioni militari congiunte, delle attività di addestramento e dello stazionamento “temporaneo” di truppe e istruttori statunitensi, nonché della presenza della Marina statunitense nel Mar Baltico e nel Mar Nero, il tutto allo scopo di “rassicurare” i Paesi minacciati direttamente da quello che viene descritto come l’espansionismo russo. Come se in ballo ci fosse una possibile invasione russa della Lettonia o della Polonia, quando in realtà è vero esattamente il contrario, cioè che è l’aggressiva ingerenza di Washington e Bruxelles in alcuni Paesi confinanti con la Federazione Russa ad aver obbligato Mosca a delle brusche contromisure.
Basta guardare la mappa del continente europeo per fare piazza pulita della bassa propaganda della NATO e rendersi conto, a colpo d’occhio, che negli ultimi due decenni l’Alleanza Atlantica non ha fatto altro che espandersi a est e a nord, circondando la Federazione Russa da più lati e annettendo Paesi importanti ai suoi confini fino ad arrivare ora in Ucraina con esercitazioni e basi seppur non dichiarate, mentre già si prospetta l’assorbimento di Georgia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Macedonia.
Una continua e sfacciata violazione del Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security, il trattato del 1997 tra NATO e Russia che prevedeva, tra le altre cose e soprattutto, l’impegno ferreo da parte dei contraenti a non realizzare basi e missioni militari permanenti nell’Europa Orientale in modo da costituire un’area cuscinetto tra i firmatari del patto subito divenuto carta straccia. Inoltre Washington spinge assai sulla necessità di schierare truppe della NATO sul territorio di Svezia e Finlandia, a lungo Paesi neutrali nello scacchiere militare statunitense in Europa perché “troppo” vicini all’avversario.
Il vertice di Newport ha deciso anche di varare una Spearhead – termine che sta a indicare allo stesso tempo concetti come “punta di lancia” o “reparto di avanguardia” –, ossia una forza militare rivolta verso la Russia composta da parecchie migliaia di uomini dotati di armi e tecnologie sofisticate in grado di intervenire a est (contro Mosca, ovviamente) nel giro di poche ore in caso di necessità. Un ulteriore e più contundente dispositivo offensivo all’interno di una forza di reazione rapida – la NATO Response Force – già esistente e forte di venticinquemila uomini.
Senza dimenticare che la manovra a tenaglia di Washington contempla, dall’altro lato del globo, un rafforzamento da tempo in atto dello schieramento militare statunitense nel Pacifico in funzione principalmente anticinese ma comunque minaccioso anche per la Russia e i suoi interessi strategici. Il principale obiettivo strategico dell’amministrazione Obama è stato enunciato esplicitamente nella Defense Planning Guidance, in cui Obama dichiara: «il nostro primo obiettivo è impedire che qualsiasi potenza domini una regione le cui risorse sarebbero sufficienti a generare una potenza globale».
Sicuramente in Asia, quindi, dove anche a causa dell’aggressività degli Stati Uniti e del Giappone si prefigura la possibilità che le relazioni tra Mosca e Pechino si rafforzino potendo contare anche sul sostegno degli altri BRICS.
All’interno di questa folle strategia, la NATO mette in campo una mostruosa macchina militare che trascina il continente europeo in una spirale di scontro frontale con la Russia, le cui conseguenze sono imprevedibili e foriere di sventura.
Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la terza guerra mondiale, il segretario della NATO citarla anche se per dire che non è all’ordine del giorno (!) e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del pianeta, non è affatto rassicurante. Soprattutto perché la realtà si incarica ogni giorno di confermare che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente verso il basso, accelerando la propria corsa.
La cosa che colpisce – e che dovrebbe colpire anche gli ottusi e distratti “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa.
La linea “suicida” intrapresa dai governi dell’Unione Europea in Ucraina è emblematica.
E anche più a sud non va meglio. La destabilizzazione creativa (una categoria rassicurante usata per descrivere le guerre asimmetriche di aggressione scatenate dal 2001 a oggi) ha creato una fascia di instabilità belligerante che parte dalla Libia passando per Egitto, Palestina, Libano, Siria, Iraq fino all’Afghanistan. Insomma, la sponda sud del Mediterraneo è l’area di instabilità e guerra più infuocata del globo, configurandosi un vero e proprio “anello di fuoco”, per mutuare in termini geopolitici una definizione che riguarda la più lunga delle linee di scontro tra placche tettoniche, quella che si trova nel Pacifico e parte dall’Australia, risale per l’Asia orientale e ridiscende dall’America del nord fino a quella meridionale. Quello che sta avvenendo attorno al continente europeo ne è l’equivalente in termini geopolitici, con l’Unione Europea e gli Stati Uniti, anche se per con obiettivi non coincidenti, che nella propria Rete dei Comunisti spinta espansionistica travolgono e destabilizzano tutte le aree in cui intendono allungare i propri tentacoli o abbattere ostacoli di ogni tipo per il raggiungimento dei propri interessi.
Una situazione simile poco più a sud, in almeno una decina di Paesi dell’Africa centrosettentrionale dove si combattono guerre civili alla presenza di un numero considerevole – e crescente – di truppe francesi e dove il presidente Obama intende controbattere, inviando migliaia di soldati, con la pretesa di coprire la spudorata operazione egemonica sotto l’aura eroica della lotta contro l’epidemia di Ebola (!).
A proposito di “destabilizzazione creativa” e di “Stati forti” che disgregano e spazzano via “Stati deboli”, dal momento in cui il campo socialista è entrato in crisi, l’imperialismo ha perseguito, e ottenuto, la disintegrazione della Jugoslavia, della ex URSS e di altri Stati. Il che ha permesso al capitalismo occidentale di conquistare altri territori “vergini”, che hanno visto nascere a est di Berlino ben trenta Stati dove prima ve ne erano soltanto otto; e solo la metà di questi ha più di dieci milioni di abitanti. In molti casi staterelli, poco più che “granducati”. Facili da piegare, minacciare, ricattare, eventualmente cancellare o sovvertire.
Tale processo però sembra essere arrivato, attualmente, al suo limite massimo. E non solo perché oggi la Russia di Putin non è quella di Eltsin e punta i piedi nel proprio “cortile di casa”, ma perché somiglia, assai più che l’URSS, ai suoi competitori; e perché tra le potenze emergenti (i BRICS ma non solo) e i blocchi imperniati sugli Stati Uniti e l’Unione Europea non ci sono più i margini per spartirsi in modo concertato – come consiglierebbe Henry Kissinger – il mondo come è avvenuto per alcuni decenni.
Dunque, se, come ricorda Kissinger, la concertazione e le camere di compensazione – per quanto asimmetriche rispetto all’egemonia statunitense – non hanno più la possibilità oggettiva di realizzarsi, allora il mondo diventa oggetto di una competizione spietata.
Nella competizione globale tra blocchi contrapposti il dato quantitativo è centrale per i Paesi imperialisti; dunque, allargare le proprie aree di influenza, rafforzare la propria moneta, controllare i mercati, la forza lavoro e le fonti di materie prime, a cominciare da quelle energetiche, è il presupposto per sostenere un confronto competitivo in uno spazio mondiale sempre più ristretto, viste le dimensioni continentali che oggi hanno raggiunto le diverse aree economiche e monetarie esistenti. La competizione multipolare vede il “tutti contro tutti” con ogni mezzo.
Quindi il caos e l’instabilità portate nel cortile di casa degli altri competitori – e che Kissinger sconsiglia vivamente – diventano la condizione preliminare e necessaria al perseguimento dei propri scopi. Che tutto questo abbia un costo umano sempre più alto non pare essere un problema. Un capitalismo in crisi distrugge i capitali in eccesso, è noto. E per un sistema che punta solo alle risorse, alla sopravvivenza competitiva, anche il “capitale umano” – definito anche e non a caso “capitale variabile” – può diventare un eccesso da dover distruggere.
È per questo che occorre denunciare una “tendenza alla guerra” consustanziale al capitalismo e all’attuale assetto delle relazioni internazionali, alla quale contribuisce un processo di rafforzamento e approfondimento del polo imperialista europeo, sempre più aggressivo sia al suo interno che all’esterno, da tempo al centro dell’analisi e della riflessione della Rete dei Comunisti.
È per ora pensabile uno scontro militare diretto tra l’asse USA-UE e la Russia? La ragione ci direbbe di no, non fosse altro perché Mosca – e Putin ci ha tenuto a ricordarlo esplicitamente nei giorni più caldi del braccio di ferro con l’occidente – è una potenza dotata di un imponente arsenale nucleare.
Saranno quindi sufficienti a evitare lo scontro diretto la deterrenza nucleare e la coscienza che una guerra diretta avrebbe comunque esiti disastrosi anche attraverso il “solo” uso di armi convenzionali, comunque enormemente assai più distruttive di quelle che causarono decine di milioni morti nella Prima e nella Seconda Guerra Mondiale? Qui ritorna l’intuizione di Kissinger rispetto alla possibile apertura di un’epoca contraddistinta da continui conflitti tra i blocchi che si esplicita non necessariamente in uno scontro diretto ma in uno stato di guerra permanente alla propria periferia, nelle aree di contatto e quindi contese. Il che comunque ci parla, anche nello scenario meno catastrofico, di un aumento del ruolo degli apparati militari nella gestione degli Stati e delle relazioni internazionali, di una crescita della spesa militare a danno di quella sociale, di un restringimento ulteriore degli spazi di libertà e di democrazia, in nome della difesa degli interessi del proprio blocco.
Come va letta quindi la fase più recente dei rapporti tra i principali blocchi geopolitici mondiali? La domanda che occorre porsi – e alla quale per ora nessuno è in grado di rispondere, neanche i protagonisti diretti del ridisegno delle relazioni geopolitiche mondiali – è se i processi messi in moto con il sostegno occidentale al colpo di stato nazionalista in Ucraina non abbiano prodotto un recupero completo da parte degli Stati Uniti della propria supremazia sull’Unione Europea.
Le cronache degli inviati in Galles e i commenti degli esperti ci hanno generalmente restituito l’immagine di un vertice tutto sommato unitario, concorde, quasi corale, finito con la sottoscrizione di numerosi accordi. Ma la dichiarazione finale di Newport, che conta ben 113 punti, potrebbe anche indicare che non è andata esattamente così e che ci sia stato bisogno di “allungare il brodo” per celare il mancato raggiungimento del consenso su importanti questioni.
In realtà tra Washington e Parigi-Roma-Berlino esistono differenze di vedute rispetto ai tempi e ai modi dell’escalation nei confronti del gigante russo – sulle nuove sanzioni chieste da Obama, ad esempio –, ma per ora sembra che si stia andando verso una strategia comune di compromesso. Ma sul tema delle sanzioni la differenza di vedute tra Bruxelles e Washington è stata e continua a essere evidente, anche per le ragioni che accennavamo sopra.
Un importante nodo della discordia tra i due “corni” della NATO – quello statunitense e quello europeo – per ora sembra quello economico, con gli americani che insistono con gli europei affinché investano più risorse nel comparto militare e contribuiscano maggiormente a un bilancio che per ora è stato coperto in buona parte da Washington. Se l’UE vuole contare nelle decisioni e nelle missioni – sembra il messaggio neanche troppo recondito del Pentagono – occorre che essa adegui il proprio contributo finanziario alla macchina bellica in via di rafforzamento. Del resto, varare il Piano di prontezza operativa (readiness plan), propedeutico alla formazione della Forza di Intervento Rapido, costerà ai 28 partner dell’Alleanza un esborso non indifferente. A ogni Paese è stato ufficialmente richiesto un impegno pari ad almeno il 2% del proprio PIL – a fronte del 4,5% già investito da Washington – contro ad esempio lo 0,8% dedicato ufficialmente dall’Italia alla Difesa (che in realtà sale all’1,2%, contando i comparti del settore coperti da altri ministeri). Si prospetta dunque in Europa un aumento consistente della spesa militare già troppo alta rispetto a una spesa sociale continuamente tagliata sulla base di disastrose politiche di austerity. Quella italiana, secondo i dati ufficiali della NATO, ammonterebbe a 56 milioni di euro al giorno, più la spesa per le missioni militari all’estero e altri stanziamenti extra-budget, che secondo il Sipri portano la spesa militare effettiva dell’Italia a quasi 70 milioni di euro al giorno. Uno stanziamento che sulla base di quanto deciso a Newport – dove si sono anche stabiliti meccanismi sanzionatori per i Paesi che non rispettano la tabella di marcia – dovrebbe quasi raddoppiare nei prossimi anni.
Resta però tutto da indagare il modo in cui l’Unione Europea intende conciliare il nuovo apparente abbraccio con Washington – con cui è in corso una lenta e altalenante trattativa per la firma del cosiddetto TTIP – e lo storico progetto di dotarsi di un esercito unitario e di un comparto militare industriale indipendenti.
Da questo punto di vista, proprio recentemente si registrano nuovi importanti sviluppi, con l’inizio di una procedura di fusione tra due importanti industrie della difesa specializzate nel settore degli armamenti terrestri, la KMW e la Nexter (la prima tedesca e l’altra francese), celebri per aver sviRete dei Comunisti luppato rispettivamente i carri da combattimento Leopard e Leclerc. La fusione porterebbe alla creazione di una holding enorme, con 6,5 miliardi di ordini già in essere e circa sei mila dipendenti, il cui azionariato sarebbe diviso in modo paritetico al 50% tra i due soci. La data ultima per finalizzare l’accordo è stata fissata per gli inizi del 2015, e quindi bisognerà attendere qualche mese per capire se l’operazione andrà in porto.
«L’eventuale fusione tra le due aziende costituisce solo uno dei tasselli di un mosaico, quello dell’industria europea della difesa, ancora in fase di ristrutturazione e il cui processo, sebbene spesso macchinoso, potrebbe subire inattese accelerazioni proprio alla luce di iniziative nate e concepite all’interno della realtà industriale poi avallate e legittimate con un forte supporto politico.[…] Nel campo spaziale si è già cominciato a rimescolare le carte in tavola, prima con la jointventure nel segmento dei lanciatori tra Airbus e Safran, poi con alcune dichiarazioni francesi che vedrebbero positivamente un riavvicinamento tra Thales Alenia Space e Airbus nel comparto satellitare», scrive Alessandro Ungaro su «Affari Internazionali».
Insomma, l’unificazione del complesso militare-industriale europeo procede abbastanza spedita e ad allontanare le due sponde dell’Atlantico restano, pesanti come macigni, i recenti “screzi” tra Berlino e Washington a proposito di spionaggio e guerra tecnologica.
D’altra parte, il Defense Planning Guidance degli Stati Uniti di qualche anno fa dichiarava apertamente di ritenere «di fondamentale importanza preservare la NATO quale canale dell’influenza statunitense negli affari della sicurezza europea» e «impedire la creazione di dispositivi di sicurezza unicamente europei, che minerebbero la NATO».
È lecito chiedersi se l’Unione Europea e in particolare Berlino siano disposti a sacrificare del tutto la collaborazione economica con Mosca e la propria indipendenza militare in nome di un muro contro muro che fa più gioco a Washington che a Bruxelles.
Appare inoltre assai paradossale che le classi politiche europee – e le rispettive opinioni pubbliche, soprattutto i settori teoricamente più sensibili e progressisti, non si stiano preoccupando affatto della reazione di Mosca e delle contromisure militari che la Russia sarà costretta ad adottare di fronte alla folle escalation iniziata da Bruxelles. E anzi, i pochi strumenti di informazione che lanciano l’allarme e che incitano a cercare di fermare questo micidiale piano inclinato – come «Contropiano» – vengono tacciati di diffondere notizie allarmistiche.
Non si tratta, crediamo, di predire una apocalittica e ineluttabile guerra imperialista, ma di saper cogliere che sempre più spesso si stanno manifestando elementi di irrazionalità nelle relazioni internazionali che possono portare a situazioni ingestibili per gli stessi poteri imperialisti che ora si ritengono onnipotenti. Ma che, come ha dimostrato lo scoppio della Prima guerra mondiale esattamente un secolo fa, non sono affatto in grado di controllare al millimetro processi che una volta messi in moto conducono gli eventi verso una precipitazione.
Le guerre non rappresentano fatalità o incidenti. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici già in atto, certo, ma si verificano perché ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo già alcuni anni fa.
In questo senso riaffermiamo che la lotta da fare per rompere la gabbia dell’Unione Europea ha una valenza progressista; non è vero che oggi l’Europa è lo spazio comune dove far crescere la democrazia, tutt’altro.
Oggi il costituendo polo imperialista europeo costituisce un pezzo importante della tendenza alla guerra a cui accennavamo sopra.
Rompere la costruzione statuale dell’Unione Europea significa quindi contrastare un nuovo imperialismo nascente e dunque svolgere una funzione oggettivamente democratica e avanzata perché tendente a bloccare una delle spinte più forti verso la competizione globale, in quanto questo è possibile solo se si riesce a organizzare e orientare politicamente quei settori sociali subalterni, penalizzati dagli sviluppi attuali.