Noi Restiamo
Uno sguardo sulla realtà
Un soggetto politico che oggi voglia incidere sullo scenario di classe non può in alcuna maniera evitare di confrontarsi con il tema dell’interconnessione tra la più grande crisi sistemica del capitale degli ultimi 80 anni e la costruzione, in itinere, del polo imperialista europeo. L’Unione Europea, in particolare attraverso l’Euro, è stata fin dalla sua creazione un formidabile strumento per la deflazione salariale, una politica fondamentale per il capitale in tempo di crisi, in quanto rilassa la pressione sui profitti. Tuttavia a partire dalla crisi del debito greco si è manifestato chiaramente come gli effetti della crisi non sarebbero stati uniformi all’interno dell’Eurozona. La ristrutturazione in atto del capitale europeo si gioca infatti su due livelli, un processo interno ad ogni singolo paese, ed un processo di ristrutturazione a livello macro-regionale. Mentre del primo parleremo più avanti, rispetto al secondo possiamo facilmente vedere la definizione di due regioni distinte. Emergono infatti un Centro, capitanato dal grande capitale tedesco, fondato su politiche Neo-Mercantiliste e caratterizzato da una produzione ad alto valore aggiunto, e, dall’altro lato, una Periferia, composta dai paesi dell’area mediterranea (i cosiddetti PIGS) ma anche dai paesi dell’est-Europa, a cui viene sostanzialmente attribuito il ruolo di “colonie interne”: sbocco per le merci e bacino di risorse, sia naturali sia (ed è questo il caso) di forza lavoro, per i paesi del Centro. È in quest’ottica che vanno lette le riforme imposte dalla Troika a Grecia, Spagna e Portogallo etc., come uno smantellamento della struttura produttiva locale finalizzata alla ristrutturazione regionale necessaria per la costruzione di un nuovo polo imperialista.
Collocare l’Italia all’interno di questa ristrutturazione regionale non è un compito facile: comunemente affiancata agli altri paesi dell’area mediterranea, i cosiddetti PIGS, l’Italia presenta però caratteristiche sostanzialmente differenti. Nonostante 20 anni di stagnazione, essa rimane la quarta economia in Europa e la nona nel mondo, nonché la seconda potenza industriale europea. Presenta caratteri di “arretratezza”, capitalisticamente parlando, rispetto ai paesi del nord (predominanza di piccole e medie imprese, imprenditoria “parassitica” e fortemente dipendente dal sostegno statale, elevati livelli di corruzione), ma non può certo considerarsi un pesce piccolo. Bisogna riflettere che nonostante l’”Austerity” sia da sei anni al centro del dibattito, sia istituzionale sia nella debole sinistra radicale, ancora non ha colpito l’Italia con la forza con cui lo ha fatto in altri paesi. Certo, abbiamo avuto la nostra dose di massacro sociale, ma non è (ancora) paragonabile con quello che è stato fatto in Grecia, o in Portogallo. La spada di Damocle del Fiscal Compact (che dovrebbe entrare in vigore a gennaio) è sempre lì, ma ad oggi la classe dirigente italiana sembra schierarsi compatta per una messa in discussione delle linee guida per il futuro, dichiarandosi a parole contro l’austerità. Confindustria, CGIL, PD, persino Giorgio Napolitano, che in questi anni è stato il garante delle riforme volute da Bruxelles, si sono infatti tutti espressi in maniera critica al riguardo.
Per capire il senso di tutto ciò bisogna tenere conto che “Austerity” è in realtà un concetto spurio, che comprende almeno tre processi ben distinti tra loro, e che sono la declinazione viva delle forme attualmente possibili per la ristrutturazione del capitalismo continentale di cui parlavamo:
- Austerity nella cornice della ristrutturazione del sistema produttivo di un paese: le politiche che rispondono a questa funzione sono quelle che vanno ad intaccare la struttura produttiva stessa di un paese nei suoi elementi più essenziali, ovvero le riforme del mercato del lavoro e lo smantellamento del sistema produttivo statale (privatizzazioni).
Da notare però che il processo di ristrutturazione del sistema produttivo non passa soltanto attraverso questi canali: abbiamo anche processi di mercato, come la concentrazione di capitale derivante dalle migliaia di fallimenti, o altri tipi di politiche pubbliche, come il sostegno alle esportazioni, politiche industriali ed energetiche…
- Austerity finalizzata alla rinegoziazione dei rapporti di forza interni: avvantaggiandosi di una fase recessiva il capitale cerca di riprendersi parte del plusvalore di cui la classe lavoratrice si era appropriata attraverso le lotte di redistribuzione. Assistiamo quindi a tagli a tutte le forme di salario indiretto e differito, e quindi gli attacchi a sanità, istruzione, pensioni, assistenza. Questo tipo di politiche sono comuni in tempo di crisi, in cui la disoccupazione aumenta e il potere contrattuale della classe lavoratrice diminuisce. Sono oggi infatti una costante tra tutti i paesi occidentali, in cui viene poco a poco smantellato il welfare state costruito nella seconda metà del Novecento. La costruzione dello stato sociale fu d’altronde il frutto di un preciso momento storico: una rinnovata combattività dei lavoratori all’interno della struttura produttiva fordista e la presenza di un’alternativa reale al consolidato blocco occidentale erano i due pilastri che, nel disegno degli ordinamenti costituzionali spinti dalle guerre di liberazione dal nazifascismo, hanno reso possibile l’attuazione di politiche dall’impianto keynesiano oggi incoerenti nella cornice delle istituzioni comunitarie.
Anche qui, bisogna notare che la rinegoziazione dei rapporti di forza interni non passa soltanto attraverso politiche statali (quale è appunto l’austerity): l’aumento della disoccupazione e l’indebolimento delle organizzazioni di classe comportano uno spostamento di potere a favore dell’impresa in ogni singolo posto di lavoro. Inoltre bisogna tenere conto dei conflitti all’interno della stessa classe dirigente: piccole imprese contro grandi imprese, capitale industriale contro capitale finanziario, riposizionamento di vari settori della produzione derivanti dai nuovi assetti del commercio internazionale. In fondo, quest’ultimo aspetto è forse l’unico elemento reale che abbia recentemente segnato la scena istituzionale italiana, nel passaggio di governo avvenuto nel 2011.
- Austerity legata a rapporti di forza internazionali: le “riforme” che hanno questa funzione sono solitamente le più pesanti. Prevedono politiche già nominate nei primi due punti, ma con una magnitudine significativamente maggiore: violenti tagli alla spesa pubblica, liberalizzazioni selvagge, svendita di patrimonio statale per far cassa, licenziamenti di massa di lavoratori del pubblico impiego. L’austerity di questo tipo è quella imposta dall’FMI a molti paesi del terzo mondo durante gli anni ’70-’80, ed ovviamente si annoverano in questa categoria le politiche imposte ai paesi della Periferia europea, all’interno di quel processo di ristrutturazione macro-regionale di cui sopra. È significativo notare la differenza con i primi due punti: la distinzione è data dalla violenza con cui vengono adottate queste misure, che arrivano a smantellare la struttura sociale stessa di un paese ad un livello tale che il capitale locale non oserebbe mai (non perché il capitale nazionale sia caratterizzato da maggior senso dell’etica, ma semplicemente perché non ha alcun interesse alla completa distruzione del paese in cui opera)
Ovviamente, i tre processi precedenti, in cui si inseriscono i diversi profili dell’Austerity, sono strettamente legati fra loro: non vi può essere una ristrutturazione del sistema produttivo senza una rinegoziazione dei rapporti di forza, e i rapporti di forza internazionali influiscono in maniera significativa anche su quelli interni.
Tuttavia può essere utile tenere i concetti distinti. Ad esempio per rispondere a chi dice che la Germania abbia iniziato le politiche di austerità già dall’inizio degli anni 2000, e che questo l’abbia trovata meglio preparata alla crisi. Tuttavia il tipo di politiche intraprese possono essere viste come un anticipo sulla ristrutturazione del sistema produttivo: precarizzazione del mondo del lavoro, tagli ai salari per stimolare la competitività, una politica quasi Neo-Mercantilista fondata sulle esportazioni. L’austerity che è stata imposta ai paesi della periferia europea va però anche ben oltre.
Capire quindi se l’Italia si candidi ad essere “l’ultima tra i primi” piuttosto che “la prima fra gli ultimi”, e come questo si relazionerà con gli interessi delle altre grandi economie europee, diventa fondamentale per leggere e magari prevedere le politiche che ci verranno imposte, e per immaginare quindi strumenti specifici adeguati ad aprire una breccia politica difronte a scenari ben determinati.
Il processo di ristrutturazione del capitale italiano non si sta dimostrando morbido con le classi popolari, ma i suoi effetti, anche a causa del cuscinetto garantito dal risparmio privato, sono al momento più subdoli, e riconoscibili maggiormente nel lungo periodo. Limitarsi però ad una critica dell’austerity senza inquadrarla all’interno di un contesto complessivo, comprendendo la fase storica e osservando le tendenze anche di medio e lungo periodo, rischierebbe invece di diventare un boomerang per qualsiasi progetto antagonista. Significherebbe infatti accettare di non elaborare una propria strategia realmente autonoma, che non sia quindi alla mercé degli interessi del capitale, e implicherebbe l’accettazione del rischio di correre molto senza avanzare di un millimetro, qualora gli scenari assumessero contorni che non siano stati tempestivamente considerati. Questo è particolarmente vero in un periodo, come questo che stiamo vivendo, che vede pesanti smottamenti nella situazione geopolitica internazionale, con focolai di guerra che appaiono a distanza sempre più ravvicinata e sempre più vicini a noi. Qualora la situazione degenerasse ulteriormente, lo scenario in cui ci si troverebbe ad operare sarebbe completamente diverso. Sono queste ragioni che ci spingono a ribadire una volta in più la necessità di considerare gli avvenimenti nel loro dispiegamento a 360 gradi attorno a noi. O ci arrendiamo all’idea che la partecipazione politica delle fasce popolari subisca l’egemonia delle retroguardie nazionaliste e reazionarie, che cercano di riaffermare le proprie istanze in un momento storico in cui le frazioni di borghesia transnazionale detengono le redini del comando e producono accelerazioni (anche violente) che non controlliamo, o apriamo spazi di confronto a sinistra che sappiano individuare le forme che si sta dando l’attacco di classe dall’alto nel contesto dell’accentramento del potere in Europa durante la crisi. La soluzione non sta né nel tornare indietro né nell’andare avanti, ma nel cambiare strada e uscire dal sistema capitalista!
La politica che vogliamo agire
Come nodi locali della campagna nazionale Noi Restiamo abbiamo assunto la consapevolezza collettiva che sarebbe velleitario avviare un percorso solitario per cercare di comprendere questi problemi complessi, e per darvi risposte credibili. E’ quindi secondo un processo del tutto conseguente che siamo naturalmente approdati alla scelta di dover agire all’interno di un’area politica in cui si mettono a confronto soggettività diverse, le quali trovano qui la possibilità di interagire organicamente a seconda delle proprie specifiche funzioni. Questa consapevolezza ci deriva anche dalla valutazione delle due grandi mancanze con cui un movimento di classe deve confrontarsi oggi alle nostre latitudini: l’impossibilità oggettiva di un’ipotesi rivoluzionaria nel medio periodo e l’assenza di un’organizzazione che sappia farsi portavoce di tale ipotesi. In Italia inoltre, caso unico nel Mediterraneo, abbiamo finora assistito a una certa latenza di spinte dal basso in risposta all’attacco che stiamo subendo. Certo, nonostante questa evidenza, di fronte alla quale non possiamo mancare di notare nuovamente motivazioni tanto di carattere oggettivo quanto soggettive, dobbiamo sottolineare che esistono possibili punti di accumulazione per un’opposizione sociale, alla quale comunque bisogna riconoscere di aver manifestato momenti di effervescenza, seppur sporadici. Nell’anno trascorso un blocco sociale ha iniziato a dare segnale della presa di coscienza di sé, ma gli avanzamenti politici, pur presenti, si sono dimostrati difficili da realizzare e ancora deboli nella forma che hanno assunto. Si delineano così i confini dell’azione possibile oggi per la campagna Noi Restiamo. La mancanza di una soggettività che sappia raccogliere e rilanciare omogeneamente i rari momenti di contrapposizione allo scenario che ci viene imposto, unitamente alla complessità degli eventi dei quali abbiamo tentato di dare una veloce mappatura, rende superfluo per una singola realtà con le nostre caratteristiche immaginare di coprire tutti gli ambiti possibili. Se non vogliamo però rinunciare al contributo che pure crediamo di poter dare, risulta per noi necessario trovare punti di ulteriore sintesi con i soggetti con cui ci siamo confrontati finora, sul piano strategico, sindacale e della rappresentanza politica, operando congiuntamente all’interno di un’area comune.
In quest’ottica, la scelta di concentrarsi sul mondo giovanile non va quindi interpretata come individuazione della “scintilla rivoluzionaria” all’interno di tale contesto. È da intendere piuttosto come apertura di spazi realmente praticabili su un pezzo di società inserito in una cornice segnata da un passaggio storico, nel quale il progetto generale si integra appunto con l’esclusione sempre più evidente di un segmento generazionale. Da qui deriva la nostra concentrazione sulla polarizzazione tra Centro e Periferia all’interno del mondo della formazione, universitario e di preparazione al mercato del lavoro. Assistiamo alla valorizzazione di pochi poli formativi di eccellenza e allo smantellamento, attraverso tagli e soppressioni di interi percorsi, di un’istruzione di qualità nell’Europa mediterranea e orientale. Questa tendenza spinge migliaia di giovani ad emigrare proprio al Centro: più che una fuga un “furto di cervelli”, perfettamente coerente con le dinamiche neo-coloniali di cui si parlava sopra. Uno scenario in cui il nostro paese è tanto terra di emigrazione quanto di immigrazione, anche studentesca, sottolineandone ulteriormente il carattere ambiguo assunto finora nel posizionamento internazionale.
Sono questi, insomma, anni in cui le nuovi generazioni sono profondamente colpite, tanto nell’immediato quanto in prospettiva, dalla crisi e dalle dinamiche di ristrutturazione che questa ha messo in moto. I processi di riforma del mercato del lavoro prevedono in molti casi modelli contrattuali a tutele crescenti, in modo tale da realizzare una eterogeneità tale da fiaccare le forze di un eventuale scontro sociale. La disoccupazione giovanile nel frattempo sfiora il 45%, una statistica conservativa in quanto tiene conto soltanto di chi sta attivamente cercando lavoro, trascurando chi vi ha rinunciato. Di fronte a questi numeri, mentre il sotto-inquadramento diventa uno standard e scompaiono le occupazioni da classe media, un giovane si trova ad essere spinto ad emigrare se vuole avere maggiori possibilità di assunzione (sorvolando sull’assenza di garanzie e di assistenza). Il mito della fuga all’estero diventa effimero e fugace per chi, lì come a casa, troverà presto condizioni di lavoro precario, subalterno, mal retribuito, con diritti messi sistematicamente sotto attacco dalla crisi. Si crea inoltre un’evidente e ulteriore spaccatura, questa volta con i coetanei più fortunati, i quali volendo perfezionare i propri studi possono cogliere la mobilità internazionale come possibilità di associarsi all’élite tecnica e intellettuale che sorregge l’impalcatura europea, in una competizione individualista che raramente vede protagonista la tanto decantata meritocrazia.
Un tipo sociale, quello giovanile, che si mostra quindi in seria difficoltà, ma non facile da intercettare. L’assenza di un’ipotesi di cambiamento profondo e immediato, infatti, preclude un’attività puramente politica con una buona parte di questi soggetti, primi tra tutti i disoccupati. Una volta di più allora risulta imperativo cogliere la possibilità di muoversi in sinergia con gli attori più incisivi oggi sul piano della resistenza e della conflittualità dal basso, anche approfondendo ulteriormente quei percorsi di confederalità sociale sperimentati finora. Inoltre, crediamo che negli spazi politici che la nostra campagna potrà e dovrà continuare ad aprire nel mondo giovanile, potrebbe subentrare in seconda battuta una figura come quella sindacale per portare avanti campagne più puramente rivendicative. Significa questo concentrare invece i nostri sforzi sulla costruzione di immaginario, sul senso di appartenenza a una comunità di destino, sulla delineazione di un futuro alternativo.
Evidentemente l’intera filiera della formazione (dalle scuole secondarie all’università, dai tirocini ai corsi professionalizzanti) presenta le caratteristiche del terreno su cui provare ad operare. Un punto di smistamento fatale tra i pochi che si affacciano al mondo del lavoro direttamente dalle cabine di regia e i molti che si preparano ad esserne carne da macello. Un luogo nel quale rafforzare un senso di comunità difficile da riscontrare in altri ambiti del mondo giovanile, e dal quale rilanciare le sorti di un senso di appartenenza di classe ormai raro a qualunque livello sociale (se si esclude proprio quella classe dirigente che ha raramente avuto così chiari i propri obiettivi comuni). È a partire da qui che dobbiamo dunque tentare anche una battaglia culturale che sappia aggredire il “discorso del padrone”. Un discorso che porta con sé le nefaste conseguenze dell’impotenza e della depressione nel contesto di un’atomizzazione sociale sempre più diffusa, colonne portanti del processo di depoliticizzazione atto a garantire il mantenimento dello stato di cose presenti. Sono questi i connotati del mondo in cui ci imbattiamo nelle nostre lotte quotidiane, e di fronte ai quali dobbiamo saper trovare gli strumenti migliori per farvi fronte e per superarli, entusiasmati dalle possibilità messe in campo dai cambiamenti in atto e dall’apertura (anche geografica) degli spazi politici per noi oggi possibili!