Italo Nobile (in Reddito garantito – Il lavoro è discontinuo. La vita no.)
La problematica del reddito minimo garantito solleva molte questioni che possono essere affrontate a diversi livelli di astrazione. In questa sede si proverà a riflettere ad un livello piuttosto generico in modo da poter adattare successivamente i temi a circostanze maggiormente determinate.
Una prima questione riguarda un contesto più specifico e limitato. Ovvero essa si può formulare in questo modo: il reddito minimo può essere il contenuto di una lotta da parte di soggetti che si proclamano comunisti e sono ispirati ad una visione marxista della società?Si potrebbe già risolvere la questione dicendo che soggetti di questi tipo potrebbero fare a certe condizioni storiche una battaglia di tipo riformista.
Tuttavia si può nutrire l’ambizione che il reddito minimo sia più che una battaglia riformista. In primo luogo infatti si può dire che esso sia una cartina di tornasole che evidenzi ad esempio come sia vera la previsione marxiana (contenuta ne il Manifesto) per cui all’interno del modo di produzione capitalista “[… ] il lavoratore moderno, invece di elevarsi con il progresso dell’industria, tende a impoverirsi rispetto alle condizioni di vita della sua classe. Il lavoratore diventa povero, e la povertà si sviluppa più rapidamente della popolazione e della ricchezza. Emerge così chiaramente che la borghesia non è in grado di restare ancora a lungo la classe dominante nella società e di dettarvi legge alle sue condizioni.
La borghesia è incapace di governare perché non è in grado di garantire l’esistenza ai suoi schiavi all’interno del suo stesso schiavismo, perché è costretta a lasciarli sprofondare in una condizione che la costringe a nutrirli, anziché esserne nutrita.”. Dunque già di per sé una lotta di questo tipo sarebbe la più forte denuncia della condizione di crisi irreversibile del capitalismo. In questo senso essa avrebbe un contenuto almeno indirettamente rivoluzionario. In secondo luogo la battaglia per il reddito minimo richiama sia pure in maniera simbolica il criterio di redistribuzione in base al bisogno e non più al lavoro, criterio che Marx pone alla base del comunismo rispetto al socialismo.
Per quanto le circostanze non siano mature per un passaggio complessivo dell’intera società verso un orizzonte del genere, tuttavia una battaglia in questa direzione mira a gettare i presupposti culturali perché un tale passaggio sia facilitato al punto che si può ipotizzare che le resistenza di frange della Sinistra a questo obiettivo siano la misura del ritardo circa la comprensione e la condivisione di tale principio di redistribuzione.
Qualcuno, a tal proposito, potrebbe richiamare l’opinione (negativa) che Marx aveva del sistema di Speenhamland introdotto in Inghilterra nel 1795 nel quale veniva introdotto un reddito minimo accordato nell’ambito parrocchiale come complemento al salario. Il punto è che il sistema di Speenhamland solo apparentemente può essere avvicinato ad un sistema di reddito minimo garantito, in quanto si trattava di un reddito integrativo la cui distribuzione restava discrezionale e subordinata alla disponibilità da parte del lavoratore di accettare qualsiasi tipo di lavoro precario e sottopagato. Senza contare che comunque tale sistema, per quanto negativo, contribuì a portare anche all’abolizione nel 1813 delle leggi che fissavano un limite massimo del salario, mentre già nel 1796 ci fu alla Camera dei Comuni inglese una proposta di legge sui minimi salariali.
Stabilire un minimo vitale portò dunque a pensare anche ad un salario minimo che andasse oltre il reddito di sussistenza. Alcuni marxisti poi dicono che non bisogna parlare di reddito ma di salario sociale, ovvero di un salario indiretto erogato sotto forma non di prestazioni sociali ma in forma monetaria. Non siamo in disaccordo con questa concezione anche se possiamo continuare a parlare di reddito per evitare le confusioni di chi non fa la classica distinzione tra salario diretto, indiretto e differito. Infine altri analisti dicono che per legittimare il reddito minimo bisognerebbe presupporre la fine della teoria del valore/lavoro. In realtà a cambiare è solo il criterio che ci consente di individuare e circoscrivere il processo lavorativo dal momento che quest’ultimo nella sua articolazione è molto più diffuso di quanto non si creda, per cui produzione e riproduzione sociale sono molto più connessi e sovrapposti di quanto si possa pensare.
Una seconda questione che andrebbe affrontata nell’ambito della discussione sul reddito minimo è quella relativa alla sua universalità. Quest’ultima viene confusa con la concezione per cui il reddito minimo vada assegnato a tutti i cittadini, senza condizioni.
Il reddito però non è in se stesso un diritto, ma uno strumento specifico ma necessario per l’esercizio di un diritto. L’universalità va concepita dunque come il fatto che il reddito sia uno strumento monetario che garantisce il soddisfacimento di bisogni primari specifici dei singoli individui (bisogni primari specifici il cui soddisfacimento va garantito a tutti), dal momento che il soddisfacimento dei bisogni primari comuni a tutti gli individui viene realizzato tramite la prestazione sociale stessa (ovvero attraverso il salario indiretto in forma non monetaria, quello cioè fornito dal Welfare). Mentre però le prestazioni sociali per la loro complessità presuppongono enormi costi per la loro fruizione e dunque vanno assicurate pure a chi percepisce un salario diretto, l’erogazione di un reddito minimo (poiché la scelta facilitata dalla detenzione di moneta non ha la complessità della prestazione sociale non monetaria) va assicurata solo a chi non ha un salario diretto e l’ammontare del reddito minimo deve essere considerato così il nucleo di qualsiasi forma di salario. In altre parole colui che ha un lavoro e dunque un salario diretto può destinare parte del suo salario al soddisfacimento dei suoi bisogni primari specifici (legati alle sue personali decisioni di spesa per quanto riguarda ad es. l’autoformazione e lo svago) mentre non potrebbe fornire l’equivalente monetario delle prestazioni sociali, la cui complessità (ed il loro costo) sono tali da non poter essere remunerate se non attraverso il sistema progressivo delle imposte.
Questo assunto ha come conseguenza che il reddito minimo non è alternativo ma complementare al sistema del Welfare. Nella misura in cui diventa alternativo si individua in questo modo il carattere imperfetto dello strumento approntato, carattere imperfetto legato ai diversi esiti della lotta sociale e della subordinazione della spesa pubblica ai criteri neoclassici dell’economia della scarsità.
Una terza questione riguarda l’obiezione secondo la quale, essendo il lavoro la fonte del valore, il reddito minimo si configurerebbe come una forma di sfruttamento di chi lavora da parte di chi non lavora. Non affronteremo la questione da un punto di vista marxista, dal momento che si dovrebbe, prima di giungere ad una conclusione sia pure provvisoria, trattare la teoria del valore, del rapporto tra lavoro produttivo ed improduttivo e dello sfruttamento e dunque addentrarci ad un livello di complessità eccessivo rispetto alla natura di questo articolo.
Ci basterà però guardare alle conseguenze pratiche di questa erronea tesi secondo il senso comune accettato. Si può dire in primo luogo che qualsiasi lavoratore che si senta sfruttato da chi percepisce un reddito minimo può ben lasciare il lavoro e percepire il reddito minimo, in modo da godere della condizione di sfruttatore. Se questo non verrà fatto (data la differenza tra salari diretti minimi e reddito) si dovrà pensare al fatto che lo sfruttatore sta peggio dello sfruttato e dunque si genererebbe un paradosso la cui soluzione lasciamo a chi fa questo tipo di obiezione. Se questo verrà invece fatto, allora vuol dire che il livello dei salari è talmente basso da diminuire (con l’introduzione del reddito minimo) l’offerta di lavoro e da giustificare una inversione di tendenza. In entrambi i casi l’ipotesi del reddito minimo si rivela assolutamente sostenibile.
Vanno poi distinte due situazioni ipotetiche: nella prima che chiameremo duale si contrappongono lavoratori garantiti e disoccupati. In questo caso ci sarebbe una disparità di situazioni (senza nemmeno ammettere che ci sia un terzo che sfrutta uno oppure entrambi i soggetti in campo) che andrebbe sanata, altrimenti coloro che non lavorano potrebbero essere condotti a competere con quelli che lavorano ed eroderne sia i diritti che i livelli salariali, vendendo il loro lavoro a prezzi più bassi e a condizioni peggiori.
Nella seconda ipotesi che chiameremo della precarietà (dove cioè il lavoro non sia più garantito e protetto) la divisione tra chi lavora e chi non lavora è molto più porosa e permeabile, per cui il fatto che qualcuno si trovi da un lato o dall’altro è assolutamente contingente. In questo caso sanare la disparità di condizioni è comunque una necessità, ma la convenienza del reddito minimo è addirittura più immediata per chi lavora, data la contingenza della sua situazione.
Una quarta questione riguarderebbe il fatto che per alcuni a sinistra vivere con un reddito minimo toglie all’uomo quella dignità (e quella capacità di organizzarsi contro il Capitale) che solo il lavoro può conferire. Il punto è che considerare dignitoso quel lavoro alienato che la rivoluzione vorrebbe eliminare sembra essere proprio il paradosso che spiega come interi gruppi dirigenti di partito socialisti e comunisti non abbiano compreso la portata rivoluzionaria della visione cui apparentemente aderivano e si siano alla fine lasciati corrompere politicamente dal Capitale.
Quanto alla capacità di organizzazione che solo il lavoro associato potrebbe conferire essa presupporrebbe ancora quella divisione tra lavoro garantito e disoccupazione che è stata spazzata via dalla reazione del Capitale di questi decenni. Come il lavoro in questa fase è intermittente e per niente dignitoso, così è intermittente e contingente la situazione solo apparentemente parassitaria di chi gode del reddito minimo. Entrambi sono accomunati dallo sfruttamento che subiscono, dall’alienazione in cui versano, dalla precarietà che li subordina al Capitale stesso. Non ci si può accontentare dell’organizzazione che il Capitale ci fornisce per ribellarci adesso. Bisogna costituire un’organizzazione di proletari a prescindere dalla loro condizione lavorativa nell’istante dato.
Un reddito minimo sarebbe il segnale culturale e politico che alla mitologia del lavoro alienato e coatto ci si vuole ribellare. La possibilità di disporre di un reddito maturato fuori dei rapporti di lavoro potrebbe favorire lo sviluppo di forme di resistenza e di conflittualità antagonista in quanto possibile elemento di ricomposizione sociale delle diverse soggettività oggi già divise. E sarebbe già un grande passo avanti.
Una quinta questione riguarda il fondamento non solo etico-politico ma economico del reddito minimo, ovvero cosa il reddito minimo vada a remunerare. Sulla base della discussione sul presunto sfruttamento possiamo già dire che il reddito minimo remunera il fatto che l’esercito industriale di riserva non eserciti pressione al ribasso sul livello dei salari.
Tuttavia altri studiosi hanno ben evidenziato che la cosa non si riduce ad un prezzo della mancata concorrenza sul mercato del lavoro. I socialisti Bellamy e Cole più di tutti hanno evidenziato che una parte della crescita della capacità produttiva deve remunerare anche chi non lavora nell’attualità dal momento che essa è dovuta non solo al lavoro attuale ma anche all’eredità sociale di creatività e di competenze intrinseche allo stato di avanzamento e di istruzione raggiunto nella produzione. Potremmo dire che con il reddito minimo viene evidenziato il ruolo del sapere immagazzinato nel lavoro morto, sapere che accumula tutti i tentativi falliti, tutti i suggerimenti e gli stimoli non monetizzati e che comunque hanno costituito nel loro insieme il contesto vivo e magmatico delle innovazioni e del progresso delle conoscenze.
Una sesta questione è quella se il reddito minimo si possa collegare alla teoria per la quale la disoccupazione stia diventando strutturale, per cui se questa teoria non fosse vera il reddito minimo non sarebbe più necessario.
Ebbene, i casi record di piena occupazione prevedono sempre un tasso sia pur minimo di disoccupazione. Se ad es. in Italia sui una forza lavoro di 25 milioni di persone ci fosse lo 0,5% di disoccupati questi ammonterebbero comunque a 125.000 persone, per i quali (a meno di negare loro la sussistenza di bisogni primari a livello individuale che possono essere soddisfatti cioè solo attraverso l’erogazione di denaro) il reddito minimo è comunque necessario.
Collegata a questo problema è la settima questione per cui all’erogazione di un reddito minimo è preferibile la riduzione dell’orario di lavoro o la ricerca della piena occupazione. Il punto è che considerare la riduzione dell’orario di lavoro o più in generale la ricerca della piena occupazione come alternative ad altre strategie quali il reddito minimo è sbagliato. Una politica economica che affronti il problema della disoccupazione e quello della dignità dell’esistenza non può abbracciare una sola strategia, ma usare una molteplicità di strumenti in proporzione variabile a seconda del contesto e della contingenza.
E’ astratto e dunque irrazionale ragionare in termini di lavori pubblici AUT riduzione di orario AUT reddito minimo. Nel mentre ad es. si persegue una politica di piena occupazione è necessario rispondere ai bisogni di quelli che sono ancora disoccupati. Una politica economica concreta deve ragionare su quante risorse investire per i lavori pubblici, quante per la riduzione d’orario e quante per il reddito minimo, sapendo che nessuna delle misure prese riuscirà nell’intento di risolvere i problemi per cui è utilizzata da sola ma solo in concorso con altre misure, per cui lo sforzo politico consiste nell’integrare e dosare queste misure piuttosto che nel determinare quale di esse debba essere utilizzata unicamente.
Un’ottava questione è il problema del finanziamento del reddito minimo nella contingenza attuale, caratterizzata dal vincolo di bilancio in Costituzione.
E’ ovvio a questo punto notare che la lotta per il reddito minimo come qualsiasi lotta contro la disoccupazione che non sia delegata al mercato prevede una battaglia altrettanto rigorosa contro qualsiasi vincolo di bilancio elevato a totem. Nel concreto della legge di iniziativa per la Campania si tratta di utilizzare fondi che in realtà non vengono utilizzati. Quindi come dicono alcuni “i soldi ci sono ma vanno spesi e rendicontati
Una nona questione è quella che si solleva quando si dice che, soprattutto nel mezzogiorno d’Italia, molte persone che non ne avrebbero diritto potrebbero accedere al reddito minimo in mancanza di costose verifiche fiscali. Quest’argomento è chiaramente fallace in quanto si dovrebbe applicare allo stesso pagamento delle imposte, a qualsiasi indennità, a qualsiasi esenzione. Se non lo si fa in questi casi, non si vede perché vada applicato proprio con il reddito minimo. Ciò poi senza contare che il danno perpetrato verso chi ha bisogno dalla mancata erogazione di un reddito minimo è socialmente ed eticamente molto più grave di quello che si può ripercuotere sulla collettività dalla presenza di soggetti non legittimati che potrebbero godere del reddito stesso. In questo secondo caso per ciascuno dei contribuenti ci sarebbe un costo per nulla paragonabile a quello di un singolo lasciato nella miseria e nella povertà.