da “Una Storia anomala” primo volume
Siamo di fronte ad un nuovo tornante; la fase di acutizzazione della crisi attuale sta aprendo una transizione i cui esiti non sono dati, ad oggi non sappiamo se l’alternativa sarà classicamente quella tra socialismo e barbarie, ma della quale possiamo tracciare alcuni caratteri che già ora si manifestano concretamente. Il primo, il più evidente, è che questa transizione si caratterizza per una accentuazione ed accumulo delle contraddizioni complessive dovute alla lotta di classe, prevalentemente quella dall’alto, e dalla competizione globale; termine questo che rende bene l’idea della competizione interimperialista e di quella con i paesi emergenti.
Ad una simile stretta strutturale si era giunti già alla fine degli anni ’80 quando le crisi finanziarie avevano cominciato ad affacciarsi nell’economie occidentali, vedi il crollo della borsa di Tokio nell’ottobre del 1987. I motivi di una tale “strozzatura” erano legati al fatto che ci si trovava dentro un’«onda lunga», di un ciclo secolare nello sviluppo dell’economia capitalista che aveva prodotto una grave crisi finanziaria internazionale (con una schiera di paesi in via di sviluppo indebitati quasi senza scampo, in America Latina in particolare) ed una crisi occupazionale che era la più grave dagli inizi degli anni 30 (con milioni di disoccupati nei paesi dell’Ocse).
Quella condizione fu però superata con la convergenza, resa possibile negli anni successivi, tra lo sviluppo scientifico e tecnologico generato dalla ristrutturazione “postfordista” ed un allargamento dei mercati capitalisti causato dalla crisi dell’URSS, dall’apertura della Cina di Deng e con gli effetti a catena che questi eventi avevano prodotto a livello mondiale. Il dato quantitativo che si aggiungeva al mercato capitalista occidentale in termini di sbocchi commerciali, di riduzione del costo della forza lavoro e di risorse naturali è stato immenso e possiamo dire che si è compiuta in quel decennio quella mondializzazione del capitalismo che la rivoluzione bolscevica aveva rimesso in discussione già dal 1917.
Ma oggi siamo di nuovo in una fase di crisi, da sovrapproduzione di capitale, rispetto alla quale i margini di crescita quantitativa, gli unici che contano, non sembra siano all’altezza della dimensione raggiunta dal capitale mondiale e dei suoi “appetiti”; la parte di mondo ancora da capitalistatizzare appare residuale di fronte agli sviluppi prodotti a cavallo del secolo.
Forse una parte dell’India, l’Africa, parti dell’America Latina? Comunque il dato quantitativo non sembra adeguato alle necessità di valorizzazione del capitale mondiale.
Tenendo anche conto che la Cina tende a mantenere i propri spazi per sè e non certo per le potenze imperialiste; anzi sembra che la tendenza di quel paese sia quella alla esportazione competitiva non solo di merci ma anche di capitali con ulteriori restringimenti di mercato. La crisi dei debiti sovrani, le bolle speculative che continuano ad emergere, i Quantitative Easing praticati dalla FED americana, dalla BCE europea e dalla BOJ Giapponese sono sintomi di crisinell’uso dello strumento finanziario che fin qui ha drogato e sostenuto le economie e l’egemonia dei paesi imperialisti.
Anche i margini che vengono dallo sviluppo scientifico e tecnologico sono funzionali a processi di riorganizzazione produttiva ma non sembrano ora in grado di recuperare spazi di sviluppo adeguati ed in tempi congrui per il superamento della crisi. Non si intravvedono, infatti, salti tecnologici tali da poter rilanciare uno sviluppo generale del ciclo economico come lo è stato per il petrolio, per l’auto o, fin qui in misura minore, con lo sviluppo delle tecnologie informatiche.
Questa “strettoia” che caratterizza la fase attuale vede le classi dominanti dei diversi paesi, o le alleanze internazionali, molto caute ed attente a portare a fondo i conflitti, fino a quelli militari, perché probabilmente coscienti delle difficoltà e dei limiti che pone loro il contesto complessivo. La vicenda Iraniana ci dice qualcosa sia sulle contraddizioni che attraversano il campo imperialista ma anche sulla coscienza che questo ha di non poter risolvere e superare la situazione attuale in modo classico come pensava nella prima metà del ‘900 o dopo la fine dell’URSS. Ci si limita per ora a lavorare sui margini che la situazione offre o che si creano (vedi Libia e Siria) ma non si riesce ad arrivare fino in fondo ovvero non è possibile avere una strategia che condizioni seriamente gli sviluppi oggettivi della situazione.
Questa gestione delle crisi, da quelle sociali a quelle militari, ci dice che i tempi della precipitazione delle contraddizioni oggi non sono intellegibili oppure che siamo dentro un lungo processo di logoramento sistematico dell’assetto attuale prodotto dalla mancanza di soluzioni. Anche la “classica” distruzione di capitale, cioè una guerra generalizzata come le due guerre mondiali, si scontra con una difficoltà che è quella dell’armamento atomico richiamato nella crisi ucraina da Putin che obbliga ad una gestione “millimetrica” di tutte le contraddizioni da quelle sociali, come la Grecia, a quelle belliche, come la vicenda iraniana, che però non è detto che porti a soluzioni stabili. La stessa elezione di Trump, con le sue politiche protezionistiche e razzistiche, è la manifestazione concreta, l’epifenomeno, di questa crisi di prospettive che produce i “mostri” dell’irrazionalità che non sono in grado di modificare le condizioni strutturali e i rapporti di forza internazionali e ne sono piuttosto l’effetto.
Se si esclude la permanenza della minaccia nucleare, che anzi registra un suo aggravamento, è evidente la differenza che si ha con la condizione degli anni ’70; sul piano economico siamo passati dal Fordismo e dal ruolo dello Stato nell’economia alla produzione flessibile ed alle privatizzazioni generalizzate, inoltre la presente situazione di crisi prelude inevitabilmente ad ulteriori modifiche sul piano strutturale, sulle analisi delle quali qui non abbiamo spazio per soffermarci. Inoltre ci limitiamo anche a rilevare la differenza che c’è tra il vecchio mondo bipolare con il conflitto USA-URSS e quello attuale multipolare dove la ricerca della stabilità nelle relazioni internazionali diviene sempre più complicata e gli scenari potenziali di conflitto si moltiplicano.
Sul piano delle condizioni di classe la situazione riflette esattamente i cambiamenti strutturali avuti ovvero è cambiata con la nascita delle filiere produttive internazionali la composizione di classe nei paesi imperialisti e di conseguenza quella nella periferia produttiva. Lo smantellamento della produzione di massa fordista nei paesi imperialisti e dell’intervento diretto (quello indiretto non solo c’è ancora ma è ancora più consistente a sostegno delle banche e delle multinazionali) dello Stato nell’economia e sul piano sociale ha portato ad una modifica del lavoro dipendente e subalterno riducendo il ruolo produttivo e politico di quella che è stata la Classe Operaia del ‘900. Se nella periferia produttiva la classe operaia ha avuto un incremento enorme, pur non ritrovando un ruolo politico centrale per motivi sui quali torneremo più avanti, quella che era la composizione della classe nel nostro paese, e più in generale in Europa, si è radicalmente modificata non nella relazione subalterna con il capitale, che rimane e si accentua, ma nelle forme legate alle caratteristiche produttive di beni e di servizi assunte dai paesi capitalisticamente sviluppati.
Quali sono, dunque, quei contenuti teorici e di pratica politica che sono stati i presupposti di quella ipotesi politica e che oggi possono essere recuperati e riproposti come elementi da adeguare ma ancora validi nel contesto attuale?