da “Una Storia anomala” primo volume
Questa divaricazione con altre esperienze della sinistra rivoluzionaria sulla “proletarizzazione” e il ruolo dell’organizzazione dei comunisti, si manifestò in modo palese nel conflitto del ’77, in particolare nella seconda fase del movimento, dove emersero in modo chiaro le due diverse prospettive. Va detto che questa dialettica, nella metà degli anni ’70 seppure non escludeva i caratteri di un confronto duro, anche con incidenti di rilievo, non fu mai un conflitto antagonista, nel senso che le diverse ipotesi politiche sul campo nascevano tutte e comunque dalla necessità di battersi contro il riformismo, individuando, però, ipotesi di organizzazione e di strategia nettamente diverse.
Il momento topico di rottura tra movimenti sociali antagonisti e il progetto riformista del Pci sarà il 17 febbraio del 1977, con la cacciata di Lama (segretario della Cgil) dall’Università La Sapienza occupata dal movimento.
Il Pci tramite la Cgil si era assunto il compito di normalizzare il movimento tra gennaio e febbraio del ’77 che cominciava a crescere soprattutto nelle università contro la Riforma Malfatti su scuola e atenei. Ma quel movimento contestava apertamente anche la collaborazione del Pci con il governo Andreotti tramite l’astensione in parlamento, una linea che consentiva al governo della Democrazia Cristiana di agire senza l’opposizione parlamentare del Pci, in pratica una anticipazione del compromesso storico Dc/Pci che si sarebbe dovuto materializzare l’anno successivo (il 1978) con il governo di unità nazionale e che avrebbe dovuto consentire – per la prima volta – l’ingresso del Pci in un governo.
Nel febbraio del 1977, il Pci delega alla Cgil il compito di gestire politicamente la normalizzazione dell’università in quel momento occupata dal movimento e organizza dentro l’ateneo un comizio con il segretario generale Luciano Lama. L’atteggiamento aggressivo del servizio d’ordine del Pci/Cgil non aveva però fatto i conti con un cambiamento di clima politico e di composizione sociale di quel movimento che contestava la collaborazione con il governo democristiano. Nonostante un forte apparato, il servizio d’ordine del Pci fu affrontato e travolto da centinaia di giovani proletari e universitari e Lama fu costretto a battere velocemente in ritirata. Si produsse un fatto storico, inimmaginabile solo qualche giorno prima, un fatto che segnò una rottura profonda e violentissima nei rapporti tra Pci e i movimenti della sinistra. I residui dei gruppi extraparlamentari (più Democrazia Proletaria, meno Lotta Continua) erano del tutto impreparati a gestire quella rottura e finirono via via sempre più emarginati dal movimento del ’77, spesso con risse furibonde nelle assemblee.
I militanti dell’Opr il 17 febbraio del 1977 furono presenti sin dall’inizio e parteciparono attivamente alla cacciata di Lama dall’università ma lo fecero con un proprio tratto distintivo. Nel piazzale dell’università erano presenti sia con il Comitato Disoccupati Organizzati (in cui c’erano anche molti ex operai edili formatisi proprio nel Pci e nella Cgil) sia con i Consigli di fabbrica in cui erano presenti i militanti dell’Opr. Difficile immaginarsi lo sconcerto dei giornalisti che raccogliendo interviste su quanto era accaduto trovavano operai, delegati sindacali e consigli di fabbrica che si schieravano con il movimento e contro Lama. Interviste e posizioni che fecero scalpore su giornali e telegiornali e che provocarono attriti, tensioni e ritorsioni da parte della Cgil nelle fabbriche dove erano attivi i militanti operai legati all’Opr.
Proprio perché dentro la Cgil si andava affermando la “politica dei sacrifici”, gli spazi di democrazia rappresentativa dentro i consigli di fabbrica e i consigli dei delegati, si andavano restringendo materialmente, privandone i delegati e i lavoratori più combattivi. Proprio da questa contraddizione cominciarono ad emergere le ipotesi di organizzazione sindacali di base dei lavoratori completamente autonome e alternative ai sindacati confederali esistenti.
L’Opr fu ben dentro il movimento del ’77, nelle sue tumultuose assemblee, nelle battaglie contro “la destra” del movimento, nelle manifestazioni di piazza, inclusa quella quasi “insurrezionale” dell’12 marzo a Roma (il giorno successivo all’uccisione a Bologna del compagno Francesco Lorusso da parte dei carabinieri) e negli scontri del 12 maggio dove la polizia uccise Giorgiana Masi. I militanti dell’Opr erano attivi soprattutto nella Commissione Fabbrica-Quartieri del movimento, ossia nella articolazione che consentiva di non liquidare il nesso con l’intervento nei quartieri proletari e nei luoghi di lavoro in nome di un movimentismo che ruotava sempre più intorno all’università e sempre meno nel territorio o tra i lavoratori.
Nella seconda fase del ’77, la soggettività espressa da quel movimento comincia a fare i conti con la reazione organizzata dello Stato. Il governo vara la “riforma dei servizi segreti” (via il Sid compromesso con le stragi, nascono il Sisde e il Sismi), il patto tra Dc e Pci si rafforza e si incattivisce, l’agibilità politica per le manifestazioni diventerà sempre più difficile, mentre i quartieri popolari e politicamente più attivi cominciano ad essere inondati di eroina.
A settembre a Bologna si era svolto il convegno nazionale del movimento. Migliaia di persone riempiono la città che aveva visto i carri armati per le strade. Non ci sono scontri, ma dentro il palazzetto dello sport le risse tra le varie componenti indicano che non ci sarà più “un movimento”. Nel movimento romano, la divisione tra le due assemblee (quella che si riunisce a Giurisprudenza egemonizzata dalla “sinistra”, le varie anime dell’Autonomia Operaia e dei gruppi organizzati) e quella che si riunisce a Lettere espressione della “destra” del movimento che si riconosce nel “documento degli 11” (tra cui Piero Bernocchi, Franco Russo, Raul Mordenti, compagni comunque tutt’oggi degni di stima per non aver gettato la spugna o essere passati di campo) persiste e si procede per iniziative e assemblee separate.
A Roma a fine settembre i fascisti uccidono un compagno di Roma Nord, Walter Rossi. A Novembre vengono chiusi dalla polizia i “covi dell’eversione”, la storica sede dei Comitati Autonomi Operai di via dei Volsci e quella del Collettivo Monteverde a Roma e il circolo Cangaceiros a Torino.
Scrive il Corriere della Sera a commento dei fatti: “La decisione è del governo; e sembra maturata nel clima d’allarme delle ultime settimane, dopo gli attentati a catena contro rappresentanti della Dc e le giustificate pressioni dei gruppi parlamentari. Né si può gridare all’abuso di potere, allo scandalo, alla provocazione, come fa II Manifesto, per il fatto che gli agenti non abbiano trovato nei «covi» armi o piani di guerriglia: anche i militanti più sprovveduti avrebbero fatto scomparire in tempo il materiale compromettente da sedi ben note come centri di sovversione”.
Lo Stato rispolvera lo strumento del confino. Decenni dopo la caduta del fascismo, un militante della sinistra, Roberto Mander nel febbraio 1978, viene inviato al confino nell’isola di Linosa. Il dirigente del PCI, Terracini, non ci sta e rende pubblico il suo dissenso. La manifestazione contro il confino dà vita a duri scontri con la polizia. Questa è la linea di condotta nei circoli dell’establishment. Nella gestione e legittimazione di questi provvedimenti, la complicità del PCI, tranne appunto quella di Terracini, è totale.
I militanti dell’Opr partecipano alle manifestazioni antifasciste e contro la repressione, ma cominciano a prendere le distanze dalle “convocazioni del sabato” cioè i cortei che verranno via via convocati ogni settimana di sabato e vietati dalla Questura, cortei che si riducono sistematicamente a scontri con la polizia con un numero crescente di arresti e di compagni di cui chiedere la liberazione nella manifestazione successiva È ormai impossibile promuovere appuntamenti centrali e le manifestazioni diventano talvolta appuntamenti decentrati nei vari quadranti della città. Partono da punti diversi del territorio metropolitano nel tentativo di complicare la vita all’apparato repressivo. Ma ben presto la mobilità operativa raggiunta dai reparti della polizia rende anche questa strada impraticabile con efficacia.
La divergenza con l’Autonomia Operaia si manifesta anche nelle assemblee e non solo sul come rispondere ad una fase che sta cambiando di segno e di rapporti di forza. Dopo il convegno di settembre a Bologna (dove appunto non c’erano stati scontri), i media mainstream danno ampio risalto alle componenti “creative” del movimento (indiani metropolitani) che erano finite un po’ in sordina nei mesi più duri della primavera. Un intervento in assemblea di un compagno dell’Opr che sottolineava questo aspetto, viene fischiato e diventerà un tormentone per alcuni mesi. Ma dalle carceri arrivano le lettere dei compagni arrestati nei mesi precedenti (anche quelli dell’Opr) e che segnalano i problemi che troppo spesso la discussione e la retorica delle assemblee continua ad evitare di affrontare.
I militanti dell’Opr continuano a partecipare ai lavori della Commissione Fabbriche e Quartieri del movimento insieme a molti di quelli che daranno poi vita alle organizzazioni di base nei posti di lavoro (Autovox, Ime, Inps, ferrovieri, Alitalia, Atac, Sip).
Alla fine dell’autunno del ’77 i militanti dell’Opr maturano la loro decisione di rompere con il movimentismo che continuava a ruotare intorno all’università, ritenuto ormai inconcludente, mentre intensificano il lavoro nei territori e nelle fabbriche.
Sui posti di lavoro lo scontro dei militanti dell’Opr è frontale contro la politica dei sacrifici sostenuta da Pci e Cgil che a febbraio del 1978 diventerà la “svolta dell’Eur” (decisa in una conferenza nazionale della Cgil), la quale consolidò la linea della moderazione salariale e di una maggiore flessibilità del lavoro con la richiesta di “riforme” e investimenti nel settore dell’edilizia, dei trasporti, della finanza pubblica e nel Meridione. L’Istat comincia proprio in quell’anno le sue serie storiche sulla disoccupazione. Sul lavoro si fanno sentire i primi effetti del decentramento produttivo avviato dalle imprese e le numerose chiusure di fabbriche e crisi aziendali a seguito della crisi del 1973. Le assunzioni nel settore pubblico sono bloccate dal decreto Stammati. La disoccupazione cresce, soprattutto quella giovanile caratterizzata però da un livello di istruzione elevato tra i disoccupati tra i quali molti sono ormai diplomati o laureati, in pratica si vedono gli effetti della scolarizzazione di massa nella società italiana avviata nella seconda metà degli anni Sessanta. La contraddizione tra aspettative generali della società e quello che il sistema mette a disposizione cresce, fino a diventare problema.
La scelta dell’Opr di concentrarsi sul lavoro di massa piuttosto che nel “movimento” all’università, non significava affatto una liquidazione o una sottovalutazione del movimento del ’77. Al contrario, alla fine del 1978 e in un documento interno di gennaio 1979, l’Opr ritiene che “Il movimento del’77, pur mancando in questa fase di una capacità di attacco, rimane, per la sua estensione sociale e per i livelli di politicizzazione, un fattore importante di iniziativa politica e di riferimento sui problemi generali. I dati oggettivi che alimentano il “movimento” permangono tutti: disoccupazione giovanile, crisi strutturale della scuola. Il Piano Pandolfi (riduzione drastica del deficit pubblico rispetto a pensioni, servizi, assistenza) e la linea contrattuale dei sindacati, aprono una nuova fase di scontro e di allargamento delle contraddizioni”