da “Una Storia anomala” primo volume
Intorno alla questione del proletariato come classe nei paesi capitalisti erano sorte già dagli anni ’80 una serie di teorie che ne prefiguravano la scomparsa. Quella che si affermò di più, almeno sul piano della comunicazione di massa, fu sulla “società dei due terzi”, elaborata dal socialdemocratico tedesco Peter Glotz affermava che i gruppi dirigenti puntavano a costituire materialmente ed ideologicamente un “blocco storico” che trovava la sua unità nel far pagare la tenuta sociale al terzo più povero della società e dunque veniva meno la coesione, reale o potenziale, nelle classi lavoratrici.
Teorie sostenute dagli apparati ideologici dei gruppi dominanti nell’Europa occidentale in cui si trovava una spiegazione alla crescita dei cosiddetti ceti medi ma che avevano fatto breccia in modo indiretto anche in parte di quella che era stata la sinistra rivoluzionaria degli anni ’70. Questo dibattito non riguardava il PCI in quanto avendo assunto una posizione pienamente socialdemocratica e di collaborazione aveva risolto precedentemente nella teoria e nella pratica questa questione. Di queste posizioni sul superamento del proletariato la versione più recente è stata quella negriana sulle “moltitudini” che ha avuto una certa capacità di formazione e deformazione delle giovani generazioni di militanti che agli inizi degli anni 2000 si sono mobilitate attorno ai Social Forum, teoria quella che ha avuto allora il pieno supporto del PRC bertinottiano.
Questa ideologia, funzionale alle revisioni politiche praticate all’epoca dalla sinistra, sulla questione delle classi ha impedito di vedere e soprattutto di far vedere i cambiamenti reali in atto che se riguardavano alcuni aspetti delle condizioni proletarie e delle classi subalterne non implicavano affatto una modifica delle relazioni sociali. Una classe sociale si definisce in base alle relazioni che stabilisce all’interno di una determinata formazione economico-sociale che nella società capitalista significa una determinata collocazione rispetto ai rapporti di produzione.
Nei profondi cambiamenti degli apparati produttivi avuti tra gli anni ’80 e ’90 nei paesi capitalisti nella nuova dimensione internazionale, soprattutto dopo il crollo dell’URSS, quello che si è modificato è stato da una parte le funzioni del lavoro dipendente, ovvero si è passati dalla fabbrica centralizzata alla produzione diffusa e internazionalizzata di merci e servizi che ha implicato anche una modifica delle funzioni lavorative. In sintesi si è passati da una prevalenza di lavoro manuale ad una prevalenza di lavoro intellettuale soprattutto tramite la informatizzazione che ha riguardato i grandi servizi a rete, comunicazione, trasporti, servizi pubblici etc, ma anche i settori più direttamente produttivi di merci che hanno fatto un salto tecnologico e di automazione della produzione.
Dall’altra, grazie all’uso dello strumento finanziario e alla riduzione dei prezzi a causa delle delocalizzazioni, è stato possibile per il capitale allargare in modo consistente i mercati interni e dunque di migliorare le condizioni di vita materiale delle classi subalterne. Questa nuova e transitoria (la crisi attuale ce lo dice chiaramente) condizione ha permesso una percezione diversa delle classi ovvero si è parlato per due decenni non più di classe operaia, lavoratrice, di proletariato ma di “ceti medi” riecheggiando così la teoria della società dei due terzi, dimenticando che centrale per definire il ruolo sociale non è il livello di reddito, che viene determinato dalle diverse fasi economiche che una società passa, ma dalla relazione che si ricopre dentro quella determinata formazione sociale.
Dunque se le forme di esistenza materiale delle classi si sono modificate non si è affatto modificata la condizione di subalternità nei rapporti di produzione, ovvero nei momenti di crisi riemerge la condizione “proletaria” che va oggi oltre i settori “classici” e riguarda anche settori di piccola borghesia commerciale, produttiva ed intellettuale gettata in basso dalla odierna ridefinizione delle gerarchie sociali. La situazione odierna è una verifica nettissima di questa tendenza che non si modificherà certo in una fase di stagnazione prolungata come è quella attuale.
Aver rifiutato la visione ideologica della fine delle classi e aver confermato il riferimento della autonomia della classe operaia come punto di partenza per l’intervento ha permesso al nucleo originario dell’OPR di avere un saldo riferimento teorico e pratico con settori sociali e di lavoratori puntando sulla organicità e stabilità dei rapporti organizzati. Questa è stata una impostazione fondamentale che ha permesso di superare molti momenti di crisi e che oggi si ripresenta in tutto il suo valore strategico. A partire da questa concezione è stato possibile avviare nella città di Roma stagioni di lotta sociale importanti ma soprattutto di costruire il primo sindacato di base indipendente a partire dalla fine degli anni ’70, le Rappresentanze di Base o RdB, che ha anticipato una tendenza che si è poi manifestata concretamente dieci anni dopo.
L’esperienza sindacale, che superò definitivamente la dimensione cittadina dell’OPR, non solo la ritroviamo ancora oggi nel conflitto ma è stata anche una importante cartina tornasole della lettura di classe e della pratica politica dell’epoca che teneva conto “dell’analisi concreta della situazione concreta”. In altre parole è accaduto che un gruppo politico “operaista” cioè che riteneva centrale la funzione della Classe Operaia nella trasformazione sociale, che su questa aveva impostato un intervento, che aveva raggiunto l’obiettivo di entrare in alcune importanti fabbriche cittadine, è riuscito a seguire una tendenza oggettiva, apparentemente contraddittoria con le proprie tesi, partendo proprio dal rifiuto della ideologia sulla scomparsa del proletariato.
Iniziava all’epoca la trasformazione produttiva del paese con la chiusura delle fabbriche “fordiste” e la messa in cassa integrazione di decine di migliaia di operai, soprattutto di quelli protagonisti del conflitto nelle fabbriche di cui la vicenda FIAT del 1980 ne è il simbolo principale.
Questo pesante processo di ristrutturazione veniva accompagnato in Italia da una politica di gestione del conflitto tramite ammortizzatori sociali diversamente dagli altri paesi grazie al durissimo scontro avuto per tutto il decennio precedente. Ad esempio politiche diverse furono adottate sia da Reagan nella vertenza dei controllori di volo USA licenziandoli tutti, sia dalla Tatcher nello scontro feroce che venne fatto con i minatori inglesi.
Ammortizzatori usati per depotenziare il conflitto nelle fabbriche e nel sociale al fine di contenere la disoccupazione che era in forte crescita e che aveva prodotto lotte molto determinate soprattutto a Napoli con i Comitati dei Disoccupati Organizzati. In questo contesto assunse un ruolo centrale lo Stato che riuscì a gestire gli effetti della svolta antioperaia inserendo nei settori pubblici e dei servizi gran parte degli operai in cassa integrazione ed a limitare gli effetti della disoccupazione tramite interventi legislativi quali la legge 285 per l’occupazione giovanile.
L’effetto concreto che si generò fu che una serie di quadri politici e di settori in lotta si ritrovarono unificati in una nuova condizione lavorativa ma che prefigurava già gli esiti della ristrutturazione produttiva che da quegli anni aveva mosso i primi passi. Dunque le RdB da ipotesi sindacale operaia è evoluta assieme alle trasformazioni andando ad installarsi e crescere nel settore pubblico e dei servizi che rappresentavano la prospettiva del mondo del lavoro. Tutto questo è stato fatto, anche accettando e mediando con i processi materiali, senza rinunciare mai ad un punto di vista classista che ritrova di nuovo ed allarga le proprie motivazioni nelle riemergenti contraddizioni dello sviluppo capitalista Fare una operazione come la “proletarizzazione dell’Organizzazione” a metà degli anni ’70 non era affatto, come potrebbe sembrare oggi, una cosa facile o scontata, al contrario. Questa scelta richiedeva in via preliminare una netta rottura prima culturale e poi politica con il movimento extraparlamentare in quanto alla convinta rappresentazione generale e rivoluzionaria che si faceva all’epoca non corrispondeva un processo di organizzazione e di stabilizzazione. In altre parole significava andare controcorrente negli stessi ambiti politici in cui si agiva. Al pari di quanto avviene oggi, anche se all’epoca in dimensioni molto più consistenti ed in base a questo con effetti politici reali, la pratica politica era molto centrata o sui movimenti giovanili e studenteschi o su situazioni specifiche, reali di conflitto ma non generalizzate nelle fabbriche o nei quartieri delle metropoli.
La scelta di costruire l’OPR come progetto di organizzazione proletaria non “mimata”, come ad esempio era in quegli anni per Lotta Continua, implicava per chi veniva dal movimento, appunto soprattutto movimento giovanile, una rottura netta e uno scontro politico con gli ambiti prevalenti all’epoca che erano caratterizzati dalla dimensione extraparlamentare, almeno fino alle vittorie elettorali del PCI nel ‘75 e ’76.
In questo senso venne teorizzata la necessità della “proletarizzazione dell’organizzazione” intesa come elemento ideologico di distinzione verso una pratica politica sostanzialmente movimentista. Pratica che doveva impegnare i militanti dell’organizzazione in una responsabilizzazione verso i risultati delle lotte, verso i risultati della sedimentazione di queste ovvero della trasformazione delle lotte in organizzazione di classe stabile ovunque queste si praticassero. Su questa concezione e su questa impegnativa relazione, per il piano individuale, con la realtà si avviò un processo di organizzazione che ha resistito anche se, nel tempo, questa relazione ha subito modifiche le cui cause ed effetti analizzeremo più avanti.
La proletarizzazione dei militanti dell’organizzazione era una scelta dettata dalle condizioni politiche vigenti ma questa ritrova paradossalmente nella situazione attuale alcuni “riscontri”; il primo è che i conflitti “mimati” non hanno più alcuna possibilità di risultato politico come è invece avvenuto nel recente passato con il movimento No Global. O si ritorna ad una idea di costruzione reale del conflitto e della conseguente organizzazione stabile oppure si è condannati nella migliore delle ipotesi al situazionismo.
L’altro riscontro è che la proletarizzazione oggi non riguarda una dimensione organizzata ma una parte consistente della società, e la difficoltà di questa parte è proprio quella di accettare culturalmente ed ideologicamente la propria condizione e di trarne le necessarie conseguenze politiche.