da “Una Storia anomala” primo volume
Parlare e fare le scelte sulla base della proletarizzazione di militanti politici che venivano da diverse estrazioni politiche e sociali significava però avere una condivisione politica e teorica sulla situazione e sulla relazione con la classe che non poteva venire direttamente dalle lotte. Queste, anche in tempi di conflitto generalizzato, possono produrre coscienze e conoscenze specifiche ma non possono portare spontaneamente ad una coscienza generale; in altre parole la scelta da fare era su un nodo storico classico per il movimento operaio che è il rapporto tra soggettività ed oggettività.
Il progetto dell’OPR nasce, perciò, come scelta politica di un’area che si andava organizzando nel contesto di quegli anni e non come prodotto spontaneo del conflitto. Naturalmente questa distinzione è esposta schematicamente in quanto l’elemento sociale e quello politico si relazionano dialetticamente e producono effetti reciproci ma la distinzione dalla dimensione extraparlamentare e da quella riformista del PCI era l’elemento principale e passava dentro un progetto politico e sociale ed una visione generale più chiari e netti possibili e non solo ne prioritariamente dentro il conflitto. Questo ha riguardato l’identità dell’organizzazione politica ma anche le diverse lotte fatte che hanno trovato una reale organicità solo dopo la costituzione e la definizione di un piano di intervento che puntava alla generalizzazione e all’organizzazione dei conflitti scelti e promossi.
Questo problema si ripresenterà nel 1977 in altro modo con la ripresa del movimento di massa antagonista al riformismo del PCI e con la nascita della “Autonomia Operaia Organizzata” e porterà ad una ulteriore definizione sulla questione della spontaneità, della soggettività strategica ed in sostanza della questione del partito.
1 – PARTITO COME PROCESSO
Su questa questione centrale, ieri ed oggi, l’approccio adottato già all’epoca è stato sostanzialmente diverso da quello che generalmente veniva adottato; il punto centrale era la convinzione che il partito rivoluzionario, tali erano i tempi, non poteva nascere “per decreto” o per aggregazione politica immediata e non poteva che essere il prodotto di un processo di costruzione del rapporto con la classe in cui la progettualità era un elemento centrale ma che doveva verificare la propria ipotesi nel vivo della relazione di lotta con i propri referenti strategici. Questo non era solo una modalità tattica di fase ma esprimeva una visione che metteva al centro la qualità del progetto politico e della conseguente organizzazione, cioè i contenuti erano prevalenti sulle tattiche che di volta in volta potevano essere adottate.
Ovviamente senza rifiutare queste ed arroccarsi su una propria supposta autosufficienza. Preliminare era perciò per l’OPR procedere alla costruzione del rapporto organico con i settori di classe in relazione alle proprie capacità organizzative, indubbiamente limitate quantitativamente, senza fare salti che sarebbero stati dannosi per le prospettive.
C’erano però anche valutazioni più contingenti da fare legate al panorama politico generale che si viveva. Non si può dire che siano mancati nel nostro paese ipotesi di partiti comunisti e rivoluzionari; nella metà degli anni’70 si era reduci dalle esperienze extraparlamentari, da Potere Operaio a Lotta Continua ai vari gruppi marxisti-leninisti, che fino al 1973 avevano dimostrato una forte vitalità anche se era sempre mancata una capacità di sintesi e di unitarietà. Nel momento di recupero del PCI di decine di migliaia di militanti che venivano da quelle esperienze sembrava inattuale “proclamarsi” partito e riprendere modalità che avevano portato ad una verifica negativa.
Ne questa condizione è cambiata successivamente in quanto dopo il periodo extraparlamentare è nata Democrazia Proletaria, che si è limitata a gestire una parte del “capitale” politico degli anni ’70, e poi il PRC che ha chiuso tra la tragedia e la farsa la storia dei partiti comunisti nel nostro paese. Va detto, però, che le esperienze che dal ’68 in poi si sono richiamate ad ipotesi rivoluzionarie o antagoniste non sono state solo il prodotto di gruppi dirigenti che hanno “tradito” la prospettiva rivoluzionaria, ci riferiamo su questo aspetto in particolare al periodo successivo agli anni ‘70.
Questi, invece, hanno trascinato, convinto e realisticamente rappresentato pezzi importanti del mondo politico-sociale della sinistra sia per quanto riguarda Democrazia Proletaria, che ha avuto comunque una sua rappresentanza parlamentare, che il PRC che nei momenti “migliori” ha raggiunto perfino il 10% dei consensi elettorali.
Qui si dovrebbe aprire anche una riflessione sia sul popolo della sinistra che sulle modifiche strutturali intercorse che hanno condizionato politicamente e culturalmente questo stesso popolo. Il contesto in cui si è sviluppata l’esperienza del PRC era caratterizzato da una fase di crescita economica, di ritrovata egemonia del capitale e di relativa redistribuzione della ricchezza prodotta, a livello mondiale, anche verso le classi subalterne. Tutto ciò ha determinato l’emersione di una “aristocrazia salariale”, dunque non più solo operaia, sensibile ai diritti ma non alla rottura sociale.
Questo è stato l’humus che ha permesso l’affermazione e poi il declino del PRC. Declino che è coinciso con l’emergere della crisi economica e sociale che indeboliva le politiche di mediazione e di finto antagonismo di quel partito e del movimentismo nostrano.
Ma qui è importante continuare a spiegare i motivi per cui non è stata fatta la scelta di costituirsi direttamente come partito nonostante che questo sia stato un obiettivo sempre presente nell’impianto teorico dell’area politica. In questo senso va letta la scelta fatta di lavorare sugli elementi strategici mettendo in relazione subordinata quelli tattici, dunque il problema non era se costruire o meno il partito, visto comunque come obiettivo da perseguire, ma relativo ad una questione qualitativa, ovvero quale partito andava costruito. Non esistevano e non esistono, infatti, formule o paroline magiche che possano risolvere un problema strategico di questa portata.
Infine va ricordato che negli anni ’80 sono cominciati ad emergere realtà politiche consistenti in discontinuità con quelle più classicamente comuniste e di classe che facevano intuire che i cambiamenti in atto non riguardavano solo la “superficie” della politica ma anche la società stessa. Ci riferiamo alla nascita del movimento dei Verdi, nato come variante della sinistra diffusa extra PCI, e della Lega Nord che ha rappresentato un fenomeno molto più strutturale dal punto di vista sociale.
Avendo ben presente sia i limiti concreti, sia la concezione processuale di costruzione del partito che il contesto politico in cui si andava ad operare, l’OPR si è progressivamente modificata verso una prospettiva di organizzazione politica generale ma con la definizione di passaggi intermedi.
Prima con la “Lista di Lotta” quale espressione del movimento popolare romano partecipando anche ad alcune scadenze elettorali fino al 1985. Poi con il “Movimento per la Pace ed il Socialismo”, organizzazione costituita con la partecipazione del senatore ex PCI Nino Pasti ed ex generale della NATO, definendo così un ruolo più complessivo rispetto alle tendenze di guerra che si andavano manifestando con la crisi degli Euromissili e con una ritrovata aggressività dell’imperialismo Americano con la presidenza Reagan. Questo percorso è stato poi interrotto dalla fine del campo socialista e dell’URSS che si rifletté direttamente dentro l’organizzazione con una crisi fortissima e poté essere ripreso solo alcuni anni dopo quando una serie di elementi strategici si resero più evidenti.
La scelta di non procedere per atti formali sul partito ma per una visione processuale ha prodotto la necessità di costruire l’organizzazione politica adeguando di volta in volta le sue forme in relazione alle condizioni reali in cui si agiva ed alle loro modifiche. L’organizzazione politica è stata dunque intesa non come modello codificato e definitivo ma come strumento e corpo vivo, mantenendo in modo determinato le funzioni strategiche, che andava adeguato al contesto complessivo in evoluzione. L’OPR, la Lista di Lotta, il Movimento per la Pace ed il Socialismo sono state tappe di un percorso interrotto dalla crisi degli anni ’90 e ripreso con la costituzione della Rete dei Comunisti. Questa impostazione è stata indubbiamente eterodossa rispetto alla tradizione comunista e richiede, ancora oggi, un approfondimento teorico più sostanziale.
Certo però si può dire che la questione del partito dei comunisti rimane fondamentale ma non può essere affrontata con modelli precostituiti, questo è evidente anche a livello internazionale, e comunque la realtà attuale rende necessaria la ripresa di un dibattito anche su questo nodo strategico nonostante il silenzio assordante che lo riguarda. Purtroppo il silenzio non è casuale in quanto esiste un vuoto, non c’è una elaborazione relativa alla fase attuale che affronti la questione dell’organizzazione dei comunisti al livello di quello avuto all’inizio del ‘900 con il partito leninista che ha dato prova concreta di saper incidere sulla Storia.
Questo necessario dinamismo ha portato anche ad una gestione interna delle relazioni tra militanti più stretta e coerente rispetto agli andamenti ed alle modifiche nelle diverse situazioni. Ha portato, cioè, ad avere un confronto stringente e sistematico funzionale alle necessità delle verifiche sulle ipotesi che venivano di volta in volta proposte ed ha prodotto una omogeneità di fondo grazie ad un confronto che non era solo condizionato dalle vicende politiche contingenti ma soprattutto dalla verifica del progetto complessivo collettivamente scelto. Questo è stato spesso interpretato come settarismo ma in realtà era il prodotto di una logica e pratica politica che misurava volta per volta priorità e passaggi
2 – FUNZIONE DI PARTITO
Comunque se sulla costituzione formale in partito si è tenuto conto sia di una ipotesi di costruzione processuale, sia del contesto in cui si andava ad agire sulla “funzione di partito” la scelta è stata sempre netta sia in termini di costruzione di una visione unitaria della realtà, sia di gestione dell’organizzazione, sia di direzione del movimento politico, sociale e sindacale che si era costruito negli anni. Analisi, direzione e relazioni organizzate interne sono state i piani su cui si è costruita la “funzione“ di partito e non il partito formalmente costituito.
2a Teoria e identità; Le funzioni sulle quali si è lavorato nel tempo sedimentando punti di vista e strumenti hanno avuto come fulcro la costruzione di una visione generale organica relativa alle fasi che venivano attraversate; ovvero è stata sempre dato un ruolo centrale ad una visione teorica ed ideologica che non fosse superficiale ed approssimativa. Questo ha prodotto una coesione interna all’organizzazione che ha permesso la tenuta nel tempo ed ha permesso di fare una battaglia politico-culturale nella sinistra a partire già dal 1975.
La priorità dell’intervento operaio e proletario nella fase di declino dei gruppi extraparlamentari affermata come riferimento strategico, l’intervento nel movimento del ’77 e la nascita di Radio Proletaria nel ’78, la produzione sistematica di “Fogli di Lotta” operai e di altro materiale di battaglia politico-teorica, la rivista “Lotta per la Pace ed il Socialismo” nella seconda metà degli anni’80 fino alla nascita del giornale periodico Contropiano nel 1993 sono state le tappe di un processo di costruzione di un punto di vista forse non completo ma che aveva una sua organicità. Va detto che il lavoro teorico vero e proprio ha avuto una accelerazione dopo la crisi del 1991 in quanto i nodi emersi non potevano essere affrontati come in precedenza dove il quadro di riferimento e di azione complessivo era sostanzialmente stabile e definito nei suoi riferimenti internazionali.
2b Rapporto di massa; Dall’impostazione generale fin qui rappresentata è evidente che una “funzione” di partito centrale è stata svolta sulla questione del rapporto di massa, con la classe nei suoi molteplici aspetti, da quello sociale a quello sindacale. Innumerevoli sono state le lotte sui posti di lavoro, per l’occupazione, per la casa, per il carovita, per le questioni territoriali (su questo torneremo nel testo) che hanno prodotto fino a tutti gli anni ’80 una organizzazione stabile che coinvolse decine di migliaia di lavoratori e nuclei familiari. Anche qui il passaggio agli anni ’90 ha segnato una svolta in negativo ed in positivo; nel sociale la crisi politica dell’organizzazione ha rallentato un processo di crescita che nella città di Roma si era sviluppato soprattutto nelle periferie sulle difficoltà sempre più evidenti del PCI ad intercettare i “sentimenti” ed i bisogni popolari.
Sul piano sindacale le cose andarono diversamente in quanto dopo un decennio di perfetta solitudine delle RdB, sindacato militante nel vero senso della parola, esplosero le mobilitazioni “cobas”, intesi nell’accezione originale dei comitati di base dei lavoratori, in vari settori che da una parte erano la conferma della scelta di indipendenza organizzata fatta nel ’79 e dall’altra obbligavano l’organizzazione politica ad una modifica nella relazione con l’attività sindacale superando quella condizione prevalentemente militante ed aprendosi ad una dinamica più di massa e più avanzata di quella che si era vissuta fino ad allora. Comunque la “funzione di partito” sulla quale non sono mai stati fatti passi indietro è stata quello della costruzione del rapporto organico con la classe reale, punto sul quale sono state fatte verifiche positive e che ha permesso anche una tenuta temporale che la “politica” da sola non avrebbe mai prodotto.
2c L’internazionalismo; Altro elemento che è stato al centro dell’azione è stato quello dell’internazionalismo e delle relazioni internazionali, terreno fondamentale per i comunisti, su questo piano è stato svolto un intervento sistematico a partire dalla solidarietà con la Palestina, con il Nicaragua, il Salvador, l’Angola ed i Mozambico nelle loro lotte di liberazione. Come l’iniziativa contro la guerra e l’imperialismo americano per tutti gli anni ’80 fino alle aggressioni militari all’Iraq all’inizio degli anni ’90 ed alla Jugoslavia a metà di quel decennio. Anche la solidarietà con paesi socialisti rimasti dopo la fine dell’URSS è stato un terreno dove si è svolta una funzione di battaglia politica; in particolare nella difesa di Cuba nel “Periodo Especial” dove venne intensificata l’aggressione USA ma anche nel sostegno alla rivoluzione Bolivariana del Venezuela alla fine degli anni ’90.
Su questo terreno si sono registrate le difficoltà più consistenti; prima con la chiusura burocratica dei paesi del blocco socialista che riconosceva nel PCI e nella CGIL i soli interlocutori. Significativo è stato nel 1985 che la CGIL ponesse il veto all’adesione all’FSM delle RdB, tanto più questo atteggiamento veniva adottato sul piano politico. Poi con la crisi dell’URSS che modificò completamente il quadro internazionale. Comunque questa è stata una “funzione” che si è perseguita fino in fondo e che oggi, di fronte allo sviluppo delle contraddizioni internazionali, mostra ancora tutta la sua valenza strategica.
3 – PROGETTO E COMPOSIZIONE DI CLASSE OGGI
Quello descritto è stato complessivamente un procedere anomalo rispetto alla storia della sinistra e dei comunisti del nostro paese, che ha registrato elementi di diversità, tanto da presentarsi spesso come soggetto separato, ma che su una cosa ha mantenuto un riferimento saldo ovvero la centralità del progetto e l’importanza della soggettività politica, soggettività che è comunque sempre sotto esame e mai scontata. L’OPR è nata come progetto politico in relazione ad un contesto storico determinato che poi si è radicata, articolata, evoluta e modificata nella complessità della situazione politica e sociale; questo approccio è un presupposto ancora valido? È necessario ancora partire dalla classe reale che esiste in Italia ed oggi in Europa? È necessario ancora avere un carattere militante per sostenere i compiti che una organizzazione comunista si trova ad affrontare ora? Per dare una risposta a queste domande bisogna tornare a fare riferimento alle tendenze di fondo dell’attuale livello di sviluppo del capitalismo che per noi significa interpretare queste politicamente anche rispetto all’Unione Europea ed all’Italia collocata nel contesto continentale. Fino alla fine del ‘900 parlare di rivoluzione significava individuare quel blocco storico fatto da classe operaia e contadini che poteva prospettare un superamento del capitalismo e questa è stata una possibilità effettiva fino agli anni’70.
Possibilità credibile perché lo sviluppo delle forze produttive del capitale avevano portato fino a quel periodo ad una crescita quantitativa e di peso politico, non certo voluta, delle proprie forze antagoniste; ovvero nei centri imperialisti la classe operaia delle grandi fabbriche. Nelle ex colonie i movimenti di liberazione prodotti dalla insostenibilità del sistema coloniale grazie anche alla presenza dei paesi socialisti. Infatti fino al mantenimento del fordismo la crescita dei profitti era legata alle produzioni di linea che richiedeva una grande concentrazione di forza lavoro nelle fabbriche e sviluppo dei mercati interni attraverso l’aumentato ruolo dello Stato “programmatore” e dunque della politica nelle dinamiche sociali dei paesi a capitalismo avanzato. Tale superamento era reso credibile anche perché c’era comunque un modello di società alternativa che sembrava consolidare il proprio ruolo internazionale. La fase avviata da circa un ventennio, che possiamo genericamente definire postfordista o della produzione flessibile, segna un rivoluzionamento delle forme del produrre capitalista avvalendosi della rivoluzione tecnico-scientifica che però segna forti segni di discontinuità rispetto alle fasi storiche precedenti. Inoltre ha per la prima volta una dimensione effettivamente mondializzata della produzione e della circolazione delle merci dando alla classe lavoratrice in generale una configurazione conseguente.
L’effetto socialmente e politicamente più rilevante è che mentre fino alla fase precedente l’aumento della produzione della grande fabbrica, cioè del cuore del capitalismo, procedeva di pari passo all’aumento ed alla concentrazione della classe operaia l’avvio della produzione flessibile internazionalizzata, dunque dell’uso intensivo della scienza e della tecnica nella produzione, fa saltare questa accoppiata e separa le sorti dell’operaio di fabbrica dal punto più avanzato del processo produttivo. La nascita delle filiere produttive dislocate sulla dimensione internazionale permette perciò di ripristinare lo sfruttamento e l’estrazione brutale del plusvalore in un punto lontano dai centri strategici, produttivi, finanziari e politici, del capitale.
Questa non è solo una constatazione “tecnica” ma modifica la condizione materiale e politica della classe operaia, riduce il suo potere contrattuale e, separandola strategicamente dai punti strategici della produzione, la riduce a soggetto sociale al pari degli altri che compongono il proletariato.
Viene meno, così, quella “particolarità” storica di essere stata avanguardia politica di tutta la classe fin dall’inizio della grande impresa capitalista.
Naturalmente nei paesi imperialisti rimangono ancora nuclei consistenti di classe operaia legati alle produzioni avanzate, vedi ad esempio quelle militari o tecnologiche, ma questi non rappresentano più la tendenza generale del proletariato come avveniva nel ‘900 quando si moltiplicava e concentrava attorno alle grandi fabbriche da Torino a Detroit e nel resto del mondo “avanzato”.
È esattamente in questo contesto che va misurata l’importanza della soggettività, del progetto e della militanza. Di fronte ad una disgregazione produttiva e sociale così rilevante è evidente che le responsabilità delle soggettività politiche si moltiplicano e che le questioni che emergono hanno una complessità tale che non possono essere affrontati in modo empirico ed approssimativo. Se la disgregazione della classe antagonista è un prodotto dello sviluppo del capitale sul piano concreto della produzione e sul piano politico per il mantenimento della propria egemonia a questa bisogna sapere rispondere portando più avanti il ruolo della soggettività sapendo che ancora una volta il capitale si trova di fronte a contraddizioni che vanno ben oltre la sola dimensione economica e sociale ed investono gli equilibri internazionali finanziari, politici e militari. Queste dimensioni delle contraddizioni però non possono essere percepite e comprese automaticamente dalle classi subalterne se queste non acquisiscono un visione generale e rimangono legate alle sole contraddizioni specifiche che vivono.
Scendendo dal “cielo” dell’analisi storica possiamo percepire quotidianamente che oggi non esiste una “avanguardia” sociale in grado di trascinare la classe intesa in termini generali. D’altra parte l’estrema disgregazione in atto tramite la diffusione del precariato, la fine delle tutele per il lavoro dipendente e subordinato e la indeterminatezza delle prospettive future per settori sempre più ampi della società, in particolare per le giovani generazioni oggi formate per eseguire lavori di tipo intellettuale, rendono estremamente complessi i processi di ricomposizione in funzione di un conflitto sociale generalizzato. Dunque assumono ancora più valore per l’azione politica la capacità di lettura delle modifiche nella composizione di classe e la capacità della soggettività organizzata di tenere testa a queste.