di Mauro Casadio
Lo scontro di classe internazionale ha prodotto nel ‘900 una rivoluzione ed una trasformazione radicale delle classi e del capitalismo.
Prima con le rivoluzioni, che hanno cambiato il mondo aprendo una prospettiva socialista in Russia, in Cina, e poi nelle “campagne” che hanno circondato le città ovvero Cuba, Vietnam e tutte le altre esperienze antimperialiste. Uno scontro vero dove una alternativa sociale è emersa e si è imposta anche se con i limiti di una trasformazione che doveva fare i conti con un’assenza di esperienze storiche precedenti.
A questo pericolo “mortale” per l’imperialismo vissuto come la “grande paura” del secondo novecento, perchè cosi era percepito e cosi era effettivamente, il capitalismo ha risposto sul piano politico, militare, ideologico. Solo però, di fronte alla crisi di sovrapproduzione degli anni ‘70 si è cominciato a reagire anche sul piano di un cambiamento strutturale del modo di operare del capitale che ha avviato a sua volta una propria “rivoluzione” produttiva e sociale. E’ su questo piano che a fine secolo è stata sancita la vittoria dell’occidente e sono entrate in crisi le esperienze socialiste costruite nelle “periferie” dell’imperialismo, esperienze che non sono riuscite a determinare quel salto qualitativo che forse avrebbe potuto impedirne l’esito negativo.
Certamente questa vittoria sulle prime esperienze di socialismo sono state prodotte da una capacità soggettiva delle classi dirigenti dell’occidente che già con la “Trilateral”, fondata nel 1973 per iniziativa di David Rockefeller, di Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, lavorava per individuare una risposta strategica al movimento comunista ed alla cocente sconfitta che si profilava in Vietnam.
Ma le cause profonde del ribaltamento stanno in quella condizione, descritta da Marx, in cui una formazione sociale non può perire fino a quando non ha sviluppato tutte le proprie forze produttive. Ecco perché, di fronte alla profonda crisi nella seconda parte del secolo scorso del Modo di Produzione Capitalista, la borghesia internazionale, all’epoca a guida unipolare USA, è stata costretta a fare la sua “rivoluzione” e l’ha potuta fare.
Le strategie adottate per contenere le realtà statuali, politiche e sociali del movimento operaio e contadino che si andavano affermando ad Oriente e nello stesso Occidente, partivano dai paesi imperialisti con ristrutturazioni produttive e finanziarie che si riflettevano nei rapporti di forza internazionali già negli anni ‘80 ma che puntavano soprattutto sullo sviluppo delle forze produttive. Che la scienza e la tecnologia fossero un nuovo terreno di scontro internazionale si era visto a partire dagli anni ‘50 soprattutto con l’avvio della “corsa allo spazio” che aveva all’epoca una finalità essenzialmente militare.
Se tale finalità rimase per i sovietici quella principale, ad occidente la stretta economica, politica e strategica degli anni ‘70 spinse verso l’uso intensivo della scienza e della tecnologia per rivoluzionare il cuore stesso della produzione capitalista. Insomma la lotta di classe condotta dal proletariato internazionale nel secolo scorso, con le sue differenze e contraddizioni interne, ha prodotto un esito inaspettato per il movimento comunista ovvero ha costretto il capitalismo a fare quel balzo in avanti che, da solo, non avrebbe nemmeno considerato se avesse potuto continuare a sfruttare una forza lavoro attenta solo alla dimensione “tradunionista”.
La scelta vincente è stata incubata per tutti gli anni ‘80 ed ha portato al crollo dell’URSS, sorprendendo lo stesso occidente imperialista, che successivamente ha dispiegato tutte le proprie potenzialità producendo quella “globalizzazione” che ha connesso produzione e circolazione del capitale a livello internazionale. Il processo sviluppatosi negli anni ‘90 ha dunque modificato il modo di produrre e di consumare rimodellando le classi sociali nelle stesse dimensioni nazionali, trasformando centinaia di milioni di contadini in operai e agendo nei paesi imperialisti, cambiando anche qui le modalità della produzione e le caratteristiche produttive della stessa forza lavoro.
Su tutto ciò è stato scritto ed abbiamo scritto molto come Rete dei Comunisti, ma la trasformazione avuta nel nostro paese è oggi sotto gli occhi di tutti: si sono trasformate le produzioni – dalla produzione fordista a quella decentrata e delocalizzata – e la qualità delle produzioni che si sono orientate verso prodotti tecnologicamente avanzati. Ma è cresciuto, soprattutto, il settore dei servizi che si è articolato e diversificato su settori legati alla produzione ma anche alla circolazione di capitali e di merci ed alla loro vendita. Questo oggi è nei paesi imperialisti il settore che produce la parte più consistente del PIL. Questo tipo di sviluppo si è basato sulla diffusione delle tecnologie moderne della comunicazione, dell’informatica e della robotica che hanno cambiato completamente mansioni lavorative, qualifiche e percezione di se della stessa classe lavoratrice.
Quello che era stato da noi il “blocco storico” della rivoluzione, e certamente non solo nel nostro paese, composto dagli operai e dai contadini, si è espanso a livello mondiale lasciando nella nostra dimensione nazionale le figure produttive legate alle mansioni più mentali che manuali, impiegate più nel terziario che nella produzione industriale, anche se il lavoro manuale non è certo scomparso e l’immigrazione va a coprire esattamente questa perdurante necessità produttiva.
La modifica radicale ed oggettiva della divisione internazionale del lavoro è anche stata utilizzata ideologicamente in modo martellante per dimostrare che la “classe operaia” era scomparsa ed assieme a questa la lotta di classe ed ogni prospettiva socialista. Su questa posizione intere legioni di intellettuali e del cosiddetto popolo della sinistra hanno rapidamente gettato a terra armi e bagagli affrettandosi a salire sul carro dei vincitori senza riflettere abbastanza sui caratteri del passaggio che si andava producendo che era anche il risultato della “nostra” lotta di classe.
Un tale risultato va invece ancora oggi rivendicato ed evidenziato, contro tutti quelli che hanno parlato della fine della spinta propulsiva, poiché è stata l’azione e l’organizzazione del proletariato del ‘900, nelle sue diverse forme, che ha spinto verso uno sviluppo complessivo della società umana, certo ancora sotto il segno del capitale ma comunque verso un avanzamento generale dimostrando cosi quella funzione storica della classe sempre rivendicata dal marxismo.
Questa incapacità di storicizzare gli eventi non solo ha prodotto il disarmo ideologico, culturale e politico ma ci lascia oggi impreparati di fronte al nuovo passaggio che si sta producendo dopo il riemergere palese delle contraddizioni più intime del capitale. Contraddizioni che nella crisi attuale fanno riemergere il carattere proletario, ovvero subordinato e subalterno, del lavoro nelle relazioni sociali e produttive anche per chi svolge un lavoro mentale.
La prima parte dello scritto di Carchedi mette proprio “i piedi nel piatto” di questa realtà usando il metodo scientifico dell’analisi marxista che mantiene tutta la sua validità anche se, certamente, oggi può risultare di difficile comprensione anche per gli ambiti comunisti in quanto disabituati a questo tipo di elaborazioni. Non di meno è questo il percorso teorico da seguire per evidenziare nuovamente le relazioni capitalistiche di sfruttamento valide non solo per il lavoro manuale ma anche per quello mentale.
Nella trasformazione della produzione in Italia ed in Europa si è pensato e mistificato sul fatto che le classi fossero scomparse e che il famigerato “ceto medio” fosse la nuova e agiata condizione permanente dei lavoratori.
La crisi si è incaricata di sfatare questo mito borghese ed ha riportato a galla la vera natura dei rapporti sociali nella società del capitale.
Cosa che oggi lascia ampi settori del mondo del lavoro, soprattutto giovanile, a misurarsi drammaticamente con la distanza che si è creata tra aspettative, ideologicamente propagandate dalla cultura dei padroni, e realtà lavorativa e sociale regressiva che si va affermando in modo sempre meno mistificabile.
Giovani generazioni che pagano, cosi, sulla propria pelle questo effetto diretto della principale contraddizione del capitale tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione.
E’ esattamente in questa condizione che si colloca il lavoro prodotto da Guglielmo Carchedi e che ci offre un importante strumento di lettura chiaramente marxista delle moderne relazioni sociali, in un’epoca in cui il cosiddetto “postmoderno” viene spacciato come oggettivo e come conferma del superamento di tutte le categorie teoriche e analitiche del ‘900. Il lavoro intellettuale come espressione delle magnifiche sorti che ci aspettano in un processo di continua crescita economica e sociale, la flessibilità del lavoro come opportunità, libertà di fare le scelte sulla propria vita, individualismo e competizione come mezzo per far emergere i meritevoli, etc. Questi sono i miti che hanno spacciato, esattamente come avviene per le droghe, tra i lavoratori, i giovani, le classi subalterne promettendo un futuro che non poteva esistere. Bene fa Carchedi ad usare il termine di lavoro mentale che implica la base fisiologica della forza lavoro e non il termine lavoro intellettuale che viene usato in modo idealistico per caricarlo di una diversa qualità rispetto al lavoro manuale, nascondendo ideologicamente la natura comune delle due attività complementari dell’essere umano.
Particolarmente interessante ed utile è il sesto capitolo dove si svolge una analisi particolareggiata di Internet, in cui ci si misura per la prima volta con la funzione di questo decisivo strumento di lavoro, informazione e conoscenza in chiave strettamente marxista recuperando e adeguando le categorie usate per l’analisi della produzione capitalista con un mezzo di lavoro ammantato di ideologia e di apologia. E’ una sfida che non riguarda solo l’autore del testo ma anche chi milita e fa intervento nei settori sociali che sono in larga parte coinvolti e condizionati in questo tipo di comunicazione e di formazione delle coscienze.
L’analisi avanzata nel testo invece ci dimostra come il lavoro mentale sia collocato esattamente nel modo di produzione capitalista come quello manuale, pur nelle relative differenze, ovvero forza lavoro sottoposta ai processi di sfruttamento e di appropriazione di pluslavoro. Ciò in un contesto dove il capitale fisso assume dimensioni mai date in epoche storiche precedenti e dove il lavoro mentale trova la sua collocazione nella produzione di profitto. L’uso intensivo della scienza e della tecnologia nella produzione di profitto è la condizione che viviamo oggi nei centri imperialisti ed è importante ridare vigenza alle categorie marxiste che ci permettono di avere una corretta interpretazione teorica, ma anche di trasformare queste interpretazioni in possibilità di intervento politico, di conflitto e di organizzazione della classe antagonista.
Questa operazione analitica e teorica ci permette di promuovere una nuova visione del conflitto di classe nelle condizioni oggi date.
Tuttavia c’è un punto nel testo su cui mi sembra necessario andare ad un approfondimento e questo punto riguarda quella che è stata storicamente definita la “teoria del riflesso”. E’ una questione caduta nel dimenticatoio del bagaglio ideologico dei comunisti, come d’altra parte molte altre questioni storiche e teoriche, posta da Lenin sia in “Materialismo ed Empiriocriticismo” che nei “Quaderni Filosofici”. Questa riguarda direttamente una teoria della conoscenza che ha ricadute politiche che non sono indifferenti nella pratica dei comunisti. Mi ero proposto di sviluppare assieme alla presente introduzione un allegato su cui approfondire tale questione per continuare un dibattito che è importante, purtroppo per motivi pratici per ora non è stato possibile, ma questo è anche un incentivo per tornarci in modo più approfondito ed appropriato nel prossimo futuro.
La necessità dell’approfondimento nasce da vari fattori che qui mi limito ad accennare.
Uno ha uno spessore filosofico, inteso come lettura del mondo, ed è relativo alla questione della conoscenza e dei processi che la producono. Non è un fatto secondario nell’azione strategica in quanto il nesso tra il contesto oggettivo in evoluzione e le soggettività che si muovono in quel determinato contesto ci mette in condizione di collocare la nostra stessa azione politica, e questo non è certo un dettaglio “culturale”.
Ma la “teoria del riflesso” pone anche un problema metodologico legato alle capacità di analisi e di interpretazione dei fenomeni sociali e politici visti nella loro organicità e non nello specifico in cui questi volta per volta si manifestano. E’ conseguentemente anche un problema di formazione politica dei militanti politici che hanno deciso di misurarsi con la complessità dell’attuale formazione sociale, complessità mai vista in precedenza. Naturalmente qui non possiamo che limitarci a fare un accenno con l’impegno a tornarci in modo più sistematico e “scientifico”, se possiamo così dire, tenendo ovviamente conto dei nostri limiti.
Intanto tali analisi ci dicono che se il lavoro mentale è sottoposto allo sfruttamento capitalistico, la lotta di classe può rompere il recinto che gli si è voluto costruire attorno concependola solo come mezzo di lotta del lavoro manuale e degli esclusi. In realtà l’ambito del lavoro mentale si aggiunge nel conflitto di classe al resto dei soggetti sottoposti a sfruttamento. Certo questa ricongiunzione non può essere il prodotto solo di un’analisi per quanto corretta e di una generica presa di coscienza, ma ci mette in condizione di cominciare a ragionare su come si possano costruire le alleanze sociali per rilanciare il conflitto e l’organizzazione di classe qui ed ora.
In questo modo ci mostra anche quali possono essere alcuni possibili terreni di conflitto reale. Se nello sviluppo attuale e nella competizione globale il dato che si impone è l’incremento della composizione organica di capitale, ovvero l’aumento esponenziale del capitale fisso, la retorica che viene fatta sulla questione della disoccupazione/precariato legandola alla questione degli investimenti, e dunque su un incrudimento della competizione internazionale, non può essere che smentita. Infatti più investimenti non possono che significare aumento della composizione organica di capitale in funzione competitiva, aumento della produttività e dunque riduzione della forza lavoro.
Emerge in tal modo che oggi, e sempre più in prospettiva, la disoccupazione è un effetto dello sviluppo tecnologico e dunque gli investimenti non possono cambiare nulla se non si procede alla riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. E’ un terreno di lotta appena accennato dalle forze di classe e spesso relegato al conflitto degli anni ‘70, ma questo ha un ruolo centrale di fronte all’incremento della contraddizione che lega disoccupazione/precarietà alla riduzione del reddito destinato ai lavoratori, cioè quota di reddito inteso in senso sociale complessivo, che spinge verso un ulteriore incremento delle disuguaglianze sociali. Se la richiesta del “reddito sociale minimo” ha un carattere immediato, riformistico e di possibile organizzazione del conflitto pratico e di sedimentazione delle forze, la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro ha un segno ideologico di tipo rivoluzionario che nasce dalle dinamiche di crescita della società attuale.
Un’altra indicazione di lotta per una forza comunista è quella di tipo ideologico sulla neutralità della scienza. Se la scienza assurge oggi ad uno degli elementi principali dello sviluppo umano, non possiamo sottrarci ad un’opera di chiarimento sul ruolo della scienza per non lasciare in mano all’avversario di classe un nuovo feticcio ideologico che viene usato per rafforzare la propria egemonia. In ogni società la conoscenza è il prodotto, il riflesso, degli interessi della classe dominante e dunque anche i “prodotti” di questa attività rispecchiano questa matrice, vedi le ricerche fatte dalle multinazionali dell’agricoltura o sulle medicine finalizzate solo ai profitti.
Queste nel capitalismo sono le ricerche che si affermano e producono scienza anche a discapito degli interessi sociali generali. Come pure è evidente la prevalenza delle finalità militari in molti campi degli investimenti e della ricerca scientifica. La Rete dei Comunisti da tempo segue questo filone di analisi e di elaborazione perchè la scienza e la tecnologia sono forze produttive che hanno le potenzialità per aprire una prospettiva verso la trasformazione sociale. Su questi terreni abbiamo promosso nel 2008 e 2009 diversi incontri e forum, a Roma con “Pianeta Merce” ed a Pisa con “Crisi e Alternative”, dove le questioni della scienza, dell’ambiente e della tecnologia sono stati affrontati evidenziando contraddizioni e possibilità alla luce comunque del carattere di classe delle conoscenze da queste prodotte.
D’altra parte lo sviluppo complessivo attuale sta portando alla devastazione ambientale nelle molteplici forme in cui ci viene rappresentata, non solo ma sta divenendo terreno di lotta tra le stesse frazioni della borghesia come dimostra la politica di Trump che, chiamandosi fuori dal patto di Parigi sul clima del 2015, contesta le teorie sul peggioramento dell’inquinamento atmosferico a livello mondiale. Dunque è anche questo un terreno di lotta di classe che non può limitarsi alle mobilitazioni locali e specifiche, che definiamo spesso come “lotte a km 0”, ma non può che partire dal punto alto dello sviluppo e li trovare il suo possibile punto di sintesi antagonista. Per questo è indispensabile ritrovare gli strumenti di lettura del marxismo che ci permettono di fare i conti con l’attuale livello di sviluppo raggiunto dal capitale e con i processi sociali contraddittori che ora si riverberano anche nei centri imperialisti.
Se questo insieme di processi e contraddizioni è vero, è anche vero, che si pone in termini potenziali la possibilità del cambiamento sociale a partire dal presente sviluppo complessivo incluso quello della forza lavoro, forza produttiva determinante. Nelle fasi in cui c’è, nel modo di produzione capitalista, coerenza tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione, cosa avvenuta in altre fasi storiche ed in modo parziale anche negli anni ‘90, è difficile concepire il rivoluzionamento delle relazioni sociali. Oggi invece la crisi di sistema che si sta manifestando, tramite gli effetti concreti della caduta tendenziale del saggio di profitto e dunque tramite la riproposizione della competizione interimperialistica, sta rompendo quella coerenza che garantisce l’egemonia del capitale; dunque parlare di cambiamento non rimanda necessariamente ad una visione utopistica di nostalgici del comunismo novecentesco ma ci spinge a riconcepire un socialismo ed un comunismo che deve apprendere dalle sconfitte storiche ma che non può che ripartire, criticamente, dalla base creata dalla “rivoluzione” borghese della fine del ‘900.
In sintesi se il lavoro proposto da Guglielmo Carchedi prende le mosse da un livello teorico complesso e spesso fuori della portata della cultura media degli stessi comunisti, questo testo ci spinge a riprendere in mano l’arma della teoria ed a lavorare per trasformare questa in un’arma utile al conflitto di classe ed all’organizzazione dei soggetti antagonisti al capitale.
Giugno 2017