Rete dei Comunisti (in Contropiano anno 27 n°1 – gennaio 2018)
Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere
L’ascesa al potere del miliardario statunitense Donald Trump contro la rappresentante dell’establishment liberale Hillary Clinton, insieme alla vittoria della Brexit nel referendum in Gran Bretagna, all’ampia vittoria del No nel referendum costituzionale voluto da Renzi e dall’Ue, e poi la sfida indipendentista catalana allo Stato Spagnolo rappresentano eventi e fenomeni che vanno considerati la conseguenza di un passaggio di carattere storico nei termini che abbiamo analizzato nel convegno del dicembre 2016 dal titolo ‘Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere”.
Siamo immersi in un passaggio di fase storica in cui gli assetti precedenti sono ormai saltati ma i nuovi non si sono ancora cristallizzati. Di qui il carattere di indeterminatezza della fase attuale all’interno però di un contesto che vede i ritmi storici notevolmente velocizzati rispetto alla fase precedente.
Competizione globale con competizione interimperialistica
L’entrata in scena di Donald Trump suggella ed esplicita una tendenza di natura internazionale che in realtà si è già ampiamente affermata negli anni scorsi.
Trump non è la causa di un innalzamento della tensione sul piano internazionale, ma è il risultato, la manifestazione di un’accresciuta tensione a livello globale già in essere da tempo.
La vicenda Trump rappresenta la fenomenologia di un passaggio storico che non va sottovalutato e che è caratterizzato da un’evidente escalation della competizione globale tra poli geopolitici e potenze mondiali e regionali di diversa natura.
Da uno scenario di competizioneconcertazione al centro per anni delle politiche dell’amministrazione Obama si sta passando ora ad un altro quadro caratterizzato da uno scontro diretto tra interessi irriducibili, che rende sempre più inefficaci e quindi impossibili quelle istituzioni globali, quelle camere di compensazione tra interessi diversi che hanno caratterizzato la fase precedente. Il nuovo ordine mondiale, contraddistinto dal “tutti contro tutti”, mette in discussione in primo luogo i trattati multinazionali di diverso tipo – dal Fmi al Wto, passando per il Ttip e per il Tpp fino alla Nato – che hanno segnato la fase storica instaurata dagli equilibri internazionali prodotti dal Secondo Conflitto Mondiale.
L’opposizione irriducibile tra gli interessi delle varie potenze rende quella attuale una fase contraddistinta dalla mancanza e impossibilità di alleanze durature tra i vari soggetti della competizione globale, e dalla formazione di alleanze spurie, a geometria variabile, soggette a continui rivolgimenti di fronte.
Lo stallo nella competizione interimperialistica: l’equilibrio delle forze
Donald Trump è la manifestazione di una reazione sia di una parte delle classi dirigenti sia di consistenti strati popolari alla caduta del ruolo egemonico degli Stati Uniti. E’ evidente la difficoltà, da parte degli USA, a mantenere il ruolo di direzione della “globalizzazione”.
Mentre gli Stati Uniti si trovano in una condizione di declino che dura ormai da alcuni decenni – paradossalmente dallo scioglimento dell’Unione Sovietica che sembrava aver aperto all’egemonismo Usa sterminate praterie – i nuovi soggetti emersi a livello internazionale (in particolare Unione Europea, Cina e Russia) stanno tenendo botta tanto sul piano economico quanto su quello militare.
Si crea quindi un quadro di sostanziale equilibrio delle forze all’interno del quale i diversi soggetti operano a difesa dei propri interessi, incapaci quindi di determinare alleanze internazionali stabili e ampie, e in cui il confine tra competizione e collaborazione è in continuo movimento sia sul piano economico sia su quello politico e militare. A rendere ulteriormente indeterminato questo equilibrio sono le diverse faglie conflittuali locali che vanno dal Medio Oriente e Nord Africa, passano per l’Ucraina e paesi Baltici, arrivano fino all’Asia e alla Corea del Nord e si spingono verso l’America Latina dove i focolai di tensione non si limitano certo al solo Venezuela.
Per oggettivare questa condizione bisogna fare il confronto con gli scenari internazionali precedenti, sia quello del periodo bipolare tra USA ed URSS dove la competizione era strategicamente alternativa ed anche militare, sia quello brevemente caratterizzato da una egemonia statunitense presto messa in discussione da altre potenze e poli.
Attualmente nessuno dei soggetti della competizione è abbastanza forte, da solo, per imporsi su tutti gli altri.
Al tempo stesso, nessuno dei poli è disponibile a spartirsi la torta con uno dei propri competitori, incapace quindi di ricomporre le contraddizioni almeno con alcuni degli altri soggetti in campo.
Il carattere contingente e variabile delle alleanze internazionali, insieme all’assenza di un Campo Socialista – che è altra cosa rispetto all’esistenza di paesi in cui movimenti progressisti e rivoluzionari, con tutte le contraddizioni e le difficoltà del caso, hanno avviato esperimenti di transizione al socialismo – delegittimano in questa fase ogni visione o ipotesi campista, che rischia di portare le forze comuniste e antagoniste fuori strada e di renderle subalterne agli interessi di uno piuttosto che di un altro dei poli della competizione globale. Non solo non esiste in questa fase, tra le grandi potenze, alcun possibile campo alternativo a quello imperialistico occidentale (altra cosa è individuare possibili elementi di controtendenza da sostenere tatticamente) ma spesso i paesi oggetto delle ripetute aggressioni imperialiste non finiscono del mirino a causa della natura del loro governo o del loro sistema sociale, ma a causa delle loro risorse, della loro posizione o della loro appartenenza alla sfera d’influenza di una potenza concorrente.
Ci troviamo, come detto, in una situazione nella quale prevale il “tutti contro tutti” prodotto dall’equilibrio di forze, finanziarie, economiche e militari, che impedisce da una parte una soluzione concordata e dall’altra riproduce in continuazione contraddizioni tali per cui una linea strategica di risoluzione non è a disposizione di nessuno dei principali attori internazionali.
Questa condizione è il prodotto della fase precedente – che allo stato non sembra avere un possibile sbocco per cui ad una ipotizzabile crescita del livello delle forze produttive si possa associare un potenziale soggetto egemonico che riesca a trainare tutti verso tale prospettiva – in cui lo sviluppo complessivo delle Forze Produttive, sia in termine di Capitale fisso che di Forza Lavoro, a livello mondiale ha riguardato per qualità e quantità sia i centri imperialisti che le periferie produttive ed i paesi emergenti saturando i nuovi margini prodotti dalla fine del campo socialista. Per recuperare i tassi di profitto ridotti, causati dalla caduta tendenziale, oggi sarebbero necessari spazi di ulteriore crescita che non si intravvedono e dunque la tensione al profitto che dagli anni ‘90 è stata risolta con la crescita fuori dai centri imperialisti. In questa condizione di restrizione non può che rivolgersi all’interno producendo il “tutti contro tutti” sopra citato.
Questa condizione di stallo però non potrà durare in eterno, e se ora non sono prevedibili i caratteri del possibile punto di rottura (finanziario? militare?) prima o poi si imporrà un salto di qualità della situazione obiettiva che costringerà tutti a fare delle scelte, anche se non auspicate o volute.
L’Unione Europea si rafforza ma genera contraddizioni
L’Unione Europea è data spesso dagli analisti e dai commentatori come perennemente in via di disfacimento sull’onda delle contraddizioni interne tra paesi e tra interessi inconciliabili.
Eppure – anche se non bisogna essere deterministi e valutare anche la possibilità che l’Ue non regga il livello delle contraddizioni che è costretta ad affrontare e che cresceranno – tutta la storia del processo di integrazione europeo ha finora dimostrato che esso non solo ha retto alle crisi, ma addirittura di averne beneficiato rilanciandosi ogni volta ad un livello superiore più efficace e stringente.
Oggi di fronte alla possibilità concreta che l’aumento del livello dello scontro e il manifestarsi di spinte centrifughe di vario tipo mettano in discussione lo strumento, il contenitore, il contesto di cui le classi capitalistiche europee si sono dotate per difendere e affermare i propri interessi all’interno e all’esterno dello spazio europeo, assistiamo ad una ulteriore accelerazione dei processi di unificazione, centralizzazione, gerarchizzazione.
Non possono sfuggire gli enormi passi in avanti sul fronte della creazione di un esercito europeo indipendente dalla catena di comando controllata da Washington. Bypassato il veto britannico e messi a tacere i mal di pancia dei paesi della cosiddetta ‘nuova Europa’, da sempre ostili ad un allontanamento dalla tutela militare statunitense, le istituzioni dell’Unione Europea hanno varato un piano molto ambizioso che prevede non solo la costituzione di uno spazio di difesa e di sicurezza continentale dotato di una sorta di stato maggiore unificato, ma anche la possibilità, attraverso le cosiddette ‘cooperazioni rafforzate’, di stanziare ingenti investimenti economici da destinare alla creazione di un complesso militar-industriale dell’Ue, in barba ai vincoli di bilancio che continuano a valere per la spesa sociale.
Il rilancio e la concretizzazione dell’esercito europeo all’indomani della Brexit e dell’elezione di Trump dimostrano che le classi dirigenti europee sono più che coscienti dell’innalzamento del livello delle contraddizioni, e quindi dello scontro, nei confronti dei propri competitori internazionali.
Sul fronte economico, inoltre, oggi l’Eurozona diviene il fulcro effettivo dell’Unione Europea dopo l’uscita della Sterlina, unica altra moneta di peso europea negli scambi internazionali.
Occorre, quindi, respingere letture “crolliste” e disfattiste a proposito dei destini dell’Unione Europea. Così come occorre contrastare la chiamata alle armi, da parte dell’imperialismo europeo, indirizzata a quei settori sociali e politici che, impauriti dall’aggressività delle politiche protezionistiche e nazionalistiche dell’amministrazione statunitense e intimoriti dall’inasprimento di una crisi economica tutt’altro che passeggera, possono essere portati a credere che l’antidoto possa essere rappresentato da un sostegno incondizionato ad una classe dirigente europea, ad una Unione Europea che si ammantano, nonostante tutto, di quei valori liberali e di civiltà opposti strumentalmente al ‘dispotismo russo’ o all’autoritarismo fascistoide statunitense.
L’Unione Europea vive attualmente una condizione sostanzialmente positiva, anche se non ancora risolutiva per arrivare agli “Stati Uniti d’Europa”, in quanto la Brexit prima e la vittoria di Macron e di Merkel in Germania gli hanno permesso di accelerare i processi unitari rintuzzando gli assalti dei movimenti “populisti” nella maggior parte dei paesi.
L’UE è ora impegnata in un processo di riorganizzazione interna a tutti i livelli funzionale alla competizione internazionale ma che oggi non è ancora compiuto e che va portato a termine.
Ovviamente Bruxelles persegue un aumento del suo peso internazionale e della sua proiezione egemonica, e lo spostamento fino all’Africa Centrale del suo confine meridionale nell’ambito dell’operazione “fondi vs controllo dei flussi migratori” va in questa direzione.
Ma al tempo stesso l’Unione Europea non ha nessun interesse a far saltare l’attuale situazione di equilibrio tra i diversi attori della competizione globale perché uno scontro frontale con gli altri contendenti richiederebbe una solidità che la compagine al momento non ha ancora conquistato.
In Europa, così come nel resto dell’Occidente capitalistico, le vecchie classi dirigenti sono state investite negli ultimi anni da una forte crisi di egemonia e si trovano oggi a dover contrastare, spesso a partire da una condizione di debolezza o difficoltà, nuovi fenomeni politici espressione soprattutto delle classi medie impoverite dalla crisi ma anche di spezzoni delle classi medio-alte tagliati fuori dalla cosiddetta globalizzazione. In alcuni casi anche i settori di classe, sulla base di un processo di politicizzazione e radicalizzazione prodotto dalla gestione autoritaria e liberista della crisi da parte dell’Ue e dei vari governi, ha adottato comportamenti politici dissonanti rispetto alle indicazioni dell’establishment (i già citati referendum in Grecia, Gran Bretagna, Italia e Catalogna). Alla fine ogni tornata elettorale di tipo legislativo o presidenziale ha visto comunque prevalere i candidati “d’ordine” ma spesso di un pelo e comunque in un quadro in cui aumentano frammentazione e instabilità politica, come in Germania dove il recente voto ha confermato una spaccatura materiale e ideologica tra i territori dell’ex DDR e quelli della Germania Occidentale.
Anche la vicenda catalana ha messo, finora, in evidenza la rigidità di una Unione Europea che di fronte al manifestarsi di un conflitto nazionale al suo interno non sa e non può fare altro che sostenere acriticamente lo Stato-Nazione di riferimento, in questo caso quello spagnolo. In generale, se il processo d’integrazione ha svuotato di sovranità i governi e le istituzioni nazionali, espropriate a vantaggio delle istituzioni comunitarie (formali o informali), nel continente è in corso un processo di ricentralizzazione accompagnata da una crescente repressione che accentua il carattere autoritario e reazionario degli stati amplificandone le funzioni coercitive e di controllo, sia nei confronti di eventuali ribellioni di natura sociale sia di qualunque altra contraddizione possa mettere a rischio una stabilità interna indispensabile a consentire al polo imperialista europeo di reggere una competizione internazionale sempre più feroce. Di qui l’adozione di provvedimenti legislativi come il Decreto Minniti, o la trasformazione in legge dello Stato d’Emergenza in Francia, o la reazione violenta e reazionaria contro l’insorgenza nazionale catalana.
Da un altro punto di vista, se il progetto complessivo dell’UE esce sicuramente rafforzato tale conferma spinge proprio verso una accresciuta competitività interna come conferma delle tendenze di centralizzazione e gerarchizzazione che configureranno concretamente il nuovo assetto istituzionale. Questa è la chiave di lettura corretta che va data al conflitto improvviso, ma che incubava da tempo, tra Italia e Francia.
Il conflitto è emerso pubblicamente sulle vicende libiche e sulla questione della Fincantieri che ha acquistato il cantiere navale di Saint-Nazaire – tra i più importanti in Francia – della società coreana Stx; Macron ha minacciato la nazionalizzazione dei cantieri e il ministro Calenda per ritorsione l’uso della Golden Power nel pacchetto azionario della TIM con maggioranza francese.
Così come l’uccisione di Gheddafi ed il tentativo di sostituire l’ENI in Libia sono stati un colpo basso sferrato dalla Francia di Sarkozy, il recente accordo del governo italiano con Tripoli subito dopo l’incontro a Parigi tra le due fazioni libiche con Macron è un colpo basso sferrato dall’Italia. Come anche i tentativi reciproci di scalata e di penetrazione economica costituiscono delle manifestazioni di un conflitto reale che si accende attorno alla ridefinizione dei nuovi ruoli all’interno della UE dopo l’inizio della procedura di uscita della Gran Bretagna. Per anni l’asse fondamentale è stato quello Parigi – Berlino con la “copertura” britannica intesa come collegamento con gli Usa fino ad un certo punto ancora egemoni.
Il cambiamento generale in atto rimette in discussione questo tipo di gerarchia facendo emergere l’ipotesi dell’Italia come terza forza del nucleo duro del progetto europeo; ipotesi non peregrina perchè se è vero che il nostro paese è più arretrato sul piano sociale e del debito pubblico è anche vero che rimane la seconda potenza manifatturiera del continente. Inoltre le FS hanno acquisito le ferrovie greche in via di privatizzazione e si stanno proiettando a livello internazionale con accordi con le ferrovie Iraniane, mentre l’industria militare italiana ha un ruolo fondamentale nel costituendo complesso militare industriale europeo.
Insomma se l’UE teorica vede un ecumenismo di facciata quella reale vive una competizione interna feroce tra stati e cordate economico-finanziarie per chi dovrà assumere il controllo del nuovo polo imperialista.
La Cina alla ricerca di stabilità ed egemonia
Anche la Cina, esaurita la fase di crescita estensiva al servizio delle multinazionali estere, ha bisogno in questa fase di ridefinire un suo piano di sviluppo che superi le strozzature del MPC (Modo di Produzione Capitalistico) con le quali sta ormai facendo i conti; il PCC inoltre ha ben chiaro che questa possibilità può venire solo da una capacità economica e politica trainante e non certo per via militare. In questo senso va interpretata la proposta di costruzione della nuova “Via della Seta” che coinvolge Cina, Russia ed UE, oltre ai paesi che si trovano in quella traiettoria, per la costruzione di un’enorme infrastruttura che attraversa i due continenti che potrà significare, almeno nei progetti se non nella realtà, enormi investimenti finanziari e nuove realtà economiche che potrebbero crescere su questo percorso lungo migliaia di chilometri. Quello che sta proponendo in realtà è un progetto egemonico in contrasto con una ipotesi di rottura degli equilibri attuali e di crisi politica aperta, anche se deve necessariamente mirare a sostituire gli interessi statunitensi configgendo oggettivamente con gli Stati Uniti e con le multinazionali basate a Washington.
Il punto di attrito più forte tra Washington e Pechino è rappresentato sicuramente dalla vicenda coreana.
Gli Usa continuano a minacciare di intervento militare la Corea del Nord che nel frattempo si è dotata di un efficace strumento di dissuasione – l’arma nucleare – per cercare di coinvolgere Pechino in una destabilizzante escalation. D’altro canto la Cina continua a tenere una posizione equilibrata sulla vicenda – richiesta di moderazione a Pyongyang e al tempo stesso un fermo stop alle provocazioni militari Usa – senza lasciarsi coinvolgere direttamente. Finora la voce grossa da parte dell’amministrazione Trump e le minacce di intervento militare si sono sempre ridotte a ben poco, facendo rientrare il conflitto all’interno di parametri squisitamente politici che mettono in evidenza la debolezza degli Usa.
La Russia
La Russia è troppo debole dal punto di vista strutturale per pensare di tentare un assalto all’attuale equilibrio di forze internazionale. Mosca ha in mano fondamentalmente due sole risorse, il petrolio e la produzione di armi, ambedue finalizzate all’esportazione e quindi non ha interesse a creare una situazione di conflitto internazionale con un suo diretto coinvolgimento. Al tempo stesso negli ultimi due anni è passata dalla difensiva all’offensiva, per tentare di rompere l’assedio economico e militare al quale è sottoposta ormai da anni da parte degli Stati Uniti attraverso la ridislocazione dei contingenti e delle basi militari Nato e alla destabilizzazione di importanti territori ai propri confini o nelle aree di interesse strategico, dall’Ucraina ai paesi baltici fino al Medio Oriente. Con una vera e propria ‘mossa del cavallo’ la Russia ha cambiato improvvisamente due anni fa gli equilibri in Medio Oriente inviando un consistente contingente militare che ha impedito il tracollo della Siria – e quindi dell’Iran, dell’Iraq e del Libano – di fronte all’avanzata delle milizie jihadiste sostenute dagli Usa, dalla Turchia e dal blocco sunnita riunito attorno all’Arabia Saudita. La strategia russa è stata così vincente che ora è la stessa Mosca a convincere i suoi ex nemici – in particolare Turchia e Arabia Saudita – ad affievolire i rapporti con Washington e ad affidarsi a relazioni più forti con la Russia che nel frattempo continua a sostenere in America Latina i paesi oggetto della destabilizzazione statunitense ed europea.
Potenze alla ricerca della stabilità
Di fatto, tutti i maggiori competitori sulla scena mondiale hanno interesse a mantenere questa situazione di stallo internazionale, pur cercando di stabilizzarsi e di ricavarsi nuovi spazi, sia perché nessuno di loro adesso è in grado di garantire una prospettiva generale sia perché hanno interesse a far “bollire” gli USA nel proprio brodo, viste le contraddizioni interne che stanno emergendo ormai abbastanza chiaramente e di cui Trump è al tempo stesso manifestazione e detonatore. Che questo sia il convincimento effettivo delle diplomazie dei vari soggetti lo si può leggere chiaramente nelle vicende mediorientali ed in quelle coreane dove la risoluzione politica dei conflitti è l’unica ipotesi che viene considerata in alternativa all’intervento militare minacciato dagli USA.
Il dato che sembra imporsi è che questa nuova condizione internazionale avviene in un contesto o di nessuna crescita o di parziali rimbalzi economici che non garantiscono ampi margini materiali per un accordo internazionale di spartizione delle risorse come negli anni ‘90 e dunque la crescita specifica dei singoli soggetti non si può avere se non a discapito della crescita di altri, sia che questo riguardi singoli paesi o possibili alleanze internazionali.
Gli Usa in declino, pronti a rompere l’equilibrio
L’unica potenza interessata in questa fase a far saltare il banco, ossia l’equilibrio internazionale dominato da un sostanziale equilibrio delle forze in campo, sono gli Stati Uniti.
Gli USA, avendo usufruito in modo finanziariamente parassitario dei precedenti anni di crescita, si trovano oggi dentro un netto ridimensionamento di ruolo internazionale che difficilmente potrà essere accettato passivamente e quindi si sentono scomodi in questa situazione di stallo nelle relazioni internazionali che di fatto amplifica e aggrava il loro declino come potenza globale.
Venendo a mancare la possibilità di poter esercitare una ormai tramontata egemonia politica, economica e culturale che le potenze rivali rifiutano e contrastano, gli Stati Uniti perseguono ormai apertamente l’affermazione unilaterale del loro potere quasi esclusivamente per via militare.
L’interventismo internazionale con la continua minaccia dell’uso della forza sembra avere un che di irrazionale ma potrebbe essere proprio l’effetto della necessità di rompere comunque l’impotenza statunitense. Va rilevato che gli USA sono stati quasi espulsi dalle vicende mediterranee – sono costretti ad agire attraverso le milizie curde nel Nord della Siria – lasciando così spazio all’intervento della UE e della Russia; poi il crescendo surreale dello scontro con la Corea del Nord, la sparata dell’intervento militare in Venezuela, l’attacco ridicolo a Cuba ed infine il riaprirsi della “pratica nucleare” iraniana sono sintomi di un procedere contraddittorio ma in cui l’uso della forza sembra rappresentare l’opzione standard.
In tutta l’America Latina l’interventismo statunitense, le continue provocazioni, il ricorso di nuovo alla guerra economica e a forme più o meno scoperte di colpo di stato – l’ultimo caso è quello dell’Honduras con il ribaltamento dei risultati elettorali a vantaggio del candidato delle opposizioni di sinistra – insieme alle conseguenze della crisi economica internazionale e a fattori interni specifici stanno mettendo a rischio la stessa sopravvivenza degli ultimi tra i governi democratici, progressisti o rivoluzionari che nei decenni scorsi hanno contrastato l’imperialismo e in particolare le ingerenze e gli interessi di Washington e delle sue multinazionali.
Contrariamente a quanto può sembrare, le politiche protezioniste e isolazioniste in campo economico e politico annunciate o già praticate dall’amministrazione Trump non contrastano affatto con un rinnovato interventismo militare, anzi ne rappresentano un complemento. Di fatto ciò che gli Stati Uniti pretendono è di difendere, di chiudere il proprio spazio agli avversari ma al tempo stesso di invadere il campo avversario grazie all’uso della forza militare che si affianca alle guerre commerciali, alla guerra tecnologica e alla pressione diplomatica.
Ci troviamo di fronte anche ad una differenziazione interna alle classi dirigenti degli USA che si stanno ricollocando in vario modo dopo la vittoria di Trump. La rottura è il prodotto di una divaricazione tra una visione egemonico/cosmopolita e in qualche modo concertativa “obamiana” ed una egemonico/conflittuale; è bene ricordare che il concetto di egemonia non contempla solo una funzione politica ma include anche la nozione della “forza”; non siamo, dunque, di fronte ad un presidente “strano” ed irrazionale ma in presenza di una partita politica vera di confronto negli USA che non è lo storico e previsto ricambio tra democratici e repubblicani.
Occorre, nell’analisi dei possibili sviluppi futuri della situazione, evitare ogni forma di catastrofismo e di meccanicismo. Ma è comunque vero che, essendo in quella fase che gli economisti borghesi hanno definito “stagnazione secolare”, che per i marxisti deriva dagli effetti della caduta tendenziale del saggio di profitto, non si possono escludere modifiche nella politica internazionale improvvise. E comunque occorre considerare che una situazione di stallo come quella attuale produce nel tempo anche effetti imprevisti e contraddittori, non necessariamente gestibili in modo razionale dal nostro avversario di classe. Su questo livello di comprensione torna centrale “l’analisi concreta della situazione concreta”.
Sul piano contingente, è possibile prevedere che l’opzione conflittuale di Washington nei confronti dei competitori per evitare di perdere ancora posizioni potrà manifestarsi su diversi terreni:
a. Il primo è quello finanziario con gli USA che mantengono una dimensione prevalente tenendo conto che anche l’aspetto più direttamente produttivo è determinato dalla finanza, nella fattispecie dai pacchetti azionari che determinano anche le scelte industriali. Guerre monetarie, speculazioni finanziarie, scalate azionarie potrebbero essere le forme che assume in questa dimensione la competizione interimperialista che su questo piano vede anche una sempre maggiore presenza della Cina in quanto in possesso di enorme riserve finanziarie.
b. Il conflitto economico-statuale è un’altro terreno della competizione tra soggetti statuali ed aree economiche; dunque dazi, sanzioni, regolamenti unilaterali sul commercio internazionale sono gli altri sintomi di un conflitto che la presidenza Trump ha solo portato in evidenza con la denuncia del TTP nel pacifico e del TTIP sulla sponda atlantica. Per non parlare dell’accordo sull’ambiente siglato a Parigi da cui gli USA si sono chiamati fuori. Da segnalare le recenti sanzioni comminate da Washington nei confronti di 33 grandi imprese russe che mirano esplicitamente a impedire la costruzione di gasdotti e oleodotti che porterebbero gas e petrolio di Mosca in Europa senza più transitare per l’Ucraina e a rallentare la crescente vendita di armi russe nel mondo togliendo mercato a quelle ‘made in Usa’.
c. Scienza, tecnologia e guerra sono l’altro terreno sul quale si può sviluppare una competizione diretta. Costruzione e sviluppo dei complessi militari-industriali, vendita di armi come mezzo egemonico verso gruppi e classi dominanti nei paesi delle periferie degli imperi, le guerre locali come consumo della “merce” armi, e come tentativi di ridefinire gli equilibri internazionali. Rimane sullo sfondo la questione del conflitto atomico che si presenta ancora come disincentivo e limite “naturale” ad una guerra generalizzata ma che le tensioni attuali, dirette con la Corea ma indirette con Cina e Russia, sembra stiano forzando.
Sul piano militare occorre ricordare che lo strumento tradizionale egemonico statunitense, la Nato, è entrato in una lenta ma consistente crisi. L’Unione Europea non accetta più la tradizionale supremazia da parte di Washington e ha avviato la realizzazione del proprio esercito e il rafforzamento del proprio complesso militare industriale. Già da molti anni gli Usa non hanno potuto disporre a piacimento, come in passato, del loro principale strumento di influenza militare e politica. E ora i nuovi assetti internazionali determinati dal lento ma continuo declino degli Stati Uniti e dall’affermazione di nuove potenze di caratura internazionale – come Russia e Cina – e regionale – come le petromonarchie sunnite o la Turchia – rendono sempre più complicato per Washington mantenere intatta la propria proiezione ed egemonia militare e politica in diverse aree del globo.
In sintesi se gli USA per ora non sembrano ancora in grado di forzare sullo stallo internazionale, ma stanno già adottando politiche e tattiche che vanno in questa direzione.
Le componenti che agiscono su questa situazione sono molte anche oltre i soggetti principali. Ad esempio le vicende venezuelane e dell’America Latina hanno un peso strategico non indifferente rispetto alle possibilità degli USA di tornare a dominare il cosiddetto ‘cortile di casa’. Similmente, la partita nel Medio Oriente attorno alla Siria nella quale intervengono Turchia, Arabia saudita, Iran e Israele continua a essere il teatro della misurazione dei reciproci rapporti di forza, in particolare tra Russia e Stati Uniti. L’elenco potrebbe continuare a lungo ma l’unico soggetto oltre quelli citati che potrebbe svolgere una funzione, soprattutto sul piano economico, è l’India che in parte sta sostituendo la Cina come riserva di forza lavoro a basso costo.
La questione del ‘nemico principale’
L’elemento oggettivo è che siamo di fronte ad una crescente aggressività statunitense determinata da una crisi di ruolo generale. Corea, Venezuela, Cuba, Iran, Siria sono i teatri dove Trump sembra voler scaldare i muscoli e destabilizzare le relazioni internazionali nella prospettiva di un confronto più serio e diretto con la Cina e con la Russia. Ma allo stato non è possibile sapere quanto strategica sia questa scelta conflittuale di Washington, viste le già citate contraddizioni interne e debolezze sul piano economico.
Mentre praticamente tutte le principali potenze mondiali hanno interesse a rafforzarsi ed espandersi ma all’interno di un sostanziale equilibrio, anche se precario, al contrario gli Stati Uniti non possono che contestare questo equilibrio attraverso la via militare finché sono abbastanza forti da tentare di condizionare i propri competitori portandoli ad un livello di scontro a questi non confacente.
E’ prevedibile quindi che le continue provocazioni e operazioni volte a destabilizzare i propri competitori o le aree e i territori dove questi esercitano la propria egemonia o sviluppano i propri interessi innalzino gradualmente il livello della tensione.
La prospettiva è quella dell’apertura di numerosi focolai di conflitto con il pericolo che alcuni sfuggano di mano e provochino esplosioni belliche su grande scala. Oggettivamente gli Stati Uniti rappresentano potenzialmente un nemico dell’intera umanità, un pericolo permanente per la pace e per la democrazia.
Ovviamente nessuno ora è in grado di prevedere se gli Stati Uniti prima o poi saranno costretti a tentare di affondare, con la guerra, i competitori più pericolosi. O se, invece, imploderanno lentamente e lasceranno quindi campo libero alle nuove potenze. Non è ora possibile neanche affermare l’impossibilità che alcuni dei poli della competizione globale si alleino in maniera duratura tra di loro. L’Ue potrebbe fare blocco con la Russia contro gli Usa, oppure Russia e Cina potrebbero coalizzarsi contro Usa e Ue.
E prima ancora, i blocchi occidentali – Ue e Usa – potrebbero coalizzarsi contro i paesi emergenti per amplificare la propria potenza e capacità di rapina rimandando lo scontro diretto tra Washington e Bruxelles.
Come si vede, è l’intero meccanismo della competizione interimperialistica, con i vari poli “l’un contro l’altro armati” e costretti a sacrificare al proprio interno ogni forma di democrazia sostanziale, a comprimere le condizioni delle classi lavoratrici per recuperare margini di profitto e a rintuzzare con la forza ogni richiesta di libertà e di autodeterminazione da parte dei popoli, a rappresentare il “nemico principale”. Se nell’immediato il rafforzamento di ognuno degli altri poli della competizione globale rappresenta un elemento di riequilibrio dello scenario globale multipolare, strategicamente al rafforzamento di ogni polo corrisponde una reazione tendenzialmente corrispondente degli altri competitori, con un conseguente aumento della tensione e l’aumento della probabilità che lo scontro non sia più gestibile senza il ricorso ad un distruttivo conflitto su larga scala.
L’accelerazione dello scontro tra poli concorrenti e l’aumento delle contraddizioni tra interessi sempre più irriducibili in un quadro di crisi sistemica del capitalismo non possono che approfondire una tendenza alla guerra già connaturata ad un quadro caratterizzato dalla competizione interimperialistica e quindi alla estrema riduzione degli spazi di mediazione e di concertazione.
Da questo punto di vista i comunisti e le forze antagoniste che operano all’interno di un polo imperialista come l’Unione Europea, non possono che considerare il proprio imperialismo come il “nemico principale” e battersi per incepparlo, indebolirlo, squalificarlo agli occhi delle masse, accumulando forze e coscienza tali da costituire la base per la rottura e per l’alternativa di sistema.
Uno scenario simile pone le forze comuniste, anticapitaliste e antimperialiste di fronte ad una scelta di estrema responsabilità: sostenere le proprie borghesie, le proprie classi dominanti, i propri stati nello scontro con i competitori internazionali, abdicando così al proprio ruolo e alla propria funzione storica emancipatrice, oppure lavorare alla ricomposizione di un blocco sociale in grado di rompere con l’imperialismo di marca europea e di inceppare l’infernale meccanismo della tendenza alla guerra.
A 100 anni dalla rivoluzione bolscevica occorre recuperare un utilizzo della categoria dell’imperialismo di leniniana memoria (d’altronde la situazione attuale è assai più simile alla vigilia del primo conflitto mondiale che della seconda) che richiami la molteplicità degli attori imperialisti in campo a livello globale. L’accento va posto analiticamente tanto sulla categoria dell’imperialismo come stadio superiore del capitalismo monopolistico e al tempo stesso sul fatto che siamo di nuovo in presenza di più imperialismi concorrenti, come d’altronde è avvenuto per un lungo periodo prima del secondo dopoguerra.
I comunisti devono essere in grado di mantenere salda e coerente la lotta contro i “nemici dell’umanità” e al tempo stesso contro il proprio principale nemico di classe, quell’Unione Europea che viaggia a tappe forzate verso la costituzione di un polo imperialista altrettanto pericoloso sia all’interno sia all’esterno dei propri confini.
Occorre, da questo punto di vista, lavorare alla formazione di un largo fronte contro l’imperialismo e la guerra nel continente europeo che coinvolga le forze sociali e politiche disponibili alla rottura con l’Unione Europea, i propri meccanismi coercitivi, i suoi interessi.