«Per analizzare una questione qualsiasi, la teoria marxista
esige assolutamente che essa sia collocata entro
un quadro storico determinato, e, inoltre,
se si tratta di un solo paese […],
che si tenga conto delle particolarità
concrete che differenziano questo paese
dagli altri nello stesso periodo storico [1]».
Antonio Allegra (in Contropiano anno 27 n°1 – gennaio 2018)
Un quadro sintetico della questione nazionale dalla Prima Internazionale alle lotte coloniali
Questione nazionale e internazionalismo al tempo della Prima Internazionale
Il movimento operaio non è mai stato unanimemente d’accordo se o su quale peso dare alla questione nazionale. Tuttavia, da quando un’«assemblea popolare tenuta il 28 settembre 1864 in St. Martin’s Hall a Londra (in favore della Polonia, allora subente una nuova repressione russa)» [2], portò alla nascita della Prima Internazionale, la questione nazionale è stata da sempre connessa con quella dell’internazionalismo ed ha attraversato la storia e la geografia politica dell’Ottocento e del Novecento, per arrivare fino a noi, declinandosi in modalità differenti.
La sanzione del connubio tra questione nazionale e livello internazionale era parso necessario subito dopo i moti del ‘48, quando si capì che le singole battaglie nazionali per la democrazia erano collegate le une alle altre e necessitavano di un piano di intervento internazionale della lotta di classe. E non è un caso che sia stata una delle questioni nazionali più emotivamente e politicamente sentite del tempo, quella polacca, a fornire lo spunto politico per la nascita dell’Internazionale. È in questo momento che viene introdotto nei documenti del movimento operaio internazionale il concetto di autodecisione (o autodeterminazione, come spesso si traduce) [3].
Nel lungo processo che porta dalle rivoluzioni borghesi del terzo stato (“il popolo-nazione”) alla sua scissione in due classi, la questione nazionale passa dall’essere la condizione dell’egemonia della borghesia in seno al “popolo” contro l’ordine feudale e per la creazione di unità statuali politicamente ed economicamente indipendenti, a uno degli strumenti utilizzabili nella lotta di emancipazione della classe lavoratrice. L’efficacia di tale strumento sarebbe dipesa dalla configurazione di un insieme di fattori contingenti, ossia di quella che Lenin chiamerà “la situazione concreta” o “determinata”.
Le due posizioni di Marx ed Engels.
Generalmente sulla questione dell’internazionalismo si ricorreva, al tempo, all’affermazione contenuta nel Manifesto (“Gli operai non hanno patria”), riprendendo solo una parte del ragionamento in esso contenuto, quello in cui si diceva che il progressivo dominio del mercato mondiale avrebbe portato alla fine delle nazioni:
“Gli isolamenti e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo già con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e delle condizioni di vita ad essa corrispondenti.[…] Con la scomparsa dell’antagonismo fra le classi, all’interno della nazione, scompare l’ostilità fra le nazioni stesse.”
Era vero che gli operai non avevano patria, ma spesso si dimenticava, o non si capiva, la seconda parte del ragionamento di Marx ed Engels:
“Non si può togliere loro [agli operai] ciò che non hanno [la patria]. Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il potere politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi come nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia.”
E nel capitolo iniziale, “Borghesi e proletari”, era stato scritto:
“Sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è all’inizio, nella sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente procedere alla resa dei conti in primo luogo con la propria borghesia. [4] ”
Questo significava che, benché il contenuto della lotta non è una determinazione nazionale, la forma rimaneva nazionale, almeno in un primo tempo (la fine del quale non poteva essere stabilita a priori o a propria convenienza, ma si sarebbe dovuto aspettare il mercato mondiale unificato e la fine della vigenza delle divisioni nazionali, come si deduceva dalle affermazioni del Manifesto). Fino ad allora, il contenuto di quella lotta avrebbe avuto (anche) una dimensione nazionale.
Si prendano adesso due esempi diversi, molto noti, che illustrano come, a quel tempo, la forma nazionale della lotta di classe poteva presentarsi.
a) Intersezione di lotta nazionale e lotta internazionale [5].
Il primo esempio riguarda due vicende note, quella irlandese e quella polacca. L’appoggio alla lotta nazionale irlandese mirava a colpire il ben più potente capitalismo inglese. L’appoggio alla lotta nazionale polacca, serviva a colpire l’impero Russo, ossia il ben più potente baluardo della reazione in Europa. Tramite il sostegno a queste lotte nazionali (irlandese e polacca), Marx ed Engels affermavano che l’indebolimento dello zarismo russo e del potere dei landlord inglesi avrebbe giovato in primo luogo ai lavoratori dei rispettivi paesi (Russia e Inghilterra) e, a cascata, di quelli dominati (Polonia e Irlanda). Quando in una lotta nazionale tale ricaduta di classe internazionalista era assente, i due rivoluzionari ne ignoravano le istanze, come nel caso degli slavi del sud, facilmente strumentalizzabili dalla Russia per favorire le proprie mire espansionistiche nei Balcani.
b) Dimensione nazionale della lotta di classe
Una stessa vicenda nazionale può essere letta in senso diverso al mutare di determinate condizioni. Nella guerra franco-prussiana, ad esempio, Marx sosteneva la Prussia di Bismarck perché riteneva necessaria e “progressiva” l’unificazione tedesca e la lotta alla Francia di Luigi Napoleone III. Ma quando quest’ultimo fu rovesciato e in Francia venne instaurata la repubblica, allora l’aggressività prussiana diventò ingiustificabile e l’occupazione dell’Alsazia-Lorena fu vista come atto reazionario, nonostante la positività del processo di unificazione germanica. Ma poi con l’insorgere dei comunardi, Germania e Francia si trovarono sullo stesso piano quando si trattò di reprimere la rivolta della Comune del 1871.
Quindi, per riassumere, una lotta nazionale può avere (ma non necessariamente) un contenuto progressivo, democratico-universale che interessa anche gli operai. Questa lotta può essere ancora la forma di quel contenuto.
Gli anni della Seconda Internazionale: questione nazionale e imperialismo.
Il passaggio dalla Prima alla Seconda Internazionale avviene in concomitanza dell’emergere della fase imperialista, che si snoda attraverso uno sviluppo capitalistico trentennale (1870-1900) e la conseguente formazione di potenze imperialiste che si sarebbero scontrate nei successivi due conflitti mondiali. All’interno di questo trentennio la questione nazionale assume una nuova configurazione che rischia continuamente di dividere il movimento operaio, come effettivamente poi avvenne. Benché Paul Lafargue (genero di Marx), all’atto di nascita della Seconda Internazionale nel 1889 avesse detto che i delegati non erano venuti sotto le bandiere del nazionalismo bensì «sotto la bandiera rossa dell’internazionale proletaria» [6] (ripetendo il locus communis del proletariato senza patria), la votazione dei crediti di guerra nel 1914 e l’appoggio alle rispettive borghesie nazionali dimostrerà che le contraddizioni imperialistiche daranno una declinazione reazionaria alla questione nazionale, in un senso completamente diverso da quello prospettato a suo tempo da Marx ed Engels.
Però, prima di arrivare alla frattura del 1914, si era sviluppato un dibattito interno al movimento operaio sulla questione nazionale che vedeva confrontarsi posizioni differenti. Queste posizioni riflettevano sia i cambiamenti in corso allo sviluppo capitalistico, sia la situazione politica del paese (statonazione o impero) a cui i disputanti si riferivano. È infatti importante tenere presente che ognuno dei partecipanti al dibattito ha una situazione concreta davanti (quella dell’entità statuale di appartenenza). Spesso lo scontro tra le posizioni avviene perché chi parla ha in mente realtà particolari diverse. Questo fatto determinerà uno scontro tra particolarità che farà perdere di vista il senso complessivo della questione (anticipando, si può dire che solo Lenin, ma non subito, ne avrà una visione complessiva, con l’analisi dell’imperialismo).
Vediamo più nel dettaglio in cosa consiste e da cosa dipende l’emergere di queste visioni particolari.
Durante il periodo che stiamo affrontando la questione nazionale “si sposta” dall’occidente europeo verso est. Intorno al 1870 [7] i processi rivoluzionari nazionali nell’Europa occidentale si concludono con la creazione di Statinazionali stabili, non certo puri, ma con una forte dominanza etnicolinguistica e di classe; le borghesie dominanti riusciranno, in un modo e nell’altro, a imporsi su strati popolari e minoranze inevitabilmente presenti nei territori nazionali. L’insorgere di movimenti nazionali interesserà, da questo momento in poi, gli imperi centrali e poi la Russia zarista, tutte entità statuali multinazionali, sconvolte sia dallo sviluppo capitalistico di questo periodo che dalla dinamica degli imperialismi sfociata nei due conflitti bellici mondiali, ma che avevano avuto il loro preannuncio già nella guerra dei Balcani del 1912-13.
Con questo passaggio geografico, la questione nazionale può avere due sbocchi: o il conflitto tra le nazionalità (Guerre dei Balcani) o liberazione delle nazionalità (Rivoluzione d’ottobre).
La rivoluzione socialista e l’autodecisione dei popoli: dalla Terza Internazionale alle lotte coloniali
Il passaggio storico dalla Seconda alla Terza internazionale, come è noto, è segnato dalla rivoluzione bolscevica e dal tentativo di forzare la rivoluzione soprattutto in Europa. Con le Tesi di aprile Lenin aveva dichiarato finita la fase democratica della rivoluzione e cominciata la seconda fase, quella che avrebbe dato il potere al proletariato e ai contadini poveri. Questo salto per molti bolscevichi, e non solo, sembrò legittimare l’opinione per cui la questione nazionale, legata alla fase borghese-democratica della rivoluzione, potesse essere archiviata: se la rivoluzione attuale è direttamente proletaria, e il proletariato non ha nazione, allora parlare di questione nazionale non ha più senso. Questa era la deduzione logica immediata.
Inoltre, la costituzione della Terza Internazionale avrebbe dovuto avere il compito di diffondere la rivoluzione socialista su scala internazionale, in particolare in Europa, cioè nella “metropoli” capitalista.
Ma quando al “centro” la rivoluzione non scoppiò, la Russia rivoluzionaria, da anello periferico della catena rivoluzionaria (espressione di Lenin), divenne nei fatti l’unico “centro” possibile di propagazione della rivoluzione. Da qui la necessità prioritaria della difesa di quella che divenne la patria del socialismo e da qui la necessità innanzi tutto del suo consolidamento, che avvenne con i travagliati passaggi della costituzione della Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa e poi dell’Unione sovietica.
In questi due passaggi prese corpo la politica effettiva dei bolscevichi sull’autodecisione delle nazioni, che aveva il compito di guadagnare alla causa della rivoluzione interi popoli oppressi dal regime zarista. Secondo l’originaria visione di Lenin, alla separazione garantita dal riconoscimento del principio di autodeterminazione delle nazioni, sarebbe seguita l’unione volontaria, che a sua volta avrebbe rafforzato e consolidato la rivoluzione. Tuttavia, la velocità con cui si effettuarono questo passaggio (dalla separazione alla federazione e infine all’unione) era al contempo la causa e l’effetto del ruolo centrale che la Russia aveva avuto rispetto alle altre nazionalità. Questa centralità fu di certo la causa degli attriti che nacquero tra Russia e diverse nazionalità durante i processi di separazione e autonomizzazione (più avanti si spiegherà meglio il senso di questi due termini), il che fece sorgere a più riprese il sospetto di un rinnovato sciovinismo grande-russo (cui si era strenuamente opposto Lenin, mettendo in guardia i suoi compagni di partito).
La centralità della rivoluzione bolscevica (e dunque della Russia bolscevizzata) fu proclamata, per dir così, pubblicamente nel 1927, ossia per il decimo anniversario della rivoluzione, quando Stalin in un suo scritto affermò che quella d’ottobre era stata «una rivoluzione di ordine internazionale, mondiale», perché aveva influito «sullo sviluppo del movimento rivoluzionario di tutto il mondo», aprendo «una nuova epoca, l’epoca delle rivoluzioni proletarie nei paesi dell’imperialismo», ma anche colpendo «l’imperialismo nelle retrovie, alla sua periferia, scalzando il dominio dell’imperialismo nei paesi coloniali e nei paesi dipendenti», creando per questa via «la prima dittatura proletaria, base potente e dichiarata del movimento rivoluzionario mondiale». Era nata così «una nuova epoca, l’epoca delle rivoluzioni coloniali, che si compiono nei paesi oppressi di tutto il mondo in alleanza col proletariato, sotto la direzione del proletariato» [8]. Dove non è difficile vedere che la “guida proletaria” era anche la leadership dei movimenti coloniali e di indipendenza nazionale.
Insomma, se la rivoluzione russa, “proletaria” tout court, aveva aperto la strada affinché “lavoratori e popoli oppressi di tutto il mondo” potessero unirsi, era chiaro che la patria di quella rivoluzione ne era anche la guida ideale e politica. Siamo all’origine di quel movimento storico denominato “decolonizzazione” guidato dalla patria del proletariato rivoluzionario.
Tuttavia, una diversa lettura di Lenin e delle sue teorie sull’imperialismo [9], della questione coloniale e dell’autodeterminazione, alimentò, intrecciandosi con tradizioni rivoluzionarie locali (specie in America Latina), quel fenomeno che fu poi chiamato terzomondismo, e che aveva messo in dubbio sia la leadership sovietica (così come la stessa Unione sovietica, a suo tempo, aveva messo in dubbio la priorità del proletariato europeo, quando la rivoluzione fallì nella metropoli capitalista), sia lo schema “stadiale” del passaggio al socialismo [10]. Le rivoluzioni in paesi prevalentemente agricoli non potevano essere “proletarie” (intendendo con questo termine la base operaia ideologicamente avanzata) ma avevano alla base contadini, indigeni e masse popolari. In simili contesti di dominio coloniale, la lotta all’imperialismo passava, ancora dunque, per la liberazione nazionale del popolo (in un’accezione che non è più possibile confondere con quella borghese ottocentesca, soprattutto per l’assenza di una borghesia autonoma).
Lenin e l’autodeterminazione delle nazioni.
L’oppressione delle nazionalità negli imperi.
Come si è detto, l’Europa occidentale aveva portato a termine il suo processo di stabilizzazione nazionale intorno al 1870. Da allora in poi, la questione nazionale interesserà l’Europa centro-orientale. Ma i termini della questione mutano, perché qui non si pone più il problema delle rivoluzioni (nazionali) borghesi, dove una classe “si fa nazione” (nel senso visto prima) e vuole liberarsi dall’oppressione feudale portando alta la bandiera della libertà e della democrazia. Il problema delle nazionalità affligge ora gli imperi multinazionali (austro-ungarico, ottomano e russo), i quali, esercitando un dominio oppressivo su interi gruppi nazionali, si trovano a dover fronteggiare i rispettivi movimenti nazionali, le cui rivendicazioni sono spesso appoggiate dalla socialdemocrazia locale. Benché gli imperi tendano a minimizzare la portata del problema, la questione delle “minoranze nazionali” (Nationalitätenfrage), come più spesso si dirà, diverrà pressante, diversamente da quanto ormai avveniva negli Statinazione dell’Europa occidentale, dove alle sparute minoranze veniva assegnato un ruolo compatibile con la formazione dello stato (Scozzesi e Gallesi utilizzati per rafforzare il liberalismo, Bretoni e Fiamminghi utilizzati dal tradizionalismo cattolico, ecc.) e pertanto non erano fonte di preoccupazione. In ogni caso il numero delle nazionalità nell’Europa orientale e nell’impero russo sarà infinitamente superiore a quello dell’Europa occidentale, e questo fatto quantitativo già di per sé muterà qualitativamente la portata del problema.
Questione nazionale e questione di classe. Dall’internazionalismo proletario alla determinazione nazionale del proletariato.
È per questo motivo che alcuni pensatori europei (non a caso un polacco e un ceco, ossia Kautsky e Bauer) inizieranno a riflettere su questo tema, con diverse sfumature e prospettive, influenzati ognuno dalla loro angolo visuale “particolare”. Poiché la riflessione ha ricadute anche nell’organizzazione del movimento operaio internazionale, il tema si impone nei dibattiti della Seconda Internazionale ed è per questa via che la questione arriva in Russia e nella lotta all’interno del POSDR, e dunque a Lenin.
Benché possa sembrare un fatto marginale, il Congresso internazionale di statistica, riunitosi a San Pietroburgo nel 1873, aveva proposto di inserire nei futuri censimenti una domanda sulla lingua. Il dato che emergerà da questa rilevazione verrà utilizzato per rendere intellegibile la composizione nazionale e sociale degli imperi e permetterà, ad esempio, di scoprire che a determinate concentrazioni nazionali corrispondevano anche determinate condizioni sociali [11] (come è il caso dei cechi, oppure come avviene nel Caucaso, per via delle forti correnti migratorie): lì dove si creavano dei distretti produttivi, si venivano a concentrare masse di forza-lavoro che erano di una determinata nazionalità. In questi casi, le rivendicazioni proletarie erano anche o si tramutavano in rivendicazioni nazionali, perché allo sfruttamento capitalistico si aggiungeva la discriminazione nazionale. Questo è il motivo per cui la socialdemocrazia di quei paesi ha dovuto iniziare a riflettere sul problema delle nazionalità coniugandola con le rivendicazioni socialdemocratiche.
Quello che succede, però, è che lo sviluppo della moderna industria produce una figura di lavoratore nuovo. Mentre la figura del lavoratore artigiano o a domicilio aveva prodotto un lavoratore davvero senza patria, mobile, in quanto abituato a muoversi in un contesto internazionale (è questo, in definitiva, il lavoratore cui fanno riferimento sia il Manifesto che la Prima Internazionale, dove era presente una forte composizione anarchica), lo sviluppo dell’industria su base nazionale e con un mercato nazionale, quando non coloniale, ha prodotto un lavoratore più ancorato alla specificità territoriale e nazionale. La coscienza di classe internazionalista dei lavoratori e delle loro guide politiche socialdemocratiche rischiava di affievolirsi, se fosse rimasta troppo ancorata al loro specifico “particolare” nazionale.
Infatti, i mutamenti dei processi produttivi avevano dunque due risvolti in termini di composizione lavorativa e della relativa coscienza immediata degli operai: negli stati-nazione imperialisti dell’Europa occidentale l’operaio dell’industria moderna è più legato al territorio nazionale e tende a identificare i propri interessi di classe con quelli della propria industria nazionale e quindi non è più immediatamente internazionalista (lo può diventare solo con la mediazione del partito operaio); negli imperi multinazionali, oltre a ciò, si aggiunge l’esplosione delle immigrazioni nazionali: operai e masse di indigenti di piccole nazionalità sono indotti a emigrare, e spesso vengono relegati in quartieri e fatto oggetto di razzismo. Ne consegue che il “sentimento nazionale” degli operai autoctoni messo a confronto con quello dell’operaio immigrato crea degli attriti che si riflettono all’interno del movimento proletario, sia in termini di organizzazione (sindacato unico vs sindacati “nazionali”; centralismo vs federalismo all’interno del partito), che in termini di strategie politiche.
La Seconda internazionale e il dibattito sulla questione nazionale: autonomia culturale nazionale vs autodecisione delle nazioni.
Secondo quanto afferma lo storico E. H. Carr, la Seconda Internazionale non ha prodotto del materiale ufficiale sulla questione nazionale e sull’autodecisione [12]. L’unico documento ufficiale dell’organizzazione in merito rimase il report della Commissione per l’azione politica del IV Congresso di Londra del 1896, ci si pronunciò per l’autodecisione delle nazioni e contro il colonialismo [13].
La mancanza di posizioni e teorizzazioni ufficiali non deve indurre a pensare che la questione non fosse stata dibattuta al tempo. Anzi, la sostanziale assenza di proposizioni ufficiali da parte dell’Internazionale è forse da considerarsi la manifestazione dell’importanza dell’acceso dibattito che si produsse in quegli anni e che coinvolse le migliori menti del movimento operaio (soprattutto negli anni immediatamente precedenti il primo conflitto mondiale). Forse si cercò di evitare una spaccatura teorica su questo punto o forse se ne sottovalutò l’importanza, difficile da stabilire.
In ogni caso, i problemi che nelle singole realtà multinazionali occorreva affrontare erano quelli organizzativi e quelli strategici. Se si esclude l’opzione della polacca Rosa Luxemburg – militante successivamente nella socialdemocrazia tedesca –, che riprendeva l’interpretazione tradizionale dell’operaio senza patria e lotta nazionale come strumento in mano alla borghesia, per far fronte a questi problemi si ricorse a due formulazioni completamente opposte.
La prima – nata in seno al Partito Socialdemocratico d’Austria e avente come oggetto la specificità dell’impero austro-ungarico – puntava, per ciò che riguarda le strategie politiche, all’autonomia culturale nazionale: in sostanza si riconosceva l’indivisibilità territoriale dell’impero per non dar luogo a conflitti nazionali, ma, contemporaneamente, per impedirne l’esplosione, si rivendicavano diritti politici per le nazionalità di minoranza all’interno dell’impero. L’autonomia era piuttosto culturale che politica. Dal punto di visto organizzativo si puntava alla creazione di federazioni di organizzazioni dei lavoratori su base nazionale, escludendo un’unica organizzazione centralizzata.
La seconda ipotesi – propugnata da Lenin e dal gruppo dei bolscevichi disposto a seguirlo (tra questi, Trostkij solo in un secondo momento, e Stalin in maniera altalenante e ambigua) [14] – propugnava l’autodeterminazione (o autodecisione) delle nazioni: in sostanza si riconosceva il diritto alle nazionalità dell’autodeterminazione delle nazioni (o dei popoli come si dice spesso, ma senza differenze di significato). L’autodeterminazione era soprattutto basata sul diritto di separazione e aveva una valenza politica, più che culturale. Questa opzione era pensata per una realtà multinazionale come quella dell’Impero russo, dove la popolazione indigena russa (detta grande-russa, mentre la popolazione piccolo-russa era quella ucraina) rappresentava meno del 50% dell’intera popolazione (il che spingeva Lenin ad affermare ironicamente che i grandi-russi erano una minoranza all’interno dell’impero). Inoltre, erano ben evidenti interi gruppi nazionali insediati in territori ben definiti.
A proposito dell’aspetto territoriale della questione, occorre sottolineare che esso era un elemento discriminante tra le due opzioni appena elencate. L’autonomia nazionale culturale infatti era pensata per quelle nazionalità che non avevano una continuità territoriale, ma vivevano sparse per gli imperi (come era il caso degli ebrei). L’autodecisione, per contro, implicitamente si basava sul principio territoriale.
La posizione austriaca (definita da Lenin successivamente “eresia austriaca”) trovava il suo fondamento teorico nelle opere del giurista e marxista Otto Bauer (La socialdemocrazia e la questione nazionale, 1907) e di Karl Renner, altro giurista, che scrisse sotto diversi pseudonimi Stato e Nazione (1899) e La lotta delle nazioni austriache per lo stato (1902). Si noti che tutte queste opere erano state scritte da giuristi e che le posizioni avevano, di conseguenza, una prospettiva eminentemente giuridica.
Dal lato opposto, invece, ci furono i testi di Lenin e Stalin, che cominceranno ad apparire dal 1913 in poi. In particolare, il testo di Stalin, La socialdemocrazia e la questione nazionale, apparso nel 1913, era stato scritto su sollecitazione di Lenin e rappresentò la posizione ufficiale dei bolscevichi. L’obiettivo polemico principale era quello di smontare le definizioni di nazione su cui si basava il principio dell’autonomia nazionale culturale. Più che una posizione teorica a sé stante, il testo di Stalin era uno strumento polemicoideologico [15]. Saranno i testi di Lenin a definire meglio il problema politicostrategico complessivo.
Prima di passare ad analizzare direttamente la posizione di Lenin, occorre però evidenziare che entrambe le posizioni si richiamavano alla risoluzione del Congresso londinese dell’Internazionale. Il problema è che, poiché l’Internazionale non aveva scelto una lingua ufficiale per i suoi documenti, questi furono scritti in tedesco e in inglese. Nella versione inglese, infatti, si parla di autonomy (e, stranamente, non di self-determination o autodetermination), mentre nella versione tedesca (usata da Lenin) si parla di “diritto all’autodeterminazione” (Selbstbestimmungsrecht) [16].
Fosse per la confusione di quel Congresso (“il più agitato, il più tumultuoso e caotico di tutti i Congressi della Seconda Internazionale”) [17] oppure per la mancanza di chiarezza politica di fondo, ciò che importa qui è che quella ambiguità terminologica fu il primo segnale di una futura spaccatura profonda all’interno della socialdemocrazia internazionale.
La posizione di Lenin. Fasi e ragioni teoriche e storico-politiche
Si possono individuare tre periodi durante i quali si sviluppa il pensiero di Lenin sulla questione nazionale:
- fino al 1913: lotta all’autocrazia russa e riferimento al diritto dell’autodeterminazione in senso democratico;
- dal 1913 si sforza di utilizzare le spinte nazionali in favore della rivoluzione e coincidente con l’analisi dell’imperialismo (questo è il periodo i cui vengono stesi gli scritti più importanti di Lenin);
- dalla rivoluzione in poi, Lenin affronta praticamente la questione e si comincia ad affrontare la questione coloniale.
Il primo periodo. Lotta all’autocrazia
La situazione internazionale estremamente favorevole in cui era venuta a trovarsi la Russia in seguito alla guerra del 1870, che seminò per lungo tempo la discordia tra la Germania e la Francia, naturalmente fece aumentare l’importanza della Russia autocratica come forza reazionaria. Soltanto una Russia libera, che non abbia bisogno né di opprimere i polacchi, i finlandesi, i tedeschi, gli armeni e altri piccoli popoli, né di aizzare continuamente l’una contro l’altra la Francia e la Germania, permetterà all’Europa contemporanea di liberarsi finalmente dal peso della guerra, indebolirà tutti gli elementi reazionari in Europa e accrescerà la forza della classe operaia europea. Ecco perché Engels desiderava ardentemente, anche per il successo del movimento operaio in Occidente, l’instaurazione della libertà politica in Russia [18] .
Con queste parole Lenin ricordava, in uno dei suoi primi scritti, il rivoluzionario tedesco sodale di Marx e, soprattutto, ne riprendeva le tesi sulla questione nazionale (almeno per ciò che riguardava la Russia), che, insieme agli scritti di Marx [19], in qualche modo servivano da base alla sua posizione. Tuttavia occorre osservare che Lenin si focalizza qui sull’autocrazia – bersaglio politico interno del movimento operaio russo – e sulla posizione dell’impero russo all’interno del quadro internazionale. Siamo ancora ben lontani dal capire quale sia effettivamente la composizione interna delle nazionalità in Russia, su cui cominciò a far luce il censimento del 1897, e su come utilizzarne la potenzialità in senso rivoluzionario e antimperialista.
Quando, infatti, Lenin è spinto a far i conti con questo problema è impreparato, così come è impreparato il POSDR, che nel suo primo congresso, quello di fondazione del 1898, non cita nemmeno il problema nazionale, nonostante il pronunciamento dell’Internazionale due anni prima [20].
Fino ad allora, il compito immediato era la lotta all’autocrazia [21]. Lenin si scagliava contro i populisti e il loro romanticismo [22], in base al quale essi sognavano un socialismo nazionale (grande-russo) su una base agricola precapitalistica [23] (mentre nel 1898 Lenin dimostrerà che il capitalismo s’era già impossessato delle campagne) [24]. Un altro bersaglio polemico di Lenin era il BUND, l’Unione generale dei lavoratori ebrei della Lituania, Polonia e Russia. Questa organizzazione si poneva come obiettivo il federalismo, l’autonomia culturale e l’autogoverno extraterritoriale dei lavoratori ebrei. Ma secondo Lenin, ogni organizzazione dei lavoratori su base nazionale ne frammentava la base e la indeboliva di fronte all’autocrazia [25].
Dunque, per Lenin, se si voleva combattere l’autocrazia, occorreva mettere in piedi un’organizzazione unica e centralizzata che avesse una diffusione capillare su tutto il territorio dell’impero russo, abbandonasse ogni illusione di ritorno a forme produttive superate (populisti) ed evitasse di dividere i lavoratori per nazionalità (BUND) [26].
Ma sempre in questo periodo, soprattutto dopo il fallimento della rivoluzione del 1905, le spinte nazionaliste si fanno sempre più forti anche a seguito del fallimento delle tre Dume (1906-1907), che alla fine non garantiscono più alcuna rappresentanza alle nazionalità [27]. In questo senso, tutta la battaglia di Lenin è “interna”, cioè volta alla gestione di questioni nazionali in Russia, per evitare che le contraddizioni deflagrino all’interno dell’organizzazione operaia, facendo virare pericolosamente a destra il movimento operaio. In questo senso le spinte centrifughe del BUND andavano evitate e combattute tutte quelle posizioni politiche che non riconoscevano il senso “democratico conseguente” (l’espressione è di Lenin) del principio dell’autodecisione delle nazioni.
Il secondo periodo. Il nesso imperialismo-democrazia-rivoluzione
Tra il 1912-13 in Russia si sviluppa una crescente agitazione, forte soprattutto tra le nazionalità non-russe. In questo periodo Lenin ha modo di leggere i testi di Marx ed Engels sulla questione irlandese. Assieme allo strumento statistico (cui farà sempre ricorso) questi scritti sono lo strumento teorico e di analisi per affrontare la questione nazionale, ormai sempre più pressante.
Sono due le posizioni teoriche che Lenin si trova ad affrontare. La prima, come abbiamo visto, è “l’eresia austriaca” dell’autonomia nazionale culturale [28]; la seconda, a cui abbiamo solo accennato, è l’“eresia polacca” della Luxemburg. Se la confutazione della prima posizione era stata affidata a Stalin, alla seconda risponde direttamente Lenin. Nel lungo “articolo” Sul diritto di autodecisione delle nazioni del 1914, Lenin ingaggia una lotta teorica contro la rivoluzionaria polacca (prendendo di mira anche gli austro-marxisti, ma come bersaglio secondario). L’oggetto dell’articolo era la difesa del principio dell’autodecisione inserito nel programma del POSDR e che veniva attaccato da più parti.
Secondo Lenin tutti gli attacchi non facevano che trarre argomentazioni dall’articolo della Luxemburg La questione nazionale e l’autonomia, pubblicato nel 1908-09. Secondo Lenin, la rivoluzionaria poneva la questione in maniera astratta e non la legava all’analisi storica concreta: «qual è il periodo storico che la Russia attraversa, quali sono le particolarità concrete del problema nazionale e dei movimenti nazionali del paese in questione, nel periodo in questione? Ebbene, Rosa Luxemburg non ne parla affatto!» [29].
Il confronto tra lo sviluppo politico ed economico dei diversi paesi e il confronto tra i programmi marxisti, ha un’importanza enorme dal punto di vista marxista, perché incontestabilmente, gli Stati moderni hanno una natura capitalistica comune e una legge comune presiede al loro sviluppo. […] la questione nazionale […] nella maggior parte dei paesi occidentali […] è risolta da molto tempo. È quindi ridicolo cercare, nei programmi occidentali, la soluzione di problemi che non esistono. A Rosa Luxemburg è sfuggita la sostanza del problema: la distinzione tra i paesi nei quali le riforme democratiche borghesi sono compiute e quelli in cui non lo sono. […] Nell’Europa orientale e in Asia, il periodo delle rivoluzioni democratiche borghesi è cominciato soltanto nel 1905. Le rivoluzioni in Russia, in Persia, in Turchia e in Cina, le guerre nei Balcani: ecco la catena degli avvenimenti mondiali del nostro periodo nel nostro «Oriente». In questa catena solo un cieco può non vedere il risveglio di tutta una serie di movimenti nazionali democratici borghesi e di tendenze a creare Stati nazionali indipendenti e omogenei.
Ma l’autodecisione non è una questione di principio astratta dall’analisi di classe e dagli interessi di classe dei lavoratori:
Rispondere «sì o no» alla domanda di separazione di qualsiasi nazione? Sembra una rivendicazione molto «pratica». In realtà è assurda, metafisicamente teorica, e porta praticamente alla subordinazione del proletariato alla politica della borghesia. La borghesia pone sempre in primo piano le sue rivendicazioni nazionali. Le pone incondizionatamente. Il proletariato invece le subordina agli interessi della lotta delle classi. […] Temendo di «aiutare» la borghesia nazionalistica della Polonia e negando il diritto di separazione previsto nel programma dei marxisti di Russia, Rosa Luxemburg aiuta di fatto i centoneri grandi-russi.
E oltre:
Ogni nazionalismo borghese delle nazioni oppresse ha un contenuto democratico generale diretto contro l’oppressione. […] Negare il diritto all’autodecisione o alla separazione significa inevitabilmente sostenere in pratica i privilegi della nazione dominante. […] Nel problema dell’autodecisione delle nazioni, come in ogni altro problema, ciò che prima e più di tutto ci interessa è l’autodecisione del proletariato all’interno delle nazioni.
In questo senso, Lenin vedeva una specie di deformazione ottica nel punto di vista di Rosa Luxemburg, che la induceva a universalizzare quella che era una situazione particolare:
Per i socialdemocratici polacchi il «diritto di autodecisione» non è, beninteso, altrettanto importante quanto per i russi. Si capisce bene che la lotta contro la piccola borghesia polacca, accecata dal nazionalismo, abbia costretto i socialdemocratici polacchi a «forzare la mano» con zelo particolare (talvolta forse un po’ eccessivo). Nessun marxista di Russia ha mai pensato di accusare i socialdemocratici polacchi per il fatto che sono contrari alla separazione della Polonia. Questi socialdemocratici commettono un errore solo quando tentano – come fa Rosa Luxemburg – di negare la necessità di inserire, nel programma dei marxisti di Russia, il diritto di autodecisione. […] Nelle nazioni oppresse la separazione del proletariato, con la costituzione di un suo partito indipendente, conduce talvolta a una lotta così accanita contro il nazionalismo della propria nazione che la prospettiva si deforma e si dimentica il nazionalismo della nazione che opprime.
E quindi:
dato il rapporto obiettivo delle forze di classe in Russia, il rifiuto di difendere il diritto all’autodecisione equivale al peggiore opportunismo.
E proprio in questo articolo Lenin illustra la posizione di Marx sulla questione irlandese, mostrando come quel popolo che non appoggi la liberazione di un altro popolo oppresso, verrà inevitabilmente inghiottito dagli interessi della propria classe dominante. Per questo motivo Lenin vedeva come esempio positivo la posizione dei lavoratori svedesi che avevano appoggiato la separazione della Norvegia dalla Svezia, e difendeva questa posizione contro la Luxemburg, che invece non ne scorgeva nessun lato rivoluzionario.
Inoltre, tra la postulazione del diritto all’autodeterminazione dei popoli (primo periodo) e la stesura de L’imperialismo (1916), avviene un cambio di prospettiva, che, nel quadro internazionale dell’analisi leniniana, lega direttamente la lotta nazionale alla lotta all’imperialismo. Non si tratterà più di dare una risposta alla questione nazionale all’interno del paradigma capitalistico (come cercavano di fare gli austro-marxisti), ma di trovare il nesso strategico tra lotta nazionale (istanza democratica) e lotta rivoluzionaria (istanza socialista). Il nodo della polemica con la Luxemburg sta tutto qui: la rivoluzionaria polacca era contraria all’indipendenza della Polonia perché non voleva favorire la borghesia nazionale; Lenin le rispondeva che, pensando al caso particolare della Polonia, dimenticava la questione generale dell’oppressione dell’Impero verso le altre nazionalità e le altre classi lavoratrici.
Questo nesso tra il contesto internazionale imperialista, aggravato ormai dal conflitto bellico in corso, e la questione nazionale viene evidenziato nello scritto La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione [30], del 1916. Contro gli opportunisti dei diversi schieramenti, ossia di coloro che, da una parte, «difendono le annessioni perché l’imperialismo e l’accentramento politico sarebbero progressivi» (Parvus, ecc.) e coloro che, dall’altra, «eludono la questione delle frontiere» perché queste sarebbero da abbattere immediatamente (Kautsky, Vandervelde, pacifisti ecc.), Lenin oppone un’analisi e un programma che metta all’ordine del giorno la rivoluzione proletaria
L’imperialismo è la fase suprema dello sviluppo del capitalismo. Il capitale ha sorpassato nei paesi avanzati i limiti degli Stati nazionali, ha sostituito alla concorrenza il monopolio, creando tutte le premesse oggettive per l’attuazione del socialismo. Perciò nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti la lotta rivoluzionaria del proletariato per l’abbattimento dei governi capitalistici e per l’espropriazione della borghesia è all’ordine del giorno. L’imperialismo spinge le masse verso questa lotta, acutizzando in modo straordinario gli antagonismi di classe, peggiorando le condizioni delle masse sia nel campo economico – trust, caroviveri – che in quello politico: il militarismo si sviluppa, le guerre diventano più frequenti, la reazione si rafforza, l’oppressione nazionale e il brigantaggio coloniale si accentuano e si estendono.
Questo scenario non rende però vane le richieste democratiche perché, come sostengono alcuni, sarebbero irrealizzabili nella fase imperialista. Quello della “realizzabilità” non è il criterio per giudicare il piano di una lotta democratica, perché nel capitalismo, tutte le lotte democratiche sono irrealizzabili, rimanendo invariata la separazione tra diritti democratici formali e diritti sostanziali. Ma non per questo, per esempio, i lavoratori non devono lottare per la repubblica.
Sarebbe radicalmente errato pensare che la lotta per la democrazia possa distogliere il proletariato dalla rivoluzione socialista […] il socialismo non può essere vittorioso senza attuare una piena democrazia [e] il proletariato non può prepararsi alla vittoria sulla borghesia senza condurre in tutti i modi una lotta conseguente e rivoluzionaria per la democrazia. […] Nessuna riforma nel campo della democrazia politica può eliminare il dominio del capitale finanziario, come del capitale in generale, e l’autodecisione si riferisce completamente ed esclusivamente a questo campo. Ma questo dominio del capitale finanziario non distrugge affatto l’importanza della democrazia politica come forma più libera, più ampia e più chiara dell’oppressione di classe e della lotta di classe.
In questo senso il «rafforzamento dell’oppressione nazionale durante l’imperialismo […] determina per la socialdemocrazia una più ampia utilizzazione dei conflitti che sorgono anche su questo terreno, come motivi per l’azione di massa, per le azioni rivoluzionarie contro la borghesia». Il nesso autodecisione-rivendicazioni democratiche-rivoluzione socialista è qui affermato senza possibilità di equivoco. E questo non cambia nemmeno di fronte al «fatto che la lotta per la libertà nazionale contro una potenza imperialista può essere utilizzata, in certe condizioni, da un’altra «grande» potenza per i suoi scopi egualmente imperialisti». Per motivare questo nesso, Lenin continua a citare i testi di Marx in cui parla della lotta dell’Irlanda. Ma non si limita a qualche citazione dei classici. Lenin va oltre, e offre un quadro ancora più specifico della questione nazionale in rapporto al paese in cui questa viene posta. Egli distingue tre tipi di paesi.
Primo. I paesi capitalisti avanzati dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti, in cui il movimento nazionale borghese progressivo è terminato da lungo tempo. Ciascuna di queste «grandi» nazioni opprime nazioni straniere nelle colonie e all’interno del paese. I compiti del proletariato delle nazioni dominanti sono qui precisamente identici a quelli che si ponevano nel XIX secolo in Inghilterra rispetto all’Irlanda.
Secondo. L’Europa orientale: l’Austria, i Balcani e soprattutto la Russia. In questi paesi il XX secolo ha particolarmente sviluppato i movimenti nazionali democratici borghesi e acutizzato la lotta nazionale. Il proletariato non vi può adempiere il compito di condurre a termine la trasformazione democratica borghese cosi come non può adempiere il compito di appoggiare la rivoluzione socialista negli altri paesi senza difendere il diritto all’autodecisione. Particolarmente difficile ed importante si presenta qui il problema della fusione della lotta di classe degli operai dei paesi dominanti e degli operai dei paesi oppressi.
Terzo. I paesi semicoloniali, come la Cina, la Persia, la Turchia e tutte le colonie, con una popolazione di circa 1.000 milioni di abitanti. In alcuni di questi paesi, i movimenti democratici borghesi sono appena all’inizio, in altri sono ancora lontani dall’essere terminati. I socialisti non soltanto debbono esigere la liberazione immediata, incondizionata, senza indennità delle colonie, – e questa rivendicazione, nella sua espressione politica, non significa altro, precisamente, che il riconoscimento del diritto di autodecisione, – ma debbono sostenere in questi paesi, nel modo più deciso, gli elementi più rivoluzionari dei movimenti democratici borghesi di liberazione nazionale, aiutarli nella loro insurrezione e, se il caso si presenta, nella loro guerra rivoluzionaria contro le potenze imperialiste che li opprimono.
Visto questo quadro, allora, la risoluzione del Congresso internazionale di Londra 1896, che riconosce l’autodecisione «deve essere completata» con ulteriori specificazioni:
1) urgenza particolare di questa rivendicazione durante l’imperialismo; 2) relatività storica e contenuto di classe di tutte le rivendicazioni della democrazia politica, inclusa l’autodecisione; 3) necessità di distinguere i compiti concreti dei socialdemocratici delle nazioni dominanti da quelli dei socialdemocratici delle nazioni oppresse; […] 6) necessità di subordinare la lotta per questa rivendicazione, come per tutte le rivendicazioni fondamentali della democrazia politica, alla lotta rivoluzionaria diretta e di massa per l’abbattimento dei governi borghesi e per l’instaurazione del socialismo.
In un altro lungo articolo di qualche mese più tardi, Lenin ritorna all’attacco contro le deformazioni del marxismo ad opera dell’economismo imperialistico. Ribadire la vera natura della guerra imperialistica significa anche capire i compiti che si pongono ai rivoluzionari nelle condizioni storiche presenti. Ma senza un’analisi di cosa sia l’imperialismo non si può comprendere «il contenuto economico» della guerra e pertanto non è possibile capire il senso della lotta delle nazioni oppresse:
La lotta nazionale, l’insurrezione nazionale, la separazione nazionale sono assolutamente «realizzabili» e si manifestano di fatto nell’epoca dell’imperialismo, anzi s’intensificano […] ma acuisc[ono] l’antagonismo tra queste aspirazioni democratiche e le tendenze antidemocratiche dei trusts [31] .
E più oltre sente il bisogno di specificare che cosa significhi la lotta per la democrazia e il suo nesso con la rivoluzione socialista:
Solo chi è assolutamente incapace di riflettere o chi ignora del tutto il marxismo può trarre da questo la conclusione che la repubblica, la libertà di divorziare, la democrazia e l’autodecisione delle nazioni non giovino a niente! I marxisti sanno invece che la democrazia non distrugge l’oppressione di classe, ma rende solo più pura, più ampia, più aperta e più energica la lotta di classe: ed è quanto ci occorre. […] Tutta la «democrazia» consiste nella proclamazione e nell’attuazione di «diritti» realizzati assai poco e assai convenzionalmente sotto il capitalismo, ma il socialismo è inconcepibile senza questa proclamazione, senza la lotta per realizzare questi diritti immediatamente, senza l’educazione delle masse nello spirito di questa lotta.
E di conseguenza, anche cosa sia una rivoluzione va meglio specificato, quale estensione debba avere e quali processi debba includere, tenendo conto delle specifiche differenze esistenti in ogni luogo:
Il rivolgimento sociale non può essere un’azione unitaria dei proletari di tutti i paesi per la semplice ragione che la stragrande maggioranza dei paesi e la maggior parte della popolazione terrestre non si trovano ancora nello stadio capitalistico o si trovano nella fase iniziale dello sviluppo capitalistico. […] La rivoluzione sociale può compiersi soltanto come un’epoca che associa la guerra civile del proletariato contro la borghesia nei paesi più progrediti a tutta una serie di movimenti democratici e rivoluzionari, compresi i movimenti di liberazione nazionale, nei paesi non evoluti, arretrati e nelle nazioni oppresse.
La rivoluzione non è dunque un atto unico insurrezionale, ma un processo storico di lunga durata che coinvolge, in un nesso sempre più stretto, tutte le forme di opposizione all’imperialismo, ossia tutte quelle lotte democratiche che da sole non possono essere sufficienti a ribaltarlo, ma senza le quali non si verificherebbe quel processo storico esteso nel tempo e nello spazio definito rivoluzione. Sarebbe sbagliato vedere nel nesso rivoluzioneautodeterminazione soltanto un’opportunità di tipo tattico per la rivoluzione, perché così facendo non si capirebbe l’importanza strategica per l’estensione del processo rivoluzionario a tutti i livelli.
Alla VII Conferenza panrussa del POSDR(b), la cosiddetta “conferenza di aprile”, Lenin propone l’adozione della Risoluzione sulla questione nazionale in cui sta esplicitamente scritto:
A tutte le nazionalità che fanno parte della Russia deve essere riconosciuto il diritto di separarsi liberamente e di costituirsi in Stato indipendente. Negare questo diritto e non prendere le misure idonee a garantirne l’applicazione pratica significa sostenere una politica di conquiste o di annessioni. Solo se il proletariato riconosce alle nazioni il diritto di separarsi, si potrà garantire la piena solidarietà tra gli operai delle diverse nazioni e favorire un ravvicinamento realmente democratico tra le nazioni. […] Non è lecito confondere la questione del diritto delle nazioni a separarsi liberamente con la questione dell’opportunità per questa o quella nazione di separarsi in questo o in quel momento. Il partito del proletariato deve risolvere questa seconda questione in ciascun caso particolare, in modo assolutamente autonomo, dal punto di vista degli interessi dello sviluppo sociale nel suo insieme e degli interessi della lotta di classe del proletariato per il socialismo [32].
E nella medesima risoluzione si condanna ancora una volta l’autonomia culturale nazionale come forma di subalternità del proletariato rispetto alla borghesia. Lenin si era già più volte espresso contro l’autonomia nazionale culturale. Nelle Tesi sulla questione nazionale (1913) aveva affermato, ad esempio:
«La parola d’ordine della cultura nazionale è erronea ed esprime soltanto una gretta concezione borghese della questione nazionale. Cultura internazionale» [33].
Altrove scrive che l’autonomia nazionale culturale:
unisce il proletariato e la borghesia di una sola nazione, e divide il proletariato di diverse nazioni. […] inganna gli operai con il miraggio di una unità culturale delle nazioni, quando, di fatto, in ogni nazione ha il sopravvento la “cultura” dei grandi proprietari fondiari e quella borghese, oppure quella piccolo-borghese [34] .
Nelle Osservazioni critiche sulla questione nazionale (1913) Lenin aveva dedicato due paragrafi alla questione della cultura nazionale e dell’autonomia culturale nazionale, andando a discutere direttamente la posizione del BUND. Rispetto alle formulazioni precedenti, ora aggiunge un ulteriore chiarimento sull’alternativa cultura nazionale vs cultura internazionale:
In ogni cultura nazionale vi sono, benché non sviluppati, gli elementi di una cultura democratica e socialista, poiché in ogni nazione vi sono le masse lavoratrici e sfruttate, le cui condizioni di vita generano inevitabilmente un’ideologia democratica e socialista. Ma in ogni nazione vi è anche la cultura borghese […] e non solo allo stato di «elementi», ma in forma di cultura dominante. […] Nel formulare la parola d’ordine della «cultura internazionale della democrazia e del movimento operaio mondiale» noi prendiamo da ogni cultura nazionale soltanto i suoi elementi democratici e socialisti, e li prendiamo soltanto e assolutamente in antitesi alla cultura borghese, al nazionalismo borghese di ogni nazione [35].
Non si trattava di negare le istituzioni culturali delle nazioni, quali la lingua, la letteratura o la religione, ma di evitare – nel caso specifico – quella forma di separatismo che da sempre affligge «la nazione più oppressa e perseguitata: la nazione ebraica». Occorre precisare che per Lenin non c’è differenza alcuna tra gruppo nazionale consistente e minoranza nazionale, né tra nazioni concentrate in un territorio e altre frammentate su più territori.
Nonostante l’articolo di Stalin del 1913, a Lenin non interessava definire cosa fosse una nazione, non gli interessavano i distinguo, perché non voleva scendere sullo stesso livello degli autonomisti del BUND. Infatti l’organizzazione ebraica, che non voleva l’autodecisione intesa come separazione, non era sionista e pertanto non era interessata a un progetto territoriale statuale specifico per gli ebrei [36]. Ma questo faceva optare il BUND per l’autonomia culturale nazionale. Tuttavia, osservava Lenin, accettare questo piano significava dividere gli operai e asservirli alla borghesia nazionale. Neanche il federalismo era visto di buon occhio da Lenin, perché per essere federati bisogna essere prima uguali e solo gli uguali possono decidere di autodeterminarsi. In assenza di uguaglianza, la federazione era vista da Lenin come mera forma di opportunismo nazionalistico, se intesa come surrogato dell’autodeterminazione, concessa magari da una nazione dominante a una nazione oppressa, oppure richiesta dalla borghesia della nazione oppressa per non rompere con la borghesia della nazione dominante [37]. Lenin non era, come si potrebbe essere indotti a pensare, contrario al federalismo solo perché opposto al centralismo (cui Lenin, come Marx ed Engels, teneva) [38], ma perché temeva l’opportunismo, e lo temeva così tanto da preferire una deroga al principio supremo dall’unione piuttosto che capitolare agli interessi mascherati della borghesia:
Il diritto all’autodecisione è una deroga al nostro postulato generale del centralismo. Questa deroga è assolutamente necessaria di fronte al nazionalismo grande-russo centonero, e la minima rinuncia a questa deroga è opportunismo (come in Rosa Luxemburg), è uno stupido giuoco che tira acqua al mulino del nazionalismo grande-russo centonero. Ma una deroga non si può interpretare estensivamente [39] .
Il terzo periodo. Questione coloniale e questione orientale
Lenin aveva sempre tenuto in considerazione la situazione coloniale e la situazione asiatica, tuttavia le considerava, in ordine di importanza o “di desiderabilità” [40], subordinate alla rivoluzione nel centro della metropoli capitalista (la più “desiderabile”). Nei Risultati della discussione sull’autodecisione del 1916, scrive:
Un colpo forte come quello assestato al potere della borghesia imperialista inglese dall’insurrezione in Irlanda ha un’importanza politica cento volte maggiore di un’insurrezione in Asia o in Africa [41] .
L’importanza strategica delle colonie è direttamente proporzionale al grado di connessione con il centro. Per questo motivo, in un primo tempo, l’importanza dei paesi asiatici e delle colonie di questa parte di mondo subordinate all’impero russo avevano un’importanza in relazione al loro centro di dominio, l’impero russo:
Non vi è nessun dubbio che la vittoria del proletariato in Russia creerebbe le condizioni straordinariamente favorevoli per lo sviluppo della rivoluzione in Asia e in Europa [42] .
Questa dipendenza faceva sì che, a questa altezza, non si assegnasse una “desiderabilità” maggiore alla rivoluzione nelle colonie, perché, secondo lo schema tradizionale la rivoluzione si sarebbe propagata dal centro alla periferie, dunque dall’Europa verso l’Asia, da occidente verso oriente. Nella visione di Lenin, la rivoluzione in Russia avrebbe dovuto essere «un anello della catena delle rivoluzioni proletarie socialiste provocate dalla guerra imperialistica» [43]. Un mese dopo la fondazione della Terza Internazionale, Lenin dovrà riconoscere che «soltanto per un breve periodo di tempo, l’egemonia del proletariato mondiale era passata ai russi», in attesa che ritornasse al movimento di una paese capitalisticamente avanzato [44]. Tuttavia successivamente sarà sempre più costretto a riconoscere che quella russa sarà l’unico anello di questa catena e che, dunque, una catena purtroppo non c’era. Questo cambio della situazione rivoluzionaria oggettiva sarà ciò che permetterà a Stalin di formulare la teoria della rivoluzione che scoppia nell’anello debole della catena, un concetto mutuato da Bucharin, e che niente aveva a che vedere con il sostrato hegeliano di tale immagine, presente per contro in Lenin [45]. Con questo cambio Stalin sarà in un certo senso legittimato a mettere al centro dei paesi rivoluzionari l’Unione sovietica. Però, prima di arrivare a Stalin, occorre veder per quale via si arriva a sanzionare una situazione storica che era imprevista (e dunque “indesiderata”).
Fino a prima della Rivoluzione di ottobre, la questione dell’autodeterminazione era legata alla lotta democratica contro l’imperialismo. Ma anche dopo, il socialismo avrebbe portato a termine alcune delle questioni democratiche rimaste in sospeso. Invece, con le “Tesi d’aprile” e l’annuncio della fase proletaria della rivoluzione, molti furono indotti a credere superata la questione dell’autodeterminazione. Pjatakov fu tra i bolscevichi il portatore di questa “eresia polacca” (sulla scia di Luxemburg e Radek). Lenin era dovuto intervenire a bloccare questa “eresia” e a fare prevalere la sua posizione che è rispecchiata nell’appello A tutti i lavoratori musulmani della Russia e dell’Oriente (24 novembre-7 dicembre 1917), in cui si rassicurava che le credenze e le istituzioni nazionali e culturali sarebbero state finalmente libere dopo la rivoluzione (quindi garantite e non cancellate).
Due anni dopo, al II Congresso panrusso delle organizzazioni musulmane comuniste, quando le sorti della rivoluzione mondiale saranno indissolubilmente legata al destino dell’Oriente, si dirà:
La rivoluzione socialista non sarà quindi soltanto, né principalmente, la lotta dei proletari rivoluzionari di ogni paese contro la loro borghesia; no, sarà la lotta di tutte le colonie e di tutti i paesi dipendenti contro l’imperialismo internazionale [46] .
La soluzione prevista per i movimenti coloniali è quella della rivoluzione borghese democratica [47], e l’obbligo per ogni organizzazione comunista della Terza Internazionale: a) se appartenente a un paese dominante, di appoggiare i movimenti democraticorivoluzionari anche se a guida borghese; b) se appartenente a quelli coloniali, di mantenere una propria autonomia e di educarsi alla lotta contro la borghesia del proprio paese quando l’indipendenza sarà raggiunta [48].
La situazione particolare si complica quando la guerra civile indurrà i governi borghesi dei neo-stati nati dalla dissoluzione dell’impero russo (Ucraina, Georgia, paesi baltici) ad allearsi con la reazione occidentale, comportandosi a loro volta come dominatori nei confronti delle altre nazionalità. Questo determinò una polarizzazione e i movimenti nazionali orientali (non tutti) vennero inglobati nella lotta bolscevica. Alla fine, per questa via, si arriverà alla RSFSR e poi all’URSS.
In questo passaggio, chi gestirà questa situazione oltremodo ingarbugliata sarà Stalin, commissario alle nazionalità della RSFSR dal 1917. Egli dovrà gestire ad esempio le spinte autonomiste di Sultan-Galiev, un bolscevico Tataro che aiutò a combattere i bianchi durante la guerra civile, ma che, per spingere le masse musulmane alla rivoluzione, ideò un comunismo nazionale musulmano ad hoc da attuarsi in un’unità territoriale ideale, il Turkestan unito, una regione i cui territori oggi comprendono almeno sete stati e di cui si parlava in molte saghe turche. Mustaphà Suphi, uno boslcevico turco responsabile del Muskom (Commissariato Centrale degli Affari Musulmani nella Russia Interna e Siberia), cercò di trovare una formula di equilibrio tra l’occidente e l’oriente, asserendo che in Europa si trovava il cervello del capitalismo anglo-francese, mentre il suo corpo era nelle pianure dell’Asia e dell’Africa. In questa maniera si cercava di porre un freno a spinte autonomistiche rivoluzionarie locali o nazionalistiche. Per Sultan-Galiev non doveva più parlarsi di proletari semplicemente, ma di intere “nazioni proletarie”, intendendo con ciò che la divisione internazionale del lavoro e lo sfruttamento imperialistico delle colonie affidavano a interi popoli il ruolo di proletari. Il corollario di questo ragionamento non del tutto errato era quello di assegnare una preminenza a queste nazioni proletarie rompendo il legame con i movimenti operai del centro.
Questa è la prospettiva di ciò che venne chiamato il “nazionalismo rivoluzionario”. Il leninismo iniziale di Sultan-Galiev si rovesciò in una forma di marxismo populista e schematico. In tal senso, quello che era stato tradizionalmente il movimento ideale della rivoluzione, ossia dal centro alle periferie, da occidente a oriente, per Sultan-Galiev era da intendersi al contrario, da oriente a occidente.
La teoria del nazionalismo rivoluzionario che si affaccia a questa altezza di tempo aveva lo scopo precipuo di rompere con l’eurocentrismo proletario ed evitare l’isolamento che ne derivava. Rompeva anche con la visione lineare del socialismo, come passaggio dalla democrazia borghese a quella socialista. Questo era il significato e il risvolto teorico principale dello spostamento a oriente dell’asse rivoluzionario. Un altro risvolto teorico latente è la polarizzazione tra paesi periferici e centro imperialista.
Tuttavia Lenin cercherà ancora al congresso di Baku (1920) di legare la leadership sovietica (unico esempio storico vincente di rivoluzione, prima dell’esperimento cinese, ovviamente) e lotte nazionali. Ne derivava che il modello bolscevico veniva posto come esempio internazionale e l’esperimento sovietico come modello da esportare (sulla linea del legame tra operai e contadini). E se il modello era vincente, allora diventava centrale la difesa del paese che lo aveva partorito. Ne derivava che la lotta imperialista internazionale veniva ad essere interpretata come lotta per la difesa dell’ormai prossima Unione sovietica.
Sarà il VI congresso dell’Internazionale (1928), a pochi anni della morte di Lenin, a sancire una relazione gerarchica in cui in cima vi stava la difesa della patria del socialismo, al secondo livello la classe operaia occidentale e infine i movimenti di liberazione nazionale delle colonie.
Alla fine la linea di Stalin era prevalsa, nonostante lo scontro duro con Lenin.
Una conclusione riepilogativa
Con questa sommaria descrizione si è cercato di mettere in evidenza i diversi aspetti teorici della questione nazionale in connessione con gli eventi storici concreti, così come Lenin aveva cercato di evidenziare. Non sarà un caso che proprio affrontando la questione dell’autodeterminazione, Lenin dichiarerà essere principio essenziale del marxismo “l’analisi concreta della situazione concreta”, e che trattare questo argomento nei termini astratti di un principio non significava né fare un’analisi di classe coerente né applicare un principio “democratico conseguente”.
Volendo riassumere il tutto, possiamo dire che il principio di autodeterminazione, aspetto principale, ma non l’unico nella più ampia e complessa “questione nazionale” (anche se lo stesso Lenin è tentato a volte di ridurre la seconda al primo), si può così schematizzare, dicendo che l’autodeterminazione delle nazioni ha tre tempi e tre declinazioni:
- fino a prima della guerra è vista come richiesta democratica storicamente necessaria, senza la quale non è possibile giungere al socialismo;
- con lo scoppio della guerra diventa lo strumento per combattere l’imperialismo e chi non la proclama è uno sciovinista, diventando una cartina tornasole per distinguere gli opportunisti.
Dopo è vista in due modi:
- rispetto alla situazione interna alla Russia rivoluzionaria, dove ci si interroga su come rapportarsi con le nazionalità che hanno subito l’oppressione grande-russa e come conquistare la loro fiducia contro il blocco dei paesi imperialisti che si schierarono contro essa;
- rispetto ai processi di liberazione nelle colonie (anche prima era visto così, ma dopo l’isolamento e la fine dell’opzione rivoluzionaria in occidente, lo sviluppo dei processi rivoluzionari nelle colonie viene visto come momento necessario, strategico, per la rivoluzione mondiale).
Quindi, la separazione assumeva due finalità:
- quella di indebolire gli imperialismi, in favore innanzi tutto della classe lavoratrice del paese dominante (caso Irlanda-Inghilterra);
- (dal punto di vista dei Russi) quella di non aggravare l’odio delle nazionalità oppresse verso i grandi-russi, anche se questi sono bolscevichi (e qui c’è tutta la questione georgiana, e lo scontro con Stalin e il burocratismo dei da lui definiti “Dzeržimorda” [49]).
Per tali motivi, l’autonomia nazionale culturale era un’opzione da scartare, perché non poteva servire al raggiungimento del punto primo, evitando la frantumazione degli imperi, favorendo così il nemico di classe principale e sottomettendo gli interessi di classe dei lavoratori a quelli della borghesia sia locale che del paese dominante. Inoltre, l’autonomia nazionale culturale, essendo la cultura, in regime capitalistico, espressione per definizione della classe dominante (quella borghese), avrebbe alimentato un nazionalismo borghese e dunque la divisioni della classe lavoratrice per nazionalità. Questo è in sostanza il motivo per cui il federalismo, almeno inizialmente, è visto come un pericolo: perché favorisce la divisione nazionale senza rompere con l’impero di appartenenza, e dunque con l’imperialismo come stadio del capitalismo.
L’autodeterminazione delle nazioni, invece, aveva il compito precipuo di produrre una rottura con l’imperialismo, una rottura cioè che avrebbe potuto offrire una chance rivoluzionaria alle stesse classi lavoratrici dei paesi dominanti. Al di là dei “particolari” casi della Russia sovietica, il senso primo e universale dell’autodeterminazione risiedeva in questa rottura, certo “democratica conseguente”, ma che apriva la strada alla fine dell’imperialismo e alla rivoluzione proletaria.
Dicembre 2017
Bibliografia degli scritti principali di Lenin sulla questione nazionale
Tutte gli scritti di Lenin citati sono tratti dalle Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1955-1970 in 45 volumi. I primi 41 volumi corrispondono alla IV edizione delle opere complete dell’edizione sovietica. I successivi voll. 42-45 sono stati aggiunti in seguito alla pubblicazione delle V edizione sovietica.
Le opere complete sono facilmente reperibili in vari formati anche su internet, per questa ragione si è preferito citare da questa fonte.
L’elenco che segue indica gli scritti principali di Lenin sulla questione nazionale. Altri se ne potrebbero aggiungere, ma qui si è preferito dare una lista orientativa al lettore che si accosta per la prima volta all’argomento.
1903
- Il manifesto dei socialdemocratici armeni [Iskra, n. 33, 1 febbraio 1903], vol. 6, pp. 302-305.
- La questione nazionale nel nostro programma [Iskra, n. 44, 15 luglio 1903], vol. 6, pp. 420-428.
1913
- Tesi sulla questione nazionale, [Scritte nel giugno del 1913. Pubblicate per la prima volta nel 1925], vol. 19, pp. 220-227.
- Liberali e democratici sulla questione delle lingue, [Severnaia Pravda, n, 29, 3 settembre 1913] vol. 19, pp. 321-327.
- Lettera a S. G. Šaumian [Scritta il 23 novembre (6 dicembre) 1913. ], vol. 19, pp. 464- 466.
- L’autonomia «nazionale culturale», [Za Pravdu, n. 46, 28 novembre 1913 ], vol. 19, pp. 467-470.
- Il programma nazionale del POSDR [Sozial-Demokrat, n. 32, 15 (28) dicembre 1913], vol. 19, pp. 501-507.
- Osservazioni critiche sulla questione nazionale [Scritte nell’ottobre-dicembre 1913. Pubblicate nel 1913 nella rivista Prosvestcenie, nn. 10, 11 e 12], vol. 20, pp. 10-41.
1914
- È necessaria una lingua di stato obbligatoria? [Proletarskaia Pravda, n. 14 (32), 18 gennaio 1914], vol. 20, pp. 61-63.
- Sulla questione della politica nazionale [Scritto dopo il 6 (18) aprile 1914- Pubblicato per la prima volta nel 1921 in Proletarskaia Revoliutsia, n. 3 (26)], vol. 20, pp. 205- 212.
- Sul diritto di autodecisione delle nazioni [Scritto nel febbraio-maggio 1914. Pubblicato nell’aprile-giugno 1914, in Prosvestcenie, nn. 4, 5 e 6], voll 20, pp. 376-434.
- Della fierezza nazionale dei grandi-russi [Sozial-Demokrat, n. 35, 12 dicembre 1914], vol. 21, pp. 90-94.
1915
- Il proletariato rivoluzionario e il diritto di autodecisione delle nazioni [Scritto in tedesco non prima del 16 (29) ottobre 1915. Pubblicato per la prima volta nel 1927], vol. 21, pp. 372-378.
1916
- La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione [Scritto nel gennaio-marzo 1916. Pubblicato nel quotidiano tedesco Vorbote, n. 2, aprile 1916], vol. 22, pp. 145-160.
- L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Saggio popolare [Scritto tra il gennaio e il giugno del 1916. Pubblicato in opuscolo a Pietrogrado nell’aprile 1917], vol. 22, pp. 188-303.
- A proposito dell’opuscolo di Junius (R. Luxemburg) [Scritto nel luglio 1912, Sbornik Sozial- Demokrata, n. 1, ottobre 1916], vol. 22, pp. 304-318.
- Risultati della discussione sull’autodecisione [Scritto nel luglio 1916. Pubblicato nello Sbornik Sozial- Demokrata, n. 1, ottobre 1916. ], vol. 22, pp. 319-357.
- Intorno a una caricatura del marxismo e all’«economismo imperialistico» [Scritto fra agosto e ottobre del 1916. Pubblicato per la prima volta in Zviezdà, 1924, nn. 1 e 2], vol. 23, pp. 25-74.
1917
- Statistica e sociologia [Pubblicato per la prima volta in Bolscevik, 1935, n. 2. ], vol. 23, pp. 272-278.
- Risoluzione sulla questione nazionale [Supplemento al n. 13 della Soldatskaia pravda, 16 (3) maggio 1917.], vol, 24, pp. 311-312.
- Per la revisione de programma del partito [Scritto il 6-8 (19-21) ottobre 1917. Pubblicato in Prosvestcenie, nn. 1-2, ottobre 1917], vol. 26, pp. 137-163.
1919
- Rapporto al II Congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli d’Oriente [Izvestia del CC del PCR(b), n. 9, 20 dicembre 1919], vol. 30, p. 130-140.
1920
- Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale (Tesi per il Secondo Congresso dell’Internazionale Comunista) [Pubblicato in Kommunisticeski Internatsional, n. 11, 14 luglio 1920.], vol. 31, pp. 159-165.
1922
- Sulla questione delle nazionalità o dell’«autonomizzazione» [Appunti dettati a M. V. il 30-31 dicembre 1922], vol. 36, pp. 439-445.
1923
- Lettera a L.D. Trotsky [5 marzo 1923], vol. 45, p. 623.
- Lettera a P.G. Mdivani e altri [6 marzo 1923], vol. 45, p. 624.
NOTE
[1] ↑ V. I. Lenin, Sul diritto di autodecisione delle nazioni, in Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1955-1970, Vol. 20, p. 382 (d’ora in avanti citato come OC seguito dal numero del volume).
[2] ↑ F. Engels, Sulla tomba di Marx [1878], in F. Engels et al., Ricordi su Marx, Edizioni Rinascita, 1951, p.7.
[3] ↑ E. Carr, La rivoluzione bolscevica 1917-1923, Einaudi, Torino 1964, p. 404, dove si cita un articolo del programma dell’Internazionale, adottato da Consiglio Generale del 27 settembre del 1865, in cui si affermava l’«urgente necessità di distruggere la crescente influenza della Russia in Europa assicurando alla Polonia quel diritto di autodecisione che appartiene a ogni nazione». Benché nasca nell’epoca moderna borghese, il concetto di autodeterminazione non nasce con la questione nazionale e non si riferiva a un soggetto collettivo. Inizialmente, infatti, il concetto liberale dell’autonomia era riferito all’individuo, che doveva essere libero rispetto a ogni potere precostituito. Questo principio teorico-filosofico era uno strumento della lotta di classe della borghesia contro la monarchia. Il concetto di autodeterminazione fu poi esteso al “popolo”, visto come un “individuo”, cui spettava il potere di decidere di sé. “Popolo”, come concetto politico, interseca quello di “nazione”, concetto culturale variabile a seconda degli elementi presi in considerazione (lingua, storia, tradizioni, mentalità, religione, ecc.), che a sua volta interseca quello istituzionale di “stato” e, infine, quello territoriale di “confine”. Se si fosse riusciti a stabilire cosa era un popolo, si sarebbe potuto dedurre dove poteva iniziare uno stato autonomo. Cfr. C. Curcio, Nazione e autodecisione dei popoli; due idee nella storia, Giuffré Editore, Milano 1977.
[4] ↑ K. Marx-F. Engels, Il manifesto del partito comunista, trad. di D. Losurdo, Laterza, Roma 2005. L’originale tedesco è: «Obgleich nicht dem Inhalt, ist der Form nach der Kampf des Proletariats gegen die Bourgeoisie zunächst ein nationaler», dove Inhalt vale contenuto e Form è uno dei due termini tedeschi per dire forma. Nel linguaggio filosofico di riferimento (quello hegeliano), forma e contenuto hanno un rapporto molto stretto. La forma non è qualcosa che si sovrappone al contenuto, ma qualcosa che deriva dallo stesso contenuto. Form è forma esteriore, una specie di maschera, involucro o contenitore, che non deriva dallo sviluppo interno del contenuto. Quando invece il contenuto raggiunge la propria forma essenziale, questa viene chiamata Gestalt. Quindi, è vero: la lotta di classe tra borghesia e proletariato è il contenuto (da cui dovrebbe derivare la propria Gestalt), ma non essendo il contenuto sviluppatosi totalmente (la totalità del mercato mondiale), esso si porta dietro ancora la forma (Form) della lotta nazionale. Si capisce che questa forma è un residuo storico ma che tuttavia non è arbitraria, il frutto di un’interpretazione individuale o di un errore soggettivistico. Si potrebbe dire, con Gramsci, che si è tra il vecchio che muore e il nuovo che non nasce ancora.
[5] ↑ Cfr. G. M. Bravo, Marx e la Prima Internazionale, Laterza, Bari 1979; cfr. inoltre e più in generale E. Carr, La rivoluzione bolscevica, cit. Per gli aspetti citati qui, vedi in particolare il paragrafo La dottrina bolscevica dell’autodecisione, pp. 308-416.
[6] ↑ Cfr. la voce Internazionalismo di R. Craig Nation, in a c. di S. Pons e R. Service, Dizionario del comunismo nel XX secolo, vol. I, Einaudi, Torino 2006, p. 447.
[7] ↑ Cfr. E. J. Hobsbawm, Nazioni e nazionalismo dal 1870, Einaudi, Torino 1990. In particolare leggi le pp. 42-43 sul modo in cui gli ideologi borghesi concepivano la nazione e lo Stato-nazione nell’epoca del liberalismo borghese tra 1830 e 1880.
[8] ↑ J. Stalin, Il carattere internazionale della Rivoluzione d’Ottobre. Per il decimo anniversario dell’Ottobre, in Opere complete, Vol. 10, Edizioni Rinascita, Roma 1956, p. 252 e passim.
[9] ↑ Cfr. R. Gallissot, L’imperialismo e la questione coloniale e nazionale, in A.A.V.V., Storia del marxismo, Il marxismo della terza internazionale. Dalla crisi del ‘29 al XX Congresso (Vol. 3, t. 2), Einaudi, Torino 1981, pp. 832-94.
[10] ↑ Cfr. H. Jaffe, Era necessario il capitalismo? Jaca Book, Milano 2010.
[11] ↑ Cfr. R. Gallissot, Nazione e nazionalità nei dibatti del movimento operaio, in A.A.V.V., Storia del marxismo, vol. 2, Il marxismo nell’età della seconda internazionale, Einaudi, Torino 1979.
[12] ↑ Cfr. Carr, La rivoluzione bolscevica, cit. p. 405: «La Seconda Internazionale, dalla sua fondazione nel 1889 al 1914, si occupò della questione ancor meno della Prima».
[13] ↑ Cfr. G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista. La Seconda Internazionale, vol.3, t. 1 3a ed., Laterza, Roma-Bari 1976, p. 41-42.
[14] ↑ Non tutti i bolscevichi erano per l’opzione leniniana, preferendo una posizione alla Rosa Luxemburg, come Bucharin per esempio.
[15] ↑ Lo storico E. H. Carr sostiene che dietro quello scritto ci sia proprio Lenin. In ogni caso, lì dove si accendeva la battaglia polemica sull’autodecisione, Lenin difese il testo come valido ed esprimente la posizione ufficiale dei bolscevichi.
[16] ↑ Cfr. International socialist workers and trade union congress, London 1896, p. 31; e Verhandlungen und Beschlüsse des Internationalen Arbeiter und Gewerkschaftskongresses zu London, Berlin 1897, p. 18). Cfr. E. Carrère d’Encausse, Unité prolétarienne et diversité nationale. Lénine et la théorie de l’autodétermination, in «Revue française de science politique», XXI, n . 2, aprile 1971, trad. it. di Nicola Simoni, in V. I. Lenin, L’autodeterminazione dei popoli. I testi fondamentali, Massari Editore, Bolsena 2005 p. 26.
[17] ↑ G. Haupt, La Deuxième Internationale, 1889-1914: étude critique des sources, essai bibliographique, The Hague: Mouton & Co, 1964. p. 153.
[18] ↑ Id., Friedrich Engels [1895] in Opere complete (d’ora in poi OC), Editori Riuniti, Roma 1954, vol. 2, p. 18.
[19] ↑ Si tenga presente che gli scritti di Marx sull’Irlanda saranno letti da Lenin intorno al 1913.
[20] ↑ Cfr. H. Carrère d’Encausse, cit.
[21] ↑ V.I. Lenin, I compiti dei socialdemocratici russi [1897], in OC vol. 2: «A fianco del proletariato si schierano qui gli elementi di opposizione della borghesia o delle classi colte o della piccola borghesia o delle nazionalità, religioni e sètte perseguitate dall’assolutismo, […] Nella loro lotta per l’uguaglianza dei diritti, i socialdemocratici sostengono ogni movimento rivoluzionario contro il regime sociale vigente, ogni nazionalità oppressa, ogni religione perseguitata, ogni ceto sociale umiliato, ecc.».
[22] ↑ Cfr. Id., Le caratteristiche del romanticismo economico [1897], in OC vol. 2.
[23] ↑ Id., Quale eredità respingiamo? [1897], in OC vol. 2: «I populisti si sono proposti di rappresentare gli interessi del lavoro, senza tuttavia riferirsi a gruppi determinati dell’attuale sistema economico; in pratica essi si sono sempre posti dal punto di vista del piccolo produttore, che il capitalismo trasforma in produttore di merci».
[24] ↑ Cfr. Id., Lo sviluppo del capitalismo in Russia e Il capitalismo nell’agricoltura, rispettivamente in OC vol. 3. e vol. 4., opere entrambe pubblicate nel 1898.
[25] ↑ Cfr. in Id., La lotta del proletariato e il servilismo della borghesia [1905], in OC vol. 8, a titolo d’esempio una dichiarazione come la seguente: «Nelle località dove l’industria è più sviluppata e gli operai son più preparati politicamente, dove all’oppressione economica e politica si aggiunge l’oppressione nazionale, la polizia e i soldati zaristi agiscono in modo particolarmente provocatorio, sfidando apertamente gli operai». Altrove dirà che la polizia zarista sfrutterà le divisioni nazionali per indebolire il movimento.
[26] ↑ Cfr. Id., La questione nazionale nel nostro programma [1903], in OC vol. 6. Qui è infatti definita la posizione che per i futuri dieci anni guiderà il POSDR.
[27] ↑ Cfr. A. Graziosi, L’URSS di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914- 1945, Il Mulino, Bologna 2007.
[28] ↑ Per una lunga disamina delle loro posizioni, cfr. V. I. Lenin, Osservazione critiche sulla questione nazionale, n OC vol. 20, pp. 9-41.
[29] ↑ Id., Sul diritto di autodecisione delle nazioni, in OC vol. 20, p. 383. Tutte le citazioni successive, se non diversamente specificato, sono tratte dallo stesso testo.
[30] ↑ Id., La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, in OC vol. 22, pp. 147-160. Tutte le citazioni che seguiranno, salvo diversamente indicato, saranno tratte da questo testo.
[31] ↑ Id., Intorno a una caricatura del marxismo e all’“economismo imperialistico”, in OC vol. 23, pp. 25-74.
[32] ↑ Id., Risoluzione sulla questione nazionale, in OC vol. 24, pp. 311-12.
[33] ↑ Id., Tesi sulla questione nazionale, in OC vol. 19 p. 227.
[34] ↑ Id., Progetto di piattaforma per il IV Congresso della Socialdemocrazia della regione lettone [1913], in OC vol. 19 p. 9 e passim.
[35] ↑ Id., Osservazioni critiche sulla questione nazionale, in OC., vol. 20, p. 16.
[36] ↑ Per una storia aggiornata di questa organizzazione, cfr. M. Pieri, Doikeyt, noi stiamo qui ora! Gli ebrei del Bund nella rivoluzione russa, Mimesis, Milano 2017.
[37] ↑ Cfr id., Lettera a S. G. Šaumian [1913] in OC vol. 20 pp. 464-66.
[38] ↑ Id., La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, cit., p. 150: «Il diritto delle nazioni all’autodecisione non significa altro che il diritto all’indipendenza in senso politico […] Questa rivendicazione non equivale quindi per nulla alla rivendicazione della separazione, del frazionamento, della formazione di piccoli Stati. Essa è soltanto l’espressione conseguente della lotta contro qualsiasi oppressione nazionale. Quanto più la struttura democratica di uno Stato è vicina alla piena libertà di separazione, tanto più rare e più deboli saranno in pratica le tendenze alla separazione poiché i vantaggi dei grandi Stati seno incontestabili, sia dal punto di vista del progresso economico come da quello degli interessi delle masse, e, inoltre, questi vantaggi crescono sempre più con lo sviluppo del capitalismo. Il riconoscimento del diritto di autodecisione non equivale al riconoscimento della federazione come principio. Si può essere avversari decisi di questo principio e fautori del centralismo democratico, ma preferire la federazione alla disuguaglianza di diritti delle nazioni, quale unica via verso il centralismo democratico. È precisamente da questo punto di vista che Marx, essendo centralista, preferiva perfino la federazione fra l’Irlanda e Inghilterra alla sottomissione forzata dell’Irlanda agli inglesi».
[39] ↑ Id., Lettera a S. G. Šaumian, cit. p. 466.
[40] ↑ Cfr. Id., A proposito dell’opuscolo di Junius, [1916], in OC vol. 22.
[41] ↑ Id., Risultati della discussione sull’autodecisione [1916], in OC vol. 22, pp. 354.
[42] ↑ Id., Alcune tesi [1915], in OC vol. 21, p. 370.
[43] ↑ Id., Prefazione a Stato e rivoluzione, agosto 1917, in OC vol. 25, p. 364. Generalmente per Lenin l’anello è il “momento” hegeliano, ossia la connessione. Cfr. Id., Quaderni filosofici, Feltrinelli, Milano 1970, p. 135 e OC vol. 38, p. 138.
[44] ↑ Id., La Terza Internazionale e il suo posto nella storia [1919], in OC vol. 29.
[45] ↑ Cfr. M. Rubel, Le «chaînon le plus faible»: à propos de la loi du développement inégal, in Id., Marx critique du marxisme, Paris, Payot, 1974, pp. 153 sgg., 167 sgg. Colgo questo riferimento dal saggio di F. Frosini, Lenin e Althusser. Rileggendo «Contraddizione e surdeterminazione», in «Critica marxista», n. 6, 2006.
[46] ↑ V. I. Lenin, Rapporto al II Congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli d’Oriente [novembre 1919], OC. vol. 30, p. 137.
[47] ↑ Ivi, p. 140: «Dovete basarvi sul nazionalismo borghese che si sta risvegliando in questi popoli, e non può non risvegliarsi: esso è storicamente giustificato».
[48] ↑ Id., Tesi per il II congresso dell’Internazionale Comunista. Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, in OC, vol. 31, p. 164: «l’Internazionale comunista deve concludere alleanze provvisorie con la democrazia borghese delle colonie e dei paesi arretrati, ma non deve fondersi con esse e deve assolutamente salvaguardare l’autonomia del movimento proletario persino nella sua forma embrionale».
[49] ↑ Cfr. Id., Sulla questione delle nazionalità o dell’«autonomizzazione» [1922], in OC vol. 36. Dzeržimorda è un personaggio di Gogol’ che incarna il tipo burocrate russo ottuso e autoritario. Il riferimento letterario è dello stesso Lenin.