Una nuova fase di formazione della RdC
Autore: Rete dei Comunisti
Formato: 17 x 24
Pagine: 12
Prima edizione: giugno 2018
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Dall’inizio del nostro sforzo di autoformazione ed elaborazione teorica negli anni ’90 ci siamo attenuti strettamente sul piano dell’analisi dei processi oggettivi in atto usando gli strumenti, forniti dal marxismo e dai dirigenti del movimento operaio del ‘900, che hanno avuto una valenza teorica in quanto sono stati verificati nel conflitto di classe nel secolo scorso dalla prassi sociale e politica.
Questo nostro lavoro è stato fatto con la convinzione che se le contraddizioni di fondo del Modo di Produzione Capitalista (MPC) non potevano cambiare in un periodo di sua vittoria “globale” ma cambiavano certamente le forme in cui queste si andavano ad esprimere condizionate dalle modifiche strutturali e produttive, dagli equilibri politici internazionali e dal tipo di coscienza e ideologia che si andava manifestando nei popoli e nelle classi.
In questa ricostruzione sintetica del nostro percorso teorico va evidenziata una questione che è stata centrale per la definizione di una visione che poi in qualche modo si è rivelata veritiera.
La crisi dell’URSS ha prodotto lo sbando ideologico e politico su cui oggi possiamo fare valutazioni di merito più equilibrate con l’aiuto della Storia; sbando che ha colpito anche quelli che, a sinistra e tra i comunisti, hanno salutato con favore il fallimento di quella esperienza pensando che, a quel punto, si sarebbero potute esprimere le vere forze rivoluzionarie essendosi rotta la “gabbia” burocratica che inchiodava le forze di classe ad una dinamica politica internazionale condizionata da paesi e partiti che ormai socialisti non lo erano più. In realtà quello che accadde fu che prevalse, oltre che il senso profondo della sconfitta, la convinzione che tutto quello che era stato il prodotto del pensiero e dell’azione dei comunisti fosse storicamente errato e che un ripiegamento socialdemocratico, anche ideologico, fosse la soluzione più “realistica” da adottare. Insomma il disarmo come rimozione dei complessi nodi storici che la rivoluzione sovietica ed il successivo conflitto politico internazionale tra le classi aveva fatto emergere nel corso del ‘900. Il nostro gruppo di militanti, che ha poi dato vita alla Rete dei Comunisti, ha rifiutato quelle impostazioni forse anche in modo non del tutto razionale per autodifesa di una storia individuale e collettiva, per una rigidità ideologica sedimentata nel conflitto politico degli anni ’70, e probabilmente anche per testardaggine personale. Questo perchè ci sembrava che quello che andava emergendo fosse “antistorico” e perciò non si poteva buttare così rapidamente e irresponsabilmente il bambino con l’acqua sporca.
La scelta politica fatta all’epoca fu quella di sviluppare una capacità di ragionamento teorico, che fino a quel tempo non avevamo mai avuto e praticato, scegliendo di partire non dall’analisi della sconfitta ma, bensì, dal perchè i comunisti per oltre sessanta anni avevano vinto trascinando popoli e classi verso un processo di emancipazione generale per tutta l’umanità.
La sconfitta c’era stata, fu innegabile e fu anche devastante, ma non si poteva pensare che quello che era accaduto nel ‘900 fosse stato un capriccio o un incidente della storia. E’ esattamente questo approccio che distinse il nostro procedere diversamente da quelli che riproponevano l’ortodossia sovietica ultimo periodo e da quelli che si apprestavano ad abbandonare la nave che affondava, a cominciare dai Capitani. Tendenze queste comprensibilmente “naturali” in quel passaggio storico che però convissero “innaturalmente” per troppo tempo dentro il Partito della Rifondazione Comunista.
Non a caso tutta l’esperienza del PRC ha rappresentato una ritirata strategica prima sui contenuti ed i principi poi in modo sempre più politicamente evidente, nonostante i buoni risultati elettorali iniziali o per colpa di questi, fino al tracollo finale di inizio secolo al quale ha contribuito tutto il gruppo dirigente di quel partito e tutte le culture politiche in esso rappresentate.
In questa prospettiva di ricerca un valore centrale lo assunse negli anni ‘90 il testo di Lenin sull’Imperialismo in quanto corrispondeva in quel contesto alla triade USA, Germania unificata e Giappone che mostrava nuove velleità egemoniche che sembrava andassero affermandosi. Proprio perchè le forme non si riproducono in modo meccanico i processi non si sono ripetuti nelle stesse modalità di prima delle due guerre mondiali ma la chiave di lettura del testo di Lenin ci ha fornito il “bandolo della matassa” per cominciare ad orientarci in una situazione inedita, inaspettata e difficile soprattutto per chi, come noi, non aveva una consolidata struttura culturale ed ideologica di Partito.
Da questo primo tentativo di adeguamento della teoria al contesto in evoluzione si è proseguito affrontando la Teoria del Valore e la questione della Caduta Tendenziale del Saggio di Profitto, parametri fondamentali per capire l’imperialismo sui quali sono stati fatti a fine anni ‘90 seminari e stampati libri sugli atti. Alla luce di questa dinamica strutturale delle contraddizioni del MPC abbiamo cominciato a valutare il processo di costruzione dell’Unione Europea; il giudizio su questa nasceva non dalle politiche monetarie che venivano attuate o dal patto di Maastricht, che ne erano l’effetto palese, ma dalla competizione interimperialistica, che all’epoca definimmo globale anche per la gestione delle relazioni politiche e sociali a sinistra che non voleva sentir parlare di imperialismo (anche se successivamente il concetto di competizione globale ha mantenuto un valore descrittivo in quanto nella competizione sono entrati soggetti statuali cosiddetti “emergenti”). Questo imponeva processi di riorganizzazione complessiva sia sul piano qualitativo della produzione sia su quello quantitativo e della dimensione dei soggetti impegnati nella competizione. Per noi l’analisi sull’UE non andava fatta “dal basso” del conflitto di classe, che pure ne è una condizione vitale, ma “dall’alto” dell’analisi teorica.
Da queste prime elaborazioni, in realtà suffragate dai fatti che mano mano andavano a svilupparsi, la ricerca e l’elaborazione si è orientata in particolare sulla composizione di classe (nel senso della composizione interna alla fabbrica/produzione strettamente intese) e della classe (vista dal punto di vista generale, di collocazione sociale) in Italia e nella UE in quanto sono gli ambiti istituzionali, politici e di classe in cui operiamo. Importante è stato cogliere il nesso stretto tra il progetto del Polo Imperialista Europeo, dentro l’incremento della competizione internazionale, sul piano produttivo e sociale e le modifiche della condizione di classe quale prodotto diretto di questo progetto con le conseguenti modifiche culturali ed ideologiche quali condizioni della presente subalternità politica.
Questo quadro analitico ma dinamico ci ha consentito di individuare quel “filo rosso” che oggi ci permette di dare organicità a tutto il nostro lavoro, da quello più direttamente politico a quello sindacale fino a quello sociale e nelle aree metropolitane. Altri lavori meno organici alla nostra “prassi” ma comunque importanti per dare corpo ad una visione più complessiva sul piano della teoria sono stati quelli fatti sulle esperienze socialiste, dagli aspetti politico-ideologici a quelli economici e della pianificazione.
Altri tentativi di analisi e di astrazione sui processi generali sono stati fatti con le lotte dei popoli della periferia, sia che fossero di chiaro segno politico rivoluzionario (come nell’America latina) sia che si manifestassero sotto identità ed ideologie diverse (quali quelle religiose) che trovavano comunque le loro radici negli interventi imperialisti e neocoloniali come nel Medio Oriente ed in Africa del nord. Anche la ripresa del lavoro teorico che abbiamo fatto a partire dal 2016 sia quello sulla soggettività organizzata e di partito (La ragione e la forza) che sulla fase storica (Il vecchio muore ma il nuovo non può nascere) assume un carattere importante per affrontare gli scenari oggettivi che si preparano e vanno ulteriormente sviluppati nelle nostre analisi.
L’insieme di questo nostro tentativo di ricostruzione di una visione organica è stato accompagnato dalla teorizzazione, anche in questo caso, sui “tre fronti” del conflitto di classe che ci hanno permesso quel processo di sedimentazione delle forze (teoriche, politiche, materiali) che dopo la sconfitta degli anni ‘90 avevamo individuato come obiettivo prioritario da perseguire per poter ridefinire una prospettiva generale dei comunisti nel nostro paese. Su tale aspetto non ci dilunghiamo e rinviamo al materiale pubblico che abbiamo prodotto ed agli innumerevoli documenti interni che sono stati fatti per la messa a punto di questa prospettiva. Ma anche su questo possiamo oggi fare un minimo di bilancio e di valutazione obiettiva; sia la mole di lavoro teorico prodotto che la scelta dell’articolazione del progetto politico complessivo hanno portato, nel contesto della sconfitta politica e culturale delle organizzazioni comuniste e di sinistra, ad una modifica del nostro ruolo registrata non solo dentro la Rete dei Comunisti ma anche nella percezione esterna a questa.
La “stella polare” di riferimento in questo lavoro di elaborazione, che nel contributo del compagno Italo Nobile è stato descritto in modo corretto e minuzioso, è stata la questione del metodo di analisi in prima battuta e poi nel trasformare questa in terreni e strutture di intervento pratico ed organizzato. Ogni volta che ci trovavamo a ripercorrere testi classici degli autori marxisti, la lettura dei quali generalmente risaliva per noi agli anni ‘70, non solo eravamo obbligati a capire cosa esattamente intendessero (possibilità questa che ci è stata data grazie alla collaborazione di tanti compagni, anche questi ricordati nel testo di Nobile, già in possesso degli strumenti e delle interpretazioni teoriche corrette) ma si rendeva necessario conoscere il contesto storico in cui i testi venivano elaborati per interpretarne non solo i contenuti ma anche la funzione politica che tali testi dovevano svolgere in quella determinata condizione. I testi classici del “Che Fare” e “L’Imperialismo” di Lenin non possono essere presi come verità assolute se non li si contestualizza nel periodo dove sono stati prodotti ed a quali finalità politiche, non solo teoriche, rispondevano.
Questo approccio, questa coscienza della dialettica tra generale e particolare, contemporaneamente ci costringeva ad individuare prima le dinamiche proprie del modo di produzione capitalista, cioè quei processi permanenti nell’attuale formazione economico-sociale, e poi di ricollocarli nel contesto in cui noi agivamo capendo gli effetti e le modifiche che producevano in una condizione odierna completamente diversa, a partire dalla questione centrale del livello generale di sviluppo raggiunto dalle forze produttive. Non è stata certamente una pratica facile in quanto un tale livello di astrazione era stato in precedenza il prodotto di un processo di accumulo di conoscenze teoriche che generalmente solo partiti comunisti che avevano avuto storia e strutture di elaborazioni adeguate possedevano. Infatti i rischi in cui si poteva incorrere in questo lavoro di rielaborazione e contestualizzazione, oltre che di fondamentale orientamento per il lavoro di classe concreto che veniva da noi fatto, erano da una parte il proporsi di un dogmatismo sterile che ci avrebbe portato ad un rattrappimento delle prospettive, seppure su posizioni teoriche “corrette”. D’altra uno scivolamento nell’eclettismo e nel politicismo che ci avrebbe portato a dotarci delle stesse “lenti di lettura” della sinistra italiana e probabilmente saremmo stati travolti dalla crisi che oggi possiamo palesemente vedere, anche se il prezzo di quella crisi in qualche modo viene anche da noi pagato in particolare sulla disponibilità alla militanza politica comunista.
Il gruppo che proviene dalla storia dell’Organizzazione Proletaria Romana ha subito in pieno questo testa-coda nella crisi nata dalla fine dell’URSS, tra il 1991 ed il 1993, dovendo fare i conti dentro l’organizzazione prima con uno strappo dogmatico di una sua parte come riflesso difensivo di fronte al cambiamento inaspettato e con una deriva opportunista sostanzialmente verso il PRC successivamente. Forse è proprio nel fare i conti con quei forti traumi politici subiti che ci provenivano direttamente dalla realtà, le persone sono state ovviamente un “tramite” di questa ed un dato del tutto secondario, siamo riusciti a cogliere l’importanza del metodo da seguire che richiedeva da una parte un nuovo livello qualitativo dell’elaborazione teorica per capire dove il mondo si stava dirigendo ma che non era possibile per noi perdere i rapporti con la classe reale, che si andava trasformando, a partire da quelli fondamentali che nascevano dall’esperienza sindacale delle RdB e dall’intervento sociale a Roma.
Nonostante questo approccio da ritenersi salvifico, in quel contesto, non siamo rimasti immuni dalle spinte che venivano dal “mondo esterno”; infatti il clima politico e culturale mefitico che si respirava dagli anni ‘90 è durato per circa un ventennio condizionandoci praticamente ma anche politicamente. Infatti se da una parte rimanevano le finalità comuniste del nostro operare queste rimanevano distanti dalla condizione della società e ci costringevano ad una pratica che solo indirettamente riuscivamo a far risalire ad un approccio rivoluzionario. Questa condizione che si è protratta fino alla crisi del 2008, ma che in Italia si è concretizzata nel 2011 con il governo Monti, ci ha costretto ad una articolazione e dislocazione dei nostri militanti spesso costretti a vivere condizioni e rapporti con la realtà molto diversificati e dunque anche a processi mentali e pratiche molto diversificati.
La divaricazione tra elaborazione teorica e pratica politica e sociale che abbiamo spesso registrato al nostro interno ha questa radice molto concreta che non si è trasformata in contraddizione politica grazie alla “disciplina” di organizzazione che è stata seguita, anche qui, nel metodo di discussione e di verifica con la realtà che ci ha permesso di superare molti tornanti complicati che si sono manifestati nel corso della nostra storia. Oggi questa difficoltà non è ancora superata ma indubbiamente i processi generali di politicizzazione/centralizzazione/velocizzazione stanno modificando la nostra condizione facilitando una ricomposizione dei tre fronti di lavoro che permette anche una maggiore e progressiva omogeneizzazione delle chiavi di lettura e dei processi decisionali nella Rete dei Comunisti.
Questo nostro approccio trova un supporto ed esplicazione nel testo scritto da Lenin su “Karl Marx” pubblicato sul nostro sito della RdC e più precisamente nel capoverso su “La Dialettica”: “Marx ed Engels consideravano la dialettica hegeliana come la più completa, la più profonda e la più ricca dottrina dell’evoluzione, come la più grande conquista della filosofia classica tedesca. Tutte le altre formulazioni del principio dello sviluppo, dell’evoluzione, essi le ritenevano unilaterali, povere di contenuto, tali da deformare e mutilare il reale processo di sviluppo (spesso contrassegnato da salti, catastrofi, rivoluzioni) nella natura e nella società. “Marx ed io siamo stati presso a poco i soli a salvare dalla filosofia idealistica tedesca” (dalla rovina dell’idealismo, quello hegeliano compreso) “la dialettica cosciente e a trasferirla nella concezione materialistica della natura e della storia.” “La natura è il banco di prova della dialettica e noi dobbiamo dire a lode delle moderne scienze naturali che esse hanno fornito a questo banco di prova un materiale estremamente ricco” (e questo è stato scritto prima della scoperta del radio, degli elettroni, della trasformazione degli elementi ecc.!) “che va accumulandosi giornalmente e che di conseguenza esse hanno dimostrato che, in ultima analisi, la natura procede dialetticamente e non metafisicamente.”
“La grande idea fondamentale – scrive Engels – che il mondo non deve essere concepito come un complesso di cose compiute, ma come un complesso di processi, in cui le cose in apparenza stabili, non meno dei loro riflessi intellettuali nella nostra testa, i concetti, attraversano un ininterrotto processo di origine e di decadenza… questa grande idea fondamentale è entrata così largamente, specie dopo Hegel, nella coscienza comune, che in questa sua forma generale non trova quasi più contraddittori. Ma riconoscerla a parole, e applicarla concretamente nella realtà, in ogni campo che è oggetto di indagine, sono due cose diverse”.
“Per la filosofia dialettica non vi è nulla di definitivo, di assoluto, di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la caducità e null’altro esiste per essa all’infuori del processo ininterrotto del divenire e del perire, dell’ascensione senza fine dal più basso al più alto, di cui essa stessa non è che il riflesso nel cervello pensante.” Dunque, la dialettica è, secondo Marx, ”la scienza delle leggi generali del movimento, così del mondo esterno come del pensiero umano”.
Marx accolse e sviluppò questa parte rivoluzionaria della filosofia di Hegel. Il materialismo dialettico “non ha più bisogno di nessuna filosofia che stia al di sopra delle altre scienze”. Della precedente filosofia rimane “la dottrina del pensiero e delle sue leggi, cioè la logica formale e la dialettica”. E la dialettica, nella concezione di Marx, e anche in quella di Hegel, contiene in sé quella che oggi chiamiamo teoria della conoscenza o gnoseologia, la quale pure deve considerare il proprio oggetto storicamente, studiando e generalizzando l’origine e lo sviluppo della conoscenza, il passaggio dalla non-conosceza alla conoscenza.
Ai giorni nostri l’idea di sviluppo, di evoluzione, è entrata quasi generalmente nella coscienza sociale, ma non per tramite della filosofia di Hegel, bensì per altre vie. Tuttavia quest’idea, come l’hanno formulata Marx ed Engels basandosi su Hegel, è molto più completa e ricca di contenuto dell’idea corrente di evoluzione. Uno sviluppo che sembra ripercorrere le fasi già percorse, ma le ripercorre in modo diverso, a un livello più elevato (“negazione della negazione”); uno sviluppo, per così dire, non rettilineo ma a spirale; uno sviluppo a salti, catastrofico, rivoluzionario; “l’interruzione della gradualità”; la trasformazione della quantità in qualità; gli impulsi interni dello sviluppo, generati dalle contraddizioni, dagli urti tra le diverse forze e tendenze operanti sopra un dato corpo oppure entro i limiti di un dato fenomeno o nell’interno di una data società: l’interdipendenza e il legame più stretto e indissolubile tra tutti i lati di ogni fenomeno (e la storia mette in luce lati sempre nuovi), legame che genera un processo di movimento unico, universale, sottoposto a leggi: tali sono alcune caratteristiche della dialettica, dottrina dello sviluppo che è più ricca di contenuto delle dottrine correnti. (Cfr. la lettera di Marx a Engels dell’8 gennaio 1868, nella quale sono derise le “tricotomie rigide” di Stein, che sarebbe assurdo confondere con la dialettica materialistica).” In questo intervento si vede come concretamente come alcune questioni di fondo, quali l’approccio dialettico e la teoria della conoscenza, ci si ripropongono oggi, in modalità, forme e contesto diversi già nello scritto di Carchedi su “lavoro mentale e classe operaia”.
Venendo ad una valutazione delle condizioni attuali possiamo dire che abbiamo da affrontare un doppio passaggio della situazione; a) uno oggettivo e generale che abbiamo cominciato a definire con i forum del 2016 individuando una netta rottura con le condizioni avute fino all’esplosione della crisi finanziaria del 2008 che continua a modificare “l’ambiente” determinatosi dopo la fine dell’URSS e del campo socialista; b) l’altro soggettivo di modifica del nostro ruolo che rimette in discussione modalità d’analisi, di valutazione, di relazioni che non sono errate ma che si mostrano in via di superamento dalle due modifiche che abbiamo accennato e sulle quali ancora non c’è da parte nostra una chiara coscienza ne è chiaro il modo di procedere sul piano della modifica dei nostri comportamenti. Questa presa d’atto delle mutazioni non è una questione secondaria ma è centrale per metterci in condizione di adeguarci al contesto in evoluzione che lascerà inevitabilmente indietro chi non sarà in grado di individuarne i caratteri e le inevitabili modifiche conseguenti.
Per entrare nel merito va riconfermato molto chiaramente a tutti i militanti dell’organizzazione che oggi si pone con priorità e nettezza la questione del metodo.
Se è vero che l’impianto analitico delle dinamiche oggettive ha fino ad ora funzionato e probabilmente dovrà ancora essere utilizzato, adeguandolo, nelle analisi sul passaggio storico che abbiamo cominciato ad affrontare va detto che arriviamo a questo appuntamento con diversi approcci, metodi e valutazioni dei singoli militanti, a partire dai partecipanti alla segreteria. Anche in questo ambito di sintesi generale complessiva ognuno si trascina dietro le proprie attitudini personali, spesso inespresse politicamente, che sono il sintomo di una percezione e sensibilità non omogenee. Tale condizione soggettiva diversificata nel nuovo livello di impegno che si impone rischia di essere un ostacolo foriero di contraddizioni nel momento in cui dobbiamo saper fare un passaggio che deve essere a tutti gli effetti collettivo.
Un passaggio di metodo sugli strumenti di analisi che è propedeutico alla omogeneizzazione anche delle modalità di relazioni politiche e di intervento che sono la diretta conseguenza della definizione di un nostro unitario metro di misura della realtà.
Se questa necessità è reale va detto subito che le questioni che ci si pongono non sono affatto semplici ne per le nostre capacità intellettuali, ne per la nostra esperienza concreta, ne per le questioni che di per se impongono. Riguardano infatti la concezione della realtà cioè un versante filosofico che è stato sempre presente nel pensiero del movimento comunista e che oggi pur se di difficile contestualizzazione va ripreso. Per questo i testi di formazione che vengono proposti vanno visti come inizio di un processo complesso, possibilmente non impreciso come siamo spesso abituati a fare e che per ora non ci può portare direttamente a delle “verità assolute” ma solo a “verità relative” che vanno maneggiate con la dovuta cautela e attenzione.
Questo però non significa che possiamo sottovalutare o rinviare un confronto che ormai ha il carattere dell’attualità per il nostro operare, individuale e collettivo, e condizione, anche se questo terreno è fuori della nostra esperienza pratica ma anche di tutti i comunisti per quanto ci risulti, almeno nel nostro paese.
Se questa costruzione è un problema direttamente nostro non possiamo perciò dimenticare che la questione riguarda tutto l’ambito dei comunisti e della sinistra di classe e dunque dobbiamo comunque concepire un percorso che tenga conto anche del contesto e delle necessità politiche esterne alla RdC.