Giacomo Marchetti
In Algeria la protesta non si placa nonostante la rinuncia dell’attuale presidente in carica, Bouteflika – ottuagenario e in uno stato di salute precaria da anni – a non ricandidarsi alle prossime elezioni presidenziali previste per il 18 aprile.
L’appuntamento elettorale è stato rinviato a data da destinarsi, mentre l’attuale presidente rimarrà in carica fino a che queste non si saranno svolte.
“Volevamo una elezione senza Bouteflika, abbiamo Bouteflika senza elezione”, ironizzava un manifestante il giorno dopo l’annuncio dell’attuale presidente. Sia martedì che mercoledì le mobilitazioni non si sono affievolite, e hanno reso evidente quanto la soluzione prospettata dall’attuale classe dirigente non rifletta le istanze della popolazione, poco propensa a dare fiducia a questa manovra “gattopardesca” dell’establishment, tesa a prefigurare un processo di transizione gestito dalle attuali trame di poteri e alieno da quel desiderio di “democratizzazione” fin qui espresso, peraltro senza tempi assolutamente certi.
Lo sciopero generale “spontaneo” – iniziato domenica – ha riguardato differenti città con esiti diversi e si è sviluppato in vari settori, dalle aziende di trasporto ai porti, dal commercio di prossimità ad alcune importanti realtà industriali e dei servizi. Mercoledì sono scesi in piazza gli insegnanti per le manifestazioni dichiarate già la settimana scorsa dai sei sindacati di categoria, sfilando ad Algeri insieme agli studenti, con i centri delle maggiori città (Orano, Costantine, Tizi-Ouzou, Relizane, Guelma, Clef, Mascara, Mostaganem, Setif,…) che sono state teatro di mobilitazioni partecipate di carattere politico.
Gli studenti, che in Algeria sono un milione e settecentomila, sono stati l’asse portante delle mobilitazioni ed hanno reagito al goffo tentativo di far scemare il movimento anticipando le vacanze questa domenica – chiudendo contestualmente tutti i servizi per gli universitari “fuori sede” che studiano nella capitale – con nuove iniziative di lotta che hanno nelle facoltà il loro centro organizzativo e propulsivo. La loro mobilitazione fa evaporare le narrazioni sul presunto processo di de-politicizzazione delle fasce giovanili e sulla supposta cronica rassegnazione, tesa solo a cercare vie di fuga dalla propria condizione, che sia l’immigrazione clandestina via mare o la vaga possibilità di studiare all’estero.
La gioventù algerina, impregnata dai valori che hanno caratterizzato la cultura politica dalla lotta di liberazione, vuole costruire le condizioni per vivere dignitosamente nel loro paese, riacquisendo quella sovranità popolare che era la principale utopia della battaglia anticoloniale.
La leggendaria combattente della Lotta di Liberazione Nazionale, Djamila Bouhired, ha scritto un commovente appello pubblicato dal quotidiano “El Watan” in cui invita i giovani a continuare nella lotta, che per lei è la continuazione ideale di quella a cui ha direttamente partecipato contro il colonialismo francese. In questo contesto i differenti attori globali stanno giocando la propria parte per cercare di piegare ai propri fini l’attuale crisi politica, e far rientrare l’Algeria dentro la propria orbita di interessi ed influenza, nel mentre il Paese sta avendo una relazione sempre più privilegiata con la Cina a differenti livelli.
Lo scorso 4 febbraio, l’Algeria ha aderito alla Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture, un istituto bancario multilaterale creato nel 2016, con base a Pechino, che ha come missione l’intervenire nei paesi membri, investendo principalmente in infrastrutture durevoli, così come nei settori produttivi che permetterebbero una diversificazione produttiva in grado di sottrarre il paese dall’attuale condizione.
Il 4 settembre scorso era stato firmato a Pechino un memorandum d’intesa cino-algerino che avrebbe spianato la strada – parafrasando le parole dell’allora primo ministro – ad una ampia collaborazione tra i due paesi. Il possibile “indebitamento” internazionale a cui potrebbe ricorrere l’Algeria, in questa difficile congiuntura economica, data principalmente dalle conseguenze dirette ed indirette del calo del prezzo del petrolio – principale risorsa energetica del paese –, potrebbe aprire le porte a tre scenari.
Così dice chiaramente un articolo di approfondimento del canale informativo “TVA”: “In sostanza ci sono tre piste differenti che sono più spesso evocate. Sono sintetizzate da uno specialista algerino: per l’indebitamento, che sarà ineludibile nei prossimi mesi, i dirigenti algerini hanno la scelta tra il ricorso al Fondo Monetario Internazionale, all’Unione Europea o alla Cina.”
Chiaramente l’inasprirsi della competizione globale e i suoi riflessi sul piano geo-politico, anche a livello militare, rendono l’Algeria un paese centrale nelle strategie di penetrazione imperialista nel Maghreb, anche in ragione dell’importante profilo che ha il suo esercito – prevalentemente equipaggiato con dispositivi d’arma russi e che svolge una funzione importante di lotta allo “jihadismo” nell’area (lungo il confine tunisino e nella frontiera sub-sahariana) – e il suo bacino di giovane forza-lavoro istruita ed urbanizzata, oltre che per le sue risorse energetiche e la possibilità di sfruttamento del gas di scisto. La posta in gioco quindi per il popolo Algerino è doppia, ma solo sfuggendo alle lusinghe interessate dell’Unione Europa e degli USA potrà definire una prospettiva di trasformazione che coniughi le istanze sociali con quelle politiche e che rifugga dai tentacoli neo-colonialismo. La mobilitazione ha precisi riflessi in tutta l’area, visto l’importanza del Paese, da cui i movimenti progressisti in Marocco ed in Tunisia sembrano prendere ispirazione ed identificarsi. Il quarto venerdì di protesta previsto per questa settimana sarà un banco di prova per comprendere il futuro di questa lotta che ha reintrodotto l’azione popolare collettiva come fattore significativo della dialettica storica e riaprendo un orizzonte di cambiamento che sembrava essersi chiuso.