Introduzione a Contropiano anno 28 n° 1 – marzo 2019 Metodo. Formazione. Organizzazione
Benché sia una storia tutta da scrivere, queste brevi note vogliono iniziare una riflessione di carattere storico e teorico sul tema della formazione politica, che oggi ci sembra più che mai necessaria. Le affermazioni qui contenute non pretendono affatto di esaurire il discorso, e sono evidentemente e inevitabilmente suscettibili di revisioni.
C’è un nesso organico tra organizzazione e formazione. Ogni organizzazione seriamente pensata ha una sua formazione specifica. La formazione è un momento interno all’organizzazione, che è a sua volta un momento del complesso e mutevole rapporto storico e dialettico tra teoria e prassi, tra finalità e soggettività. È per questa ragione che una riflessione teoricamente e storicamente fondata ha bisogno di collegare gli indirizzi formativi sviluppati con le forme dell’organizzazione messe in atto, e collegare queste all’intero ordine dei problemi storici postisi via via alle organizzazioni comuniste e proletarie in generale.
Storicamente il nesso formazione-organizzazione è stato modulato in modo diverso, ovviamente, in base a diversi fattori.
Solo per elencarne alcuni: l’idea di organizzazione si ha in mente (di agitatori, di cospiratori, di quadri, di quadri militanti, di massa, ecc.); il contesto storico in cui ci si trova ad operare (fase di costruzione in ascesa, fase rivoluzionaria, fase di resistenza, fase di ricostruzione dopo una forte sconfitta storica); il contesto socioeconomico in cui ci si trova a lavorare (quali sono le classi o i settori di classe da organizzare e più disponibili alla lotta: operai, contadini, lavoratori non sindacalizzati, frammentazione di classe, ecc.); i rapporti di forza esistenti; la parte del mondo in cui ci si trova a lottare (paese imperialista, sub-imperialista, periferico, coloniale, ecc.); la fase dello sviluppo capitalistico (imperialismo unico, competizione interimperialistica, ecc.); l’aspetto del lavoro politico che si intende privilegiare (legale, illegale, legale-illegale, militare, sindacale, propagandistico di massa, ecc.); la teoria al momento storico esistente.
L’importanza di questo nesso e la sua modulazione via via più approfondita assumono un peso crescente man mano che si va dal periodo della Prima fino a quello della Terza internazionale. Inizialmente, in linea generale si può dire che la formazione avveniva su due linee giustapposte: la formazione ideologica e quella pratica, in re. La prima puntava molto sulla teoria (l’analisi della società capitalistica, la strategia per il socialismo, a un certo punto il “marxismo” come complesso di concetti correlati e sistematizzati); la seconda aveva a che fare con la pratica quotidiana delle lotte e delle organizzazioni dei lavoratori. Questi due aspetti hanno storicamente attraversato una fase di avvicinamento fino ad arrivare alla riflessione leniniana, che ne ha modificato il rapporto, in qualcosa di vivo e mobile. Anticipando un po’ l’esposizione, va rilevato che i due elementi stabiliti nel Che fare?, la critica allo spontaneismo e la concezione della coscienza di classe proveniente dall’esterno, sono il risultato storico di questo processo di avvicinamento. La teoria non è un insieme di nozioni, ma la visione complessiva dello sviluppo sociale, del suo sviluppo storico carico di contraddizioni (certo mai colto del tutto e in via definitiva, ma per approssimazioni). Questa visione manca allo spontaneismo, proprio perché riproduce immediatamente (riflesso passivo) le contraddizioni sociali. Per questa ragione, per quanto fondamentale, la formazione in re (ossia quella che i militanti e i quadri acquisiscono stando nelle lotte, come si usa dire), non può bastare per un’organizzazione comunista, perché rischia di riprodurre quelle contraddizioni della vita sociale e quegli schematismi burocratici tipici del capitalismo, come ad esempio la specializzazione [1]. In questo senso si capisce perché l’organizzazione sia la mediazione dialettica tra visione complessiva dello sviluppo sociale (teoria) e manifestazione concreta delle contraddizioni (lotte o, in contesto diverso, passività sociale).
Dalla Prima alla Seconda Internazionale: dalla formazione popolare alla formazione di quadri.
Nascono le prime scuole L’unificazione e l’articolazione di teoria e prassi rivoluzionaria era già stata affermata da Engels nel celebre scritto La guerra dei contadini in Germania in cui egli aveva affermato: «Si deve riconoscere che gli operai tedeschi hanno sfruttato con rara intelligenza la loro posizione vantaggiosa. Infatti, per la prima volta dacché esiste il movimento operaio, la lotta viene condotta unitariamente, coerentemente e secondo un piano che si svolge su tre linee: teorica, politica e pratico-economica (resistenza ai capitalisti). La forza e l’invincibilità del movimento tedesco sta precisamente in questo attacco che potremmo dire concentrico» [2]. L’articolazione delle tre linee (i tre fronti) gettava le basi di quel lavoro di connessione organica che avrebbe portato Lenin a scrivere il Che fare?. Ma era altresì un modo per superare le forme ancora incerte della formazione politica della classe operaia, basata ancora su scuole di alfabetizzazione e formazione culturale.
Non si tratta, come è ovvio, di criticare ex-post le forme che il movimento operaio si è dato nel suo lungo percorso di soggettivazione che lo ha portato ad essere classe per sé. Si tratta piuttosto di evidenziare come la trasformazione storica delle organizzazioni sia il frutto di processi storici e dell’intervento mediatore della riflessione. Si tratta di sviluppo, cioè di intervento cosciente, non di “evoluzione naturale” delle forme organizzative.
Scrive Franco Andreucci: «A lungo […] la “politica culturale” del movimento operaio rimase confinata nel chiuso di una cultura subalterna e improvvisata, caratterizzata dallo scientismo, dal mito primitivo del progresso, da un gusto per l’informazione indifferenziata ed eclettica che caratterizzava molte “Università popolari” e la rete delle “cattedre ambulanti”. Il passaggio da una cultura di tipo enciclopedico a scelte consapevolmente pilotate non si verificò mai in modo deciso, ma una trasformazione cominciò ad attuarsi quando, con la crescita e lo sviluppo del partito politico, si pose il problema della formazione dei quadri» [3].
Nel periodo della Seconda Internazionale, dunque, si pose il problema di superare le forme popolari di formazione politica (benché esse siano sopravvissute, in un modo o in un altro, fino a un tempo non tempo non troppo remoto e forse sopravvivono in altre parti del mondo), si pose cioè il problema dello studio teorico approfondito, al di là della (seppure necessaria) volgarizzazione della teoria, al fine di formare degli individui capaci di diffondere la teoria. In questo frangente, la figura del propagandista diventa centrale nelle organizzazioni.
Sempre Andreucci scrive: «Fin dagli anni ‘70, prima ancora delle leggi antisocialiste, esisteva tutta una rete di istituzioni culturali (molte di esse erano addirittura state fra i nuclei originari dell’organizzazione politica), circoli di lettura, biblioteche operaie, cattedre ambulanti, che garantivano agli operai socialdemocratici la possibilità di elevare le loro conoscenze e di affinare la loro coscienza politica. Ma, ciò è che più significativo, esistevano forme di attività specificamente dedicate alla formazione di agitatori e propagandisti».
Si passò insomma dalla formazione popolare a quella dei quadri. A questo passaggio corrispose un’evoluzione della struttura delle organizzazioni proletarie. Nacquero così le prime scuole di formazione, che ebbero ancora fino all’inizio del secolo un carattere locale e scoordinato.
Nel 1905 il Congresso di Jena della Socialdemocrazia tedesca decise un’unificazione nazionale dell’attività culturale e di formazione dei quadri.
L’anno seguente nacque la sezione centrale per la cultura e la scuola di partito, cui parteciparono come insegnanti Rudolf Hilferding, Rosa Luxemburg, Anton Pannekoek, Heinrich Cunow, Franz Mehring (che scrisse tra l’altro la prima biografia di Marx).
La forma politica della propaganda ha certamente avuto il merito di diffondere in tutto il mondo il marxismo, divenuto ormai l’universo teorico di riferimento: «Il marxismo era il centro, l’elemento ideologico unificatore di questo insieme di attività culturali e di formazione dei quadri che interessava, in forme e con metodi organizzativi diversi, tutto il movimento socialista. Il fatto stesso che il marxismo fosse insegnato in corsi scolastici a fini esplicitamente pratici, ideologici, di propaganda, portava con sé evidenti forme si semplificazione e di volgarizzazioni» [4]. La maggior parte della formazione di massa passava per la maggior parte attraverso il canale della tradizione orale, della conferenza, del comizio, mentre quella dei quadri dalla parola scritta prevalentemente, attraverso giornali, libri e opuscoli.
Se le scuole di partito, attraverso la formazione di propagandisti, all’esterno diedero grande impulso alla diffusione e alla popolarizzazione del marxismo, consentendo la creazione di un coeso tessuto culturale e politico tra le masse, all’interno delle organizzazioni esse però riflettevano la pluralità di tendenze delle organizzazioni socialdemocratiche al tempo della Seconda Internazionale.
Poiché esse infatti si proponevano come collettore unitario di tutti gli aderenti al socialismo al fine della crescita elettorale, raccoglievano varie tendenze politiche (frazioni) al proprio interno, per cui le scuole furono più uno strumento della lotta politica interna, che uno strumento per la costruzione di una soggettività coesa e omogenea.
Del resto, la lotta ideologica, portata avanti anche attraverso le scuole di partito, era in un certo qual modo storicamente inevitabile. Come si è detto, esse furono lo strumento di diffusione del marxismo come “ideologia” ufficiale della Seconda Internazionale, sostituendo l’influenza che il pensiero di Lassalle esercitava ancora dentro le organizzazioni operaie e socialiste [5].
Tuttavia, ciò che viene denominato marxismo (o marxismo ortodosso della Seconda internazionale), fu esso stesso una “popolarizzazione” data dallo stesso Engels a partire dall’Anti-Dhüring, scritto nel 1878.
Senza volere entrare nel merito delle teorie in esso contenute, è un fatto storico accertato che esso diventò la chiave di lettura dell’intero pensiero marxiano letto come un tutto unitario e con una forte tendenza evoluzionistica (e questo anche per il forte impulso del pensiero darwiniano allora fortemente assorbito e spesso diffuso nelle scuole di partito). Karl Kautsky aveva più volte ribadito che l’opera engelsiana aveva contribuito alla comprensione del marxismo più di qualsiasi altro libro [6].
Questa forma particolare di marxismo divenne l’ideologia ufficiale della Socialdemocrazia tedesca e, per mezzo di essa, di quasi tutti i paesi europei, con le poche eccezioni dell’Italia e Russia, dove i maggiori teorici del tempo (rispettivamente Labriola e Plechanov) avevano alle spalle una frequentazione col pensiero hegeliano che gli aveva permesso di mettersi al riparo dalla concezione evoluzionista e crollista su cui si era fondato quell’atteggiamento generale della Seconda Internazionale definito “attendismo rivoluzionario”.
Questa concezione era stata alimentata dalla crisi del capitalismo internazionale nota come Grande Depressione. In quel contesto, venne a maturazione l’idea che la via parlamentare al socialismo avrebbe di fatto alimentato le fila della Socialdemocrazia al punto tale che, al momento opportuno, sarebbe bastato dare il colpo finale alla società capitalista. Ma quando alla crisi si rispose con l’espansione imperialista, la prospettiva del crollo sfumò e le organizzazioni socialdemocratiche arrivarono impreparate alla Prima Guerra Mondiale, che fu per tutti, come disse Thomas Mann nella Montagna incantata, un fulmine a ciel sereno [7].
La crisi del marxismo ortodosso della Seconda Internazionale, l’intervento della soggettività, la centralità dei quadri-militanti
L’imperialismo e la guerra misero definitivamente in crisi quella versione del marxismo. La ripresa del vero marxismo passò da quel momento in poi nuovamente dalla lotta teorica e qui le scuole di formazione tornarono ad essere un’altra volta strumento di battaglia. Non è senza significato che tra i maggiori teorici del marxismo del tempo ci furono Rosa Luxemburg e Lenin. Benché divisi da forti divergenze, entrambi però volevano slegare l’attività rivoluzionaria delle masse dallo smorto attendismo socialdemocratico. L’enfasi posta sullo spontaneismo nell’una e sulla coscienza come elemento esterno dall’altro, aveva come base sociale comune la ripresa delle lotte operaie e come nuova istanza politica un maggiore peso da attribuire all’elemento attivo nella lotta di classe. Poiché l’elemento attivo doveva essere posto in primo piano, grande importanza assunse a tal fine la formazione di militanti in grado incarnare questo principio attivo. La differenza tra la Luxemburg e Lenin stava però nelle diverse tradizioni storiche di lotta dei rispettivi contesti nazionali, e non si capirebbe la critica dello spontaneismo di Lenin se non lo si collegasse all’illustre azione cospirativa della tradizione russa e alla coeva battaglia contro la corrente “economista”; né si capirebbe l’esaltazione dello spontaneismo delle masse di Rosa Luxemburg se non lo si connettesse con la lotta contro l’“attendismo rivoluzionario” della Socialdemocrazia tedesca.
È noto che la prima divisione tra menscevichi e bolscevichi nacque nel II Congresso del Partito Socialdemocratico russo, intorno a un articolo dello statuto. Secondo i menscevichi era da considerarsi appartenente al partito chi «accordava regolarmente il proprio sostegno personale sotto la direzione di una delle sue organizzazioni», mentre per Lenin l’aderente era colui che «partecipava personalmente».
La distinzione tra il “sostegno” e la “partecipazione” implicava una diversa concezione dell’attività politica: la soluzione menscevica che propendeva per una più larga rete di “attivisti” contrastava con l’impegno diretto del “militante” che Lenin aveva in mente.
Da queste due concezioni del partito emersero due diverse figure del lavoro politico.
C’è da dire che Lenin non ha mai avuto un’idea unica e rigida di organizzazione, ma cercò di adeguarla sempre al momento storico e alle condizioni sociali del momento. Come fa notare Monty Johnstone, «in Lenin […] i modelli di partito sono più di uno.
Basandosi sulle sue analisi teoriche e sulla valutazione politica delle diverse condizioni prevalenti in un dato momento in un paese particolare, Lenin favorì di volta in volta un partito ristretto di quadri o un grande partito di massa, e strutture interne che andavano dal verticismo cospirativo alla più ampia democrazia» [8]. Lo stesso Lenin ricordava come il «partito ha saputo adeguare la propria forma alle mutate condizioni, ha saputo modificarle secondo le esigenze del momento» [9]. Questa elasticità ha dato vita anche a tipi di quadri militanti diversi e, di conseguenza, a modi di formazioni differenti.
Nel periodo tra il 1905 e il 1907 il modello di partito di massa si poneva all’ordine del giorno, proprio in virtù del montante fermento rivoluzionario registrato nel movimento operaio. In un articolo del 1905 Lenin scriveva: «Dobbiamo saperci adattare a una dimensione totalmente nuova del movimento. […] Quanto più si estende il movimento popolare tanto più si rivela la reale natura delle varie classi, tanto più urgente è il compito del partito di guidare la classe, di esserne l’organizzatore, e non di trascinarsi alla coda degli avvenimenti. […] bisogna aumentare di molto gli effettivi di tutte le possibili organizzazioni del partito o fiancheggiatrici del partito, per andare in qualche modo di pari passo con il torrente di energia rivoluzionaria del popolo che è cresciuto di cento volte […] Dobbiamo spostare il centro di gravità dai metodi d’insegnamento fondati sulle pacifiche lezioni ai metodi fondati sulle operazioni di guerra. Dobbiamo reclutare con più audacia, ampiezza e rapidità giovani combattenti, scegliendoli in tutte le nostre organizzazioni. A questo scopo dobbiamo creare, senza perdere un solo istante, centinaia di nuove organizzazioni. Sì, centinaia. Non è un’iperbole. E non ditemi che ormai è «troppo tardi» per occuparsi di un lavoro organizzativo così ampio. No, non è mai troppo tardi per organizzarsi.
Dobbiamo approfittare della libertà che abbiamo conquistato per legge e strappato nonostante la legge, per moltiplicare e rafforzare tutte le organizzazioni del partito» [10].
Invece il periodo successivo al fallimento della rivoluzione del 1905, ossia nel periodo tra il 1908 e il 1912, il metodo di lavoro si regge su una rigida disciplina interna e su una forte compattezza ideologica, in lotta contro i “liquidatori” che volevano tenere in piedi il lavoro legale e affossare quello illegale. Per questo Lenin pensava che occorreva un «unico tipo giusto di edificazione organizzativa nell’epoca che stiamo attraversando […] il partito illegale, quale somma di cellule di partito attorniate da una rete di associazioni operaie legali e semilegali» [11]. Questa capacità organizzativa è ciò che ha permesso ai bolscevichi di navigare in mezzo al caos della frammentazione generale, al punto tale che un rapporto della polizia segreta zarista del 1913 ne sottolineava l’efficacia organizzativa: «La frazione leninista è sempre meglio organizzata delle altre, più risoluta nel perseguire il suo obiettivo, più ricca di iniziative nella diffusione delle sue idee tra gli operai […] Al momento attuale, l’intero partito clandestino stringe i ranghi intorno alle organizzazioni bolsceviche, divenute ormai le vere rappresentanti del partito operaio socialdemocratico russo» [12].
Fu in questo momento di illegalità che riprese vita la tradizionale scuola di partito, tesa alla formazione ideologica, e tutta declinata in senso teorico. Le scuole di partito, generaliste, rinacquero per un breve periodo (intorno agli anni ’10): i primi a metterle in piedi furono la frazione di Bogdanov (Scuola di Capri e di Bologna) e quella Lenin (Scuola di Longejumeau, vicino Parigi). La repressione aveva scombinato il partito e i quadri si dispersero. I bolscevichi di sinistra pensarono di ricostruire il corpo dei quadri. Le due scuole organizzate all’estero erano destinate a pochi futuri quadri dirigenti. Quella di Lenin, invece, aveva più che altro una funzione antiBogdanov [13].
Dopo la rivoluzione di Febbraio 1917 il partito tornò ad essere nuovamente un partito di massa e armato: l’ottobre era alle porte e la capacità organizzativa vincitrice diventerà il futuro modello delle organizzazioni comuniste delle Terza internazionale. Ancora una volta, mutava il tipo di organizzazione e cambiava il tipo di quadro necessario e la formazione relativa.
La Terza Internazionale. La bolscevizzazione dei partiti comunisti e l’ufficializzazione delle scuole di quadri
Generalmente, quando si parla di organizzazione comunista, si ha in mente un elemento che è comune alla generalità delle formazioni politiche che storicamente si sono definite tali: la compattezza. Questo elemento venne sancito nel secondo congresso della Terza Internazionale (1920), quando si affermò, nella Tesi del ruolo del partito comunista nella rivoluzione proletaria, che il partito comunista era una «compatta organizzazione della élite della classe operaia» [14]. Tralasciando la questione dell’élite della classe operaia (principio espresso, con sfumature diverse, già nel Manifesto), si noterà soltanto il problema della “compattezza” o dell’omogeneità dei componenti viene esplicitamente messo in rilievo in una Tesi cui si ispireranno tutte le altre organizzazioni comuniste. Si trattava di un principio che fondamentalmente era assente in tutte le organizzazioni proletarie della Prima e della Seconda Internazionale e che mancava alla stessa formulazione del Manifesto.
Compattezza ovviamente non significava semplice unità, poiché quest’ultima era proprio quella praticata nella Seconda Internazionale (come si è detto) e che aveva visto organizzazioni più pluraliste, ma anche più fluide dal punto di vista dell’orientamento e più deboli al momento di reggere gli urti con la storia (la guerra e la rivoluzione).
Le scuole di partito, come strumento di indirizzo ideologico e formazione, vennero formalizzate dall’Internazionale come obbligo dei partiti comunisti. Al IV congresso dell’Internazionale (1922) Lenin aveva detto: «Dobbiamo dire non soltanto ai compagni russi, ma anche ai compagni stranieri che nel prossimo periodo l’essenziale è lo studio. Noi studiamo nel senso generale della parola.
Essi invece debbono studiare in un senso particolare, per comprendere veramente l’organizzazione, la struttura, il metodo e il contenuto del lavoro rivoluzionario» [15]. L’attuazione di quanto auspicato da Lenin, avvenne al V congresso dell’Internazionale (1924), quando si pone il compito della bolscevizzazione dei partiti comunisti a livello internazionale (ma Lenin ormai non c’è più), in seguito al fallimento della rivoluzione tedesca del 1923.
Lo sviluppo del caso italiano. Da Gramsci al “partito nuovo”
In stretto riferimento con le direttive dell’Internazionale, Gramsci intorno al ’25 pensava a una scuola di partito di massa in una situazione di forte contrasto da parte del fascismo (Matteotti era stato assassinato ne ’24, l’opposizione si ritirava dal parlamento e alla fine del ’25 sarebbero state varate le leggi fascistissime, che avrebbero reso illegale lo sciopero e più tardi le stesse formazioni politiche). Si tratta di una scuola per corrispondenza, di cui è incaricato di redigere le dispense (di cui ne rimangono solo due). Il partito che aveva in mente Gramsci era un’organizzazione fatta di grandi numeri e molto strutturato su diversi livelli di responsabilità, sul modello delineato dalla Terza internazionale.
Questo permetteva di mettere insieme il dirigente con il quadro militante più basso. In ogni caso si trattava di un partito di “massa” e che poteva contare su una presenza di operai, sindacalisti e una forte inclinazione al socialismo.
Per Gramsci, i tre fronti, erano ancora uniti, pur sotto l’avvento del Fascismo: «I tre fronti della lotta proletaria si riducono a uno solo per il partito della classe operaia, che è tale appunto perché riassume e rappresenta tutte le esigenze della lotta generale. Non si può certo domandare ad ogni operaio della massa di avere una completa coscienza di tutta la complessa funzione che la sua classe è determinata a svolgere nel processo di sviluppo dell’umanità: ma ciò deve essere domandato ai membri del partito. Non ci si può proporre, prima della conquista dello Stato, di modificare completamente la coscienza di tutta la classe operaia; sarebbe utopistico, perché la coscienza della classe come tale si modifica solo quando sia stato modificato il modo di vivere della classe stessa, cioè quando il proletariato sarà diventato classe dominante, avrà a sua disposizione l’apparato di produzione e di scambio e il potere statale. Ma il partito può e deve, nel suo complesso, rappresentare questa coscienza superiore; altrimenti esso non sarà alla testa, ma alla coda delle masse, non le guiderà ma ne sarà trascinato. Perciò il partito deve assimilare il marxismo e deve assimilarlo nella sua forma attuale, come leninismo» [16]. La strutturazione dell’organizzazione, nei tempi difficili della persecuzione fascista, doveva essere fortemente centralizzata e dinamica allo stesso tempo: «Perché il partito viva e sia a contatto con le masse occorre che ogni membro del partito sia un elemento politico attivo, sia un dirigente. Appunto perché il partito è fortemente centralizzato, si domanda una vasta opera di propaganda e di agitazione nelle sue file, è necessario che il partito, in modo organizzato, educhi i suoi membri e ne elevi il livello ideologico. Centralizzazione vuol dire specialmente che in qualsiasi situazione, anche dello stato d’assedio rinforzato, anche quando i comitati dirigenti non potessero funzionare per un determinato periodo o fossero posti in condizione di non essere collegati con tutta la periferia, tutti i membri del partito, ognuno nel suo ambiente siano stati posti in grado di orientarsi, di saper trarre dalla realtà gli elementi per stabilire una direttiva, affinché la classe operaia non si abbatta ma senta di essere guidata e di poter ancora lottare. La preparazione ideologica di massa è quindi una necessità della lotta rivoluzionaria, è una delle condizioni indispensabili della vittoria» [17].
Qualche mese dopo Gramsci dovrà scrivere: «Siamo una organizzazione di lotte, e nelle nostre file si studia per accrescere, per affinare le capacità di lotta dei singoli e di tutta la organizzazione, per comprendere meglio quali sono le posizioni del nostro nemico e le nostre, per poter meglio adeguare ad essa la nostra coscienza teorica dei nostri fini immediati e supremi, e del modo come potremo riuscire a tradurli in atto. Fino a che punto questa coscienza oggi esiste nel nostro partito […]? Non ancora, crediamo noi, […] in misura adeguata al nostro sviluppo numerico.
[…] La scuola di partito deve proporsi di colmare il vuoto che esiste tra quello che dovrebbe essere e quello che è» [18]. Nelle Tesi di Lione (1926) ribadì ancora una volta la necessità dell’«innalzamento del livello ideologico del partito […] ottenuto con una sistematica attività interna la quale si proponga di portare tutti i membri ad avere una completa consapevolezza dei fini immediati del movimento rivoluzionario, una certa capacità di analisi marxista delle situazioni e una correlativa capacità di orientamento politico (scuola di partito). È da respingere una concezione la quale affermi che i fattori di coscienza e di maturità rivoluzionaria, i quali costituiscono la ideologia, si possano realizzare nel partito senza che siansi realizzati in un vasto numero dei singoli che lo compongono».
In ogni caso, quella di Gramsci apparve la prima formulazione organica per il partito e declinata per i compiti che gli si paravano davanti.
Se quella di Gramsci doveva essere una formazione di quadri con forte rapporto di massa (cellule di fabbrica) e in vista della rivoluzione, quella del “partito nuovo”, del partito ritornato alla legalità e pronto ad accogliere centinaia di migliaia di iscritti, era una formazione finalizzata al controllo delle casematte piuttosto che alla rivoluzione. La scuola politica del PCI era sicuramente la più articolata che si era vista fino ad allora e ha dovuto affrontare prima di tutto l’alfabetizzazione politica di molti quadri, specie di origine proletaria. In una situazione di legalità e di assenza di processi rivoluzionari, quella del partito nuovo fu qualcosa che per molti aspetti ricordava la formazione degli inizi, quella della Prima e Seconda Internazionale, proprio per il carattere di massa (per estensione superiore a quella del tempo di Gramsci) che intendeva avere. Andrea Pozzetta così descrive quel momento storico: «All’indomani della Liberazione la politica di reclutamento di massa e il modello strategico del “partito nuovo” determinano, all’interno del Pci, quel tumultuoso afflusso di nuovi iscritti efficacemente descritto da Renzo Martinelli come un «vero e proprio “affollamento” di operai e contadini».
La caotica espansione quantitativa di un partito che intende essere popolare e nazionale, se da un lato rappresenta un fondamentale punto di forza e garanzia di sopravvivenza politica, pone anche un’urgente problematica di ordine organizzativo: occorrono nuovi quadri direttivi, preparati agli inediti compiti politici in un contesto di legalità e in grado di gestire un efficiente apparato di attivisti e funzionari […] Per la prima volta, inoltre, il Pci ha la possibilità di legare la prassi della scuola di partito a istituti collegiali veri e propri, dotati di sedi opportune e di un apparato educativo preposto. Da corsi e occasioni didattiche di tipo congiunturale, privi di finalità strategiche a lungo termine, le scuole di formazione politica divengono istituzioni definite, in grado di raggiungere non più un numero limitato di allievi ma di rivolgersi, potenzialmente, all’intera struttura di massa del partito» [19].
Il problema che si poneva era dunque quello della formazione come strumento di consolidamento e di crescita qualitativa dell’organizzazione per affrontare i problemi che il partito di massa e di quadri avrebbe dovuto affrontare. Certamente, quella del PCI è la classica scuola di partito, generalista, affrontata come una vera e propria scuola, con tanto di valutazione dei singoli partecipanti (le pagelle, i voti, i consigli orientativi). Ma nel gennaio del ’49 Togliatti scrisse a tal proposito: «Lo so che si dice di solito, che non è la scuola che forma i quadri dirigenti di Partito, è vero, i quadri dirigenti di Partito si formano nella lotta vera, però, anche il migliore dei combattenti, anche il migliore dei quadri che si sia formato nel combattimento ha bisogno per essere un vero dirigente […] di aggiungere una formazione ideale, una formazione dottrinale, una formazione ideologica» [20].
Il caso cinese. Una formazione di massa e rivoluzionaria
Un’altra esperienza di formazione di quadri di massa è la straordinaria e capillare operazione di formazione ed educazione politica e rivoluzionaria operata dal Partito Comunista Cinese. Non è nemmeno pensabile in questo contesto riassumere le caratteristiche di questa variegata operazione di formazione politica. Possiamo provare a dare alcune indicazioni di lettura. La prima è che quella formazione di massa, popolare, avvenne in un contesto di rivoluzione, di forte partecipazione e inclinazione popolare alla lotta, alla rivoluzione, che la distingue da quella formazione di massa che il PCI ha messo in piedi dopo la Secondo Guerra mondiale, nel contesto di legalità e di abbandono della lotta armata: non staremo qui a riprendere l’infinita discussione sull’opportunità di quella scelta, in questo momento ci interessa sottolineare che la formazione non è una questione astratta e formalistica, ma è legata alle scelte politiche strategiche (e non tattiche), al contesto locale della forza comunista in cui si trova ad operare e, in ultima istanza, ai rapporti di forza a livello internazionale.
Per quanto non possiamo fare affidamento a nessuno studio esistente in merito (stando alle nostre conoscenze), possiamo dire che probabilmente il Partito comunista cinese, per opera dello stesso Mao in particolar modo, è stata l’organizzazione comunista che più di tutte ha prestato particolare attenzione alla formazione politica a tutti i livelli: dirigenti, quadri, militanti, masse contadine, soldati, insegnanti, intellettuali, operai, ecc. Ogni volta che il corpo dell’organizzazione si allargava incorporando un ulteriore pezzo di massa popolare da organizzare, si poneva il compito della sua formazione ideologica e pratica. Gli strumenti privilegiati, in contesti numerici di questa portata, erano la propaganda e le assemblee dei settori di massa organizzati. Ma, da non dimenticare, ciò avveniva nel corso di una lotta fatta a suon di fucili, ossia in un contesto di violenta lotta rivoluzionaria (il che, ovviamente, non significava che “i fucili” avrebbero risolto il problema dell’organizzazione) [21].
In un discorso del 1943 (Sullo scioglimento dell’Internazionale comunista), Mao affermava: «il Partito Comunista Cinese è passato attraverso tre movimenti rivoluzionari.
Questi movimenti rivoluzionari sono stati continui, ininterrotti e straordinariamente complessi, più complessi perfino della rivoluzione russa. Nel corso di questi movimenti rivoluzionari, il Partito Comunista Cinese ha forgiato dei propri eccellenti quadri rivoluzionari, ricchi di esperienza personale» [22]. La complessità di quel processo rivoluzionario ha dovuto modulare diversamente la formazione dei propri dirigenti, quadri e militanti di base.
Diversa era dunque la formazione se si attraversava un periodo rivoluzionario scandito dal suono dei fucili o se si svolgeva nel lento processo di edificazione (“trasformazione” è la parola più utilizzata da Mao) socialista della società cinese; e tanto più radicata era l’antica società cinese, sia nelle strutture sociali che in quelle mentali, tanto più intensa era la necessità di formazione dei quadri organizzativi.
Una necessità che, addirittura, se non ben modulata e se vissuta in senso formalistico, si trasformava in un eccesso burocratico. Non è un caso, che nel 1955, tra i cinque “eccessi” denunciati all’interno della vita organizzativa del partito, Mao inseriva anche quello “formativo” [23]. Il che evidenzia lo stretto legame tra scelte strategiche, situazione storico e sociale del contesto dove ci si trova ad operare e organizzazione della soggettività politica.
Qualche considerazione finale
L’excursus storico che abbiamo cercato di abbozzare, sulla base degli studi esistenti a noi noti, ha cercato di mostrare il nesso organico che c’è tra il modello di organizzazione prescelto, la figura o le figure di quadri che ne costituiscono l’ossatura e la formazione atta alla loro creazione.
Si tratta ovviamente di un percorso per esempi storici che non ha toccato minimamente il presente delle varie organizzazioni comuniste esistenti oggi nel mondo; tuttavia, quanto abbozzato in queste pagine costituisce una linea di ricerca e di approfondimento per il futuro prossimo.
Ci si è limitati in questa sede a mettere in evidenza come il momento storico, le specificità particolare dei singoli contesti geografici nonché la teoria di riferimento ritenuta adeguata abbiano costituito la base per ogni ragionamento sul tipo di organizzazione e di formazione da adottare.
Non sfugge ovviamente che la maggior parte degli esempi riportati si è verificata in una condizione storica che a noi oggi manca, ossia la “presenza di classe” per sé, per utilizzare un’espressione di Giorgio Gattei [24]. Oggi siamo davanti al punto più basso della storia del movimento proletario e delle sue organizzazioni (almeno in Europa, sicuramente in Italia). L’“assenza di classe”, cioè il suo mancato autoriconoscimento, è una condizione che costringe le organizzazioni che comunque vogliono mantenere un rapporto con la classe a ripensare forme e metodi dell’organizzazione e della formazione.
Impone di pensare in maniera organica, non dottrinaria, il rapporto tra i tre fronti, quale da Engels in poi si è fatto.
Ma induce anche i militanti delle stesse a dover riflettere in prima persona e in quanto corpo collettivo al problema dell’organizzazione nei tempi e nelle condizioni in cui si è costretti a vivere e a operare. La necessità di tenere distinti e non sovrapposti i tre fronti deve fare i conti oggi con due problemi tra loro connessi: la tendenza alla riunificazione e il problema dello specialismo come costume adottato fino ad ora, il quale, se non ulteriormente ripensato, rischia di trasformarsi da elemento attivo in elemento passivo, e impedire in maniera irriflessa il riavvicinamento.
Il lavoro sul metodo che in questa sede stiamo presentando, che si pone come avvio di una riflessione più lunga e che deve coinvolgere il corpo dell’organizzazione, ha lo scopo precipuo di richiamare alla responsabilità collettiva il corpo dell’organizzazione a confrontarsi con i nodi nel nostro presente storico.
NOTE
[1] ↑ Su questo problema e sul burocratismo come “riflesso passivo” immediato si consiglia la lettura della prima parte del saggio di G. Lukács, Tribuno di popolo o burocrate? [1940] in Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, Torino 1956, disponibile anche al seguente link: https://gyorgylukacs.wordpress. com/2019/02/17/tribuno-di-popolo-o-burocrate/ : «Per il capitalismo stesso la burocrazia è invece un fenomeno indispensabile, un necessario risultato della lotta di classe. Essa è una delle prime armi della borghesia in lotta contro il sistema feudale, e diviene tanto più indispensabile, quanto più la borghesia è costretta a difendere il proprio dominio contro il proletariato e i suoi interessi entrano in aperto contrasto con quelli delle masse lavoratrici. Il burocratismo è quindi un fenomeno fondamentale della società capitalistica».
[2] ↑ F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, Edizioni Rinascita, Roma, 1949, pp.24-25. Disponibile anche al seguente link: https://www.resistenze.org/sito/ ma/di/ce/mdce9m20.htm.
[3] ↑ Cfr. F. Andreucci, La diffusone e la volgarizzazione del marxismo, in A.A.V.V., Storia del marxismo, vol. 2, Il marxismo nell’età della Seconda Internazionale, Einaudi, Torino 1979, p. 34.
[5] ↑ Cfr. H.-J. Steinberg, Il partito e la formazione dell’ortodossia marxista, in A.A.V.V., Storia del marxismo, cit., vol . 2.
[8] ↑ M. Johnstone, Il partito leninista d’avanguardia, in A.A.V.V., Storia del marxismo, cit., Il marxismo della Terza Internazionale, vol. 3, tomo I, p. 302.
[9] ↑ Lenin, Come V. Zasulic uccide il liquidatorismo [1913] Opere complete, vol. 19, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 370.
[10] ↑ Lenin, Nuovi compiti e nuove forze [1905] in Opere complete, cit., vol. 8, pp. 131-132.
[11] ↑ Id., Comunicato e risoluzioni della riunione del Comitato Centrale del POSDR con funzionari del partito [1913] in Opere complete, cit., vol 18, p. 438.
[12] ↑ Citato in M. Johnstone, Il partito leninista d’avanguardia, cit., p. 324.
[13] ↑ Cfr. J. Scherrer, Bogdanov e Lenin: il bolscevismo al bivio, in A.A.V.V., Storia del marxismo, cit., vol. 2, p. 513: «nel 1911 […] – per le sue convinzioni sull’agitazione e la propaganda – Lenin riteneva che in quel momento la possibilità legale della formazione dei quadri fosse assicurata dalla tribuna della Duma assai più che dalle scuole di partito, che gli parevano praticamente irrealizzabili, lontano dalla Russia e nelle condizioni più difficili dell’emigrazione». Cfr. inoltre, Lenin, Risoluzione del secondo gruppo parigino del POSDR sulla situazione esistente nel partito [1911] ↑, in Opere complete, cit., vol. 17, pp. 199-207. Una descrizione abbastanza dettagliata delle vicende sulle scuole di partito di Capri, Bologna e Longejumeau si trova in R. C. Elwood, Lenin and the Social Democratic School for Underground Party Workers, 1909-11, «Political Science Quarterly», vol. 81, n. 3, september 1966. Cfr. inoltre V. Strada, L’altra rivoluzione. Gor’kij – Lunačarskij – Bogdanov. La «Scuola di Capri» e la «Costruzione di Dio». Con scritti di J. Scherrer, G. Gloveli, I. Revjakina, Capri, La Conchiglia, 1994.
[14] ↑ A. Agosti, La Terza internazionale. Storia documentaria, Editori Riuniti, Roma 1979, vol. I, tomo 1, p. 231.
[15] ↑ Lenin, Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale. Relazione al IV congresso dell’Internazionale comunista, in Opere complete, cit., vol. 33., p. 397.
[16] ↑ A. Gramsci, Per una preparazione ideologica di massa [1925] ↑, disponibile al seguente link: https://www.resistenze.org/sito/ma/di/cg/mdcg7d26-001436.htm.
[18] ↑ Id., La scuola di partito, in «L’Ordine Nuovo» quindicinale, 1 aprile 1925.
[19] ↑ A. Pozzetta, «Tutto il partito è una scuola». Le scuole di partito del Pci e la formazione dei quadri (1945-1981), Tesi di dottorato, 2015/2016 disponibile al seguente link: https://iris.unipv.it/retrieve/handle/11571/1203383/184998/ Tesi%20di%20Dottorato%20Andrea%20Pozzetta.pdf Si ringrazia l’autore per le indicazioni e la messa a disposizione del suo lavoro.
[21] ↑ Per questi aspetti si possono leggere in via introduttiva il libro di E. Snow, Stella rossa sulla Cina (1937), Il saggiatore, Milano 2016, e l’utile introduzione di Enrica Collotti Pischel, da cui leggiamo: «In questo quadro si intende come la lotta armata sia stata, certo, il grande contesto storico concreto entro il quale sono avvenuti lo sviluppo degli ideali della rivoluzione cinese e la formazione della sua classe dirigente; e come tutti questi fenomeni non avrebbero potuto svolgersi senza la lotta armata: ma la fase della sola lotta armata non racchiude affatto tutto il corso della rivoluzione cinese. Ci fu prima di essa la rivoluzione culturale del periodo 1915- 1920 e la lotta sindacale-nazionale degli anni 1923-1927; dopo di essa ci sono stati […] i compiti politico-economici della gestione del potere e della costruzione di una società nuova. La continuità di tutti questi processi non sarebbe stata possibile se la rivoluzione cinese avesse conosciuto soltanto o prevalentemente l’esperienza della lotta armata, dell’azione militare e avesse trascurato il complesso coordinamento di una strategia politico-sociale e soprattutto il lavoro culturale di massa».
[22] ↑ Mao Tse-Tung, Opere di Mao Tse-Tung, Edizioni Rapporti Sociali, Milano, vol. 8, p. 210.
[23] ↑ Id., Risolvere il problema dei “cinque eccessi”, Opere di Mao Tse-Tung, cit., vol. 12, p. 53: «Nel nostro lavoro nelle campagne esistono dei problemi che riguardano il grave distacco degli organismi del nostro partito e del nostro governo dalle masse contadine e la violazione degli interessi dei contadini e dei loro attivisti; sono i problemi noti come i “cinque eccessi”. Eccesso di compiti assegnati, eccesso di riunioni e di corsi di formazione, eccesso di documenti ufficiali, di rapporti scritti e di formulari, eccesso di organismi, eccesso di mansioni secondarie assegnate agli attivisti».
[24] ↑ G. Gattei, Per una tipologia delle forme storiche del “partito di classe”, «Contropiano», anno 22, n.1, settembre 2013.
CREDITS
Immagine in evidenza: Red Guards
Autore: Red Guards (China), 26 dicembre 1971
Fonte: Scan of cover of elementary school textbook from Guangxi 1971
Licenza: public domain
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