Ludovico Geymonat (in Contropiano anno 28 n° 1 – marzo 2019 Metodo. Formazione. Organizzazione)
1 Fra le opere cinesi più diffuse in Italia, poche o nessuna — tranne alcuni importanti saggi di Mao Zedong — riguardano direttamente il problema della conoscenza. Vi è quindi motivo di ritenere che il presente volumetto di Zhang Enci susciterà un notevole interesse presso tutti coloro che desiderano notizie di prima mano sul modo con cui il marxismo cinese discute i problemi gnoseologici. È tuttavia nostra speranza che venga seriamente studiato non solo come documento di informazione, ma anche per il suo intrinseco valore teoretico.
È vero che si tratta, come scrive l’autore stesso, di un «piccolo libro» di intento prevalentemente didattico. Ma ciò non deve trarci in inganno, perché una lodevole carratteristica dei pensatori cinesi, derivata dalla loro elevata civiltà, è quella di dare una forma piana, agevolmente comprensibile al maggior numero di lettori, anche a trattazioni filosofiche di forte impegno teoretico. Troviamo infatti nel lavoro di Zhang Enci una discussione assai penetrante, sebbene schematica, di tutti i maggiori, problemi gnoseologici, da cui risulta con quale profondità egli abbia assimilato la tematica del pensiero moderno.
Nella presente introduzione ci proponiamo di illustrare la posizione assunta, rispetto a tali problemi, dal nostro autore sottolineandone l’interesse anche per noi.
Cominceremo pertanto con due osservazioni di carattere generale.
a) Zhang Enci dimostra una piena consapevolezza della centralità del problema della conoscenza entro il quadro generale della filosofia, e cioè non solo in riferimento alle indagini propriamente teoretiche ma pure in riferimento a quelle di ordine pratico. Si dimostra inoltre fermamente convinto che tale problema non può venire trattato se non in stretta connessione ad un approfondito esame storico-critico dei progressi della scienza e della tecnica; esame che deve a suo parere imperniarsi sulla teoria del riflesso, interpretata dialetticamente secondo le indicazioni di Marx, Egels, Lenin e Mao.
Merita di venire sottolineato che il nostro autore non fa mai la benché minima parola delle così dette «tre leggi di Engéls», mostrando con questo silenzio di avere perfettamente compreso che esse scaturivano da una certa ben determinata situazione culturale, filosofico-scientifica, dell’epoca in cui vennero enunciate e che non conservano più il loro peso originario in una situazione, come l’attuale, profondamente rinnovata. Gli avversari del materialismo dialettico, che credono di poterlo combattere accanendosi contro le anzidette tre leggi, dovrebbero — se in buona fede- aggiornare i loro argomenti; altrimenti rischiano, con le loro critiche stantie, di dare soltanto prova del proprio dogmatismo e della propria ignoranza.
b) Tutta la trattazione di Zhang Enci dimostra che egli considera l’accettazione della teoria materialistica della conoscenza, cioè la teoria dialettica del riflesso, come Ia linea di una più netta demarcazione fra il vero e il falso marxismo.
E’ un tema su cui dovrebbero riflettere i così detti «marxisisti occidentali» i quali pretendono di «salvare» il materialismo storico buttando a mare quello dialettico, ed evitando, di conseguenza, di assumere una qualsiasi posizione sul problema della conoscenza (in particolare della conoscenza della natura). Risulta infatti per lo meno singolare che l’inscindibilità fra materialismo storico e materialismo dialettico sia invece tenacemente difesa nei paesi ove non si è soltanto parlato della rivoluzione, ma la si è veramente fatta, come appunto la Cina e l’Unione Sovietica.
2 Ciò che può lasciarci perplessi, quando iniziamo la lettura del volumetto in esame, è che esso ammette — potremmo dire in via preliminare — il «carattere oggettivo del mondo», senza fermarsi per esempio a discutere la tesi solipsistica secondo cui tutti gli esseri (naturali ed umani) con i quali mi trovo a contatto sarebbero soltanto mie rappresentazioni, cioè esisterebbero soltanto nella mia psiche. Si direbbe che Zhang Enci si rifiuti di prendere sul serio una filosofia che, sebbene difficile da confutarsi sul piano puramente teoretico, è comunque agli antipodi del senso comune. Il filosofo che voglia impegnarsi in questioni serie non potrà perdere tempo in tali astratte sottigliezze, ma dovrà esaminare con autentico spirito critico i molti problemi connessi alle effettive procedure con cui ci sforziamo di conoscere l’anzidetto mondo oggettivo.
Una volta data per scontata l’esistenza di tale mondo, il compito centrale del filosofo dovrà ovviamente consistete nello studio dei rapporti fra essere e pensiero, rapporti che non coinvolgono soltanto l’attività conoscitiva ma anche quella di ordine pratico. A proposito di essi, Zhang Enci si schiera con la tradizione marx-engelsiana che ritiene di poter suddividere i filosofi di tutte le epoche in due schieramenti opposti: quello dei materialisti che ammettono il primato dell’essere sul pensiero, e quello degli idealisti che ammettono invece il primato del pensiero sull’essere Le pagine dedicate dal nostro autore a delinerae lo sviluppo di tali posizioni lungo la storia millenaria, della filosofia europea e cinese sono volutamente schematiche e quindi di non grande interesse. Una certa attualità va soltanto riconosciuta a quanto egli scrive sulla definizione aristotelica di verità quale riflessione — nelle sensazioni e quindi in generale nel pensiero — dell’oggettività esterna (definizione oggi posta a base dei più moderni studi di logica semantica), presentandola come punto iniziale di un lungo cammino che condurrà alla moderna teoria leniniana del riflesso.
Ritornando alla tesi sopra accennata, concernente l’oggettività del mondo, va subito aggiunto che essa apre la via al problema centrale di tutta la trattazione di Zhang Enci: il problema del carattere oggettivo della verità; carattere che, a suo giudizio, deve venirle riconosciuto proprio in base alla definizione aristotelica di verità.
Un esame approfondito di questo carattere è in grado di dimostrarci — sempre secondo il nostro autore — che la teoria della verità oggettiva e la teoria materialista del riflesso sono inseparabili. A suo giudizio, però, la teoria materialista del riflesso avrebbe una portata anche maggiore di quella della verità oggettiva, perché si estenderebbe alle stesse conoscenze false: pure queste, infatti, sarebbero un riflesso del mondo oggettivo, ma un riflesso infedele, deformato, inadeguato.
Non è qui il caso di discutere in dettaglio la tesi ora accennata del filosofo cinese; il suo interesse verrà provato dall’esame che ci proponiamo di fare dei problemi che ne derivano. Basti per il momento osservare che la connessione tra teoria materialista del riflesso e teoria della verità oggettiva vale a porre in luce come la teoria materialista del riflesso non rappresenti qualcosa di artificioso, ma si radichi nella più seria problematica filosofica.
Essa presenta però alcuni caratteri incontestabilmente nuovi, come ora vedremo, rispetto alla teoria tradizionale del riflesso risalente ad Aristotele; sono caratteri che le derivano dal trovarsi di fronte ai problemi specifici sollevati dalla più moderna critica della scienza: problemi che il materialismo dialettico affronta con sicura consapevolezza e per i quali propone — checché ne dicano i suoi detrattori — alcune soluzioni del più alto interesse.
3 Uno dei problemi generali, che subito emerge dal riconoscimento dell’oggettività della verità, è il seguente: come potremo conciliare questa oggettività con «il carattere di classe» che tutti i filosofi marxisti vogliono attribuire alla verità? L’importanza della domanda consiste nel fatto che l’attribuzione di un carattere di classe alla verità viene spesso interpretata come l’introduzione di una dimensione soggettivistica entro la filosofia marxista.
Va anzitutto osservato che questa dimensione soggettivistica non può comunque venire confusa con il soggettivismo idealistico di cui ordinariamente si parla, in filosofia; e in particolare con il soggettivismo che affiora in alcuni indirizzi di filosofia della scienza. Infatti, affermare il carattere di classe della verità significa tutt’al più riconoscere che essa concerne una collettività, non un singolo individuo.
Ritorneremo fra poco su questa osservazione.
Per rispondere alla domanda formulata all’inizio del paragrafo, Zhang Enci introduce una distinzione degna della massima attenzione. Si tratta della distinzione fra problema della verità e problema metodologico della ricerca della verità. Quest’ultimo è senza dubbio di grande importanza per la scienza, ma non possiede un carattere propriamente filòsofico; l’altro invece (il problema della verità) è centrale per la filosofia, come viene testimoniato dalla stessa storia di questa disciplina a partire dalle sue origini.
Orbene è proprio sulla base della distinzione ora accennata che il nostro autore riesce a conciliare l’oggettività della verità con il suo carattere di classe. Il carattere oggettivo riguarderebbe infatti la verità; quello di classe la ricerca delle verità. In altri termini: la ricerca della verità è senza dubbio condizionata dalle strutture sociali in cui operano i ricercatori; ma ciò non incide in alcun modo sul carattere oggettivo della verità stessa.
È qui giunto il momento di richiamare quanto abbiamo detto poco sopra, quando osservammo che il protagonista della ricerca non è, a rigore, l’individuo ma la società cui egli appartiene. Non ha quindi senso fare una colpa al singolo scienziato (per esempio Galileo o Newton) di essersi lasciato condizionare, nelle proprie ricerche, dall’ambiente in cui viveva; l’errore di avere indirizzato la ricerca scientifica in una direzione anziché in un’altra, a vantaggio di un gruppo ristretto di persone anziché delle masse, va imputato non a questo o quel pensatore dei secoli scorsi ma alla classe da cui era dominata in quei secoli la società. Il nostro autore non affronta direttamente il problema (molto dibattuto in Occidente) della responsabilità dello scienziato, ma è chiaro che la tesi testé esposta può fornirci preziosi suggerimenti per la sua soluzione.
Il punto, su cui Zhang Enci ritorna spesso con particolare insistenza, è questo: la classe borghese reazionaria non ha interesse a scoprire la verità, particolarmente nell’ambito della filosofia e delle scienze sociali, ove anzi è interessata a mantenere le masse nell’ignoranza e nella confusione (la situazione risulta alquanto diversa per le scienze della natura, ove la scoperta delle leggi oggettive che regolano il decorso dei fenomeni può non contrastare l’interesse delle classi reazionarie; ma non lo contrasta solo finché tale scoperta resta circoscritta entro determinati limiti, oltrepassati i quali essa comincia a venire giudicata molto pericolosa, se non altro perché concorre ad abbattere miti per l’innanzi sistematicamente utilizzati al fine di tenere soggette le masse). Soltanto la classe proletaria, non accecata da interessi limitati, è in grado, una volta giunta al potere, di dare il massimo incremento allo sviluppo delle conoscenze scientifiche, senza imporre loro restrizioni di sorta.
«Il proletariato — scrive il nostro autore — è la classe più rivoluzionaria della storia ed è contemporaneamente quella che ama più ardentemente la verità… La caratteristica della classe è in perfetto accordo con la sua natura scientifica; è la classe che può attenersi alla verità nella maniera più completa.» In altri termini: proprio perché la ricerca della verità è un fenomeno essenzialmente sociale, occorre anzitutto rivoluzionare la società per far progredire al massimo tale ricerca e per dare ai ricercatori una piena coscienza della propria funzione civilizzatrice.
Affermare che la verità è una verità di classe, significa riconoscere che la classe reazionaria è in ultima istanza, la vera colpevole dei limiti che vennero imposti (e ancora oggi lo vengono, nei paesi capitalisti) alla ricerca della verità.
Significa riconoscere che questa ricerca può essere veramente libera e responsabile solo in una società che abbia realizzato la piena vittoria del proletariato.
4 Un’altra distinzione, in certo senso ancora più importante di quella delineata nel paragrafo precedente, è la distinzione fra verità e criterio di verità. Il nostro autore vi fa ricorso per porre in chiaro che l’appello alla prassi quale criterio di verità — tesi notoriamente considerata come uno dei cardini della gnoseologia marxista — non può venire in alcun modo confuso con l’identificazione fra prassi e verità, propugnata dai pragmatisti.
Mentre era stato abbastanza facile distinguere la verità dalla ricerca della verità, in quanto è possibile ammettere che quest’ultima abbia un carattere soggettivo (riferito- sia beninteso- a una collettività e non a un singolo soggetto) senza dovere con ciò negare l’oggettività della verità stessa, la cosa diventa molto più complessa quando si parla di distinzione fra verità e criterio di verità. Se infatti ammettessimo che esistono soltanto criteri soggettivi di verità la verità stessa finirebbe per assumere necessariamente un aspetto soggettivo.
È questo il motivo per cui un materialista dialettico conseguente come Zhang Enci deve: per un lato smascherare il carattere soggettivo dei criteri tradizionali di verità e di conseguenza respingerli come insufficienti, per un altro lato proporre un nuovo criterio di verità che risulti effettivamente oggettivo Fra i criteri tradizionali di verità (ricorso, alle idee chiare e distinte, alla coerenza logica, alla semplicità ecc.) il nostro autore include anche il criterio dell’utilità adoperato dai pragmatisti, dimostrando — come già si è detto — che ciascuno di essi possiede in modo esplicito o implicito un carattere soggettivo. Il criterio nuovo da lui proposto (criterio attinto dai testi di Marx, Engels, Lenin e Mao) è invece quello della prassi, di cui si sforza di dimostrare il carattere oggettivo.
È ovvio che, se si riconosce valida questa dimostrazione, diventa automaticamente impossibile confondere l’appello alla prassi con la posizione dei pragmatisti.
Di qui l’importanza spettante alla dimostrazione del carattere oggettivo del criterio della prassi; dimostrazione di interesse centrale per ogni serio materialista dialettico, ma tutt’altro che facile proprio per l‘uso ambiguo che è stato spesso fatto di tale criterio, in particolare da certi studiosi che si proclamano marxisti e sono nel contempo decisi avversari del materialismo dialettico.
Le pagine dedicate da Zhang Enci all’anzidetta dimostrazione rivelano la sicura consapevolezza che egli possiede della gravità del problema, ma lasciano talvolta non pienamente soddisfatto il lettore, soprattutto a causa dell’eccessiva schematicità della trattazione. Gli va comunque riconosciuto il merito di avere enunciato con incontestabile chiarezza la conclusione del proprio ragionamento: «gli utilitaristi dicono “L’utile è la verità”; i marxisti dicono “La verità è utile”. Questi due principi si rassomigliano in ‘apparenza; in realtà sono fondamentalmente opposti». In altri termini: «il marxismo considera utile la verità, ma non considera “l’utile” come il criterio della verità».
Innanzi tutto va osservato che in pieno accordo con i filosofi e scienziati cinesi più vicini alle posizioni di Mao, il nostro autore intende la prassi come, prassi sociale, il che implica un diretto riferimento all’azione non del singolo ma delle masse, e pertanto ad un’azione la cui efficacia si misura non a tempi brevi ma lunghi.
È comunque un’azione che non può venire concepita — come ben si rendono conto le masse — senza un mondo oggettivo, naturale ed umano, alla cui trasformazione essa sia diretta. L’esistenza del mondo oggettivo è il presupposto della prassi e, viceversa, i caratteri stessi di questa prassi (le resistenze che incontra, le mille difficoltà che deve superare per raggiungere i propri. scopi ecc.) costituiscono una riprova di tale esistenza. «Il proletariato che porta avanti tutti i giorni la lotta per la produzione, la lotta di classe e la sperimentazione scientifica, sperimenta quotidianamente il rapporto tra la conoscenza e la prassi, tra la verità e la prassi».
È degno di nota che i primi esempi concreti cui Zhang Enci fa riferimento per porre in luce la funzione della prassi nel processo conoscitivo sono proprio tratti dalle scienze della natura (nel caso specifico, dall’astronomia): essi dimostrano che la prassi e soltanto la prassi è in grado di trasformare le ipotesi scientifiche in autentiche verità oggettive. Ma altrettanto vale anche per le scienze sociali, dove secondo quanto ha scritto Mao — «solo la prassi rivoluzionaria di milioni di uomini è il metro per misurare la verità». Né si deve attribuire alla prassi l’unico compito di verificare le concezioni elaborate in via ipotetica dalle ricerche teoriche; essa ha pure la funzione di stimolare queste ricerche, di spingere la verità verso uno sviluppo ininterrotto.
Esiste cioè un rapporto dialettico fra prassi e teoria, onde questa non può svilupparsi né può conseguire delle verità oggettive senza la prassi, e d’altra parte la prassi non può riuscire a trasformare in profondità il mondo se non è guidata dal pensiero.
Zhang Enci conclude la propria indagine con alcune formule senza dubbio molto incisive, ma forse di sapore fin troppo filosofico nel senso tradizionale di questo termine : «la prassi sociale collega il pensiero al mondo oggettivo», essa « è un fatto soggettivo in relazione all’oggetto».
5 Una volta riconosciuto che la prassi è un criterio oggettivo di verità, siamo naturalmente indotti a chiederci: le verità che si mostrano tali alla luce di questo criterio sono dunque verità assolute? La risposta è, decisamente negativa perché sappiamo che una verità dovrebbe — al fine di potersi chiamare assoluta — risultare definitiva, immutabile, non passibile di sviluppi, mentre è certo che il criterio della prassi sociale non risulta in grado di fornire una garanzia siffatta. E non lo risulta perché la prassi stessa è in perenne sviluppo, onde le verità che hanno superato il suo vaglio potranno avere soltanto un carattere limitato e relativo.
Si tratta comunque, a giudizio del nostro autore, di uno sviluppo ininterrotto che, pur attraverso alti e bassi, porrà la prassi in grado di provare o confutare tutti i pensieri. «Se la prassi attuale non ha mezzi di provare la validità di una concezione, la prassi ulteriore lo potrà certamente fare».
Questa fede nella illimitata possibilità del criterio della prassi non appare, al punto in cui siamo giunti, perfettamente fondata. Essa trova tuttavia una certa giustificazione nell’atteggiamento assunto da Zhang Enci nei riguardi del senso comune (atteggiamento che già rilevammo all’inizio del secondo paragrafo); il senso comune, infatti, e in particolare una riflessione non prevenuta su ciò che è accaduto nella storia della scienza e della tecnica, ci insegnano che queste, nel loro effettivo sviluppo, sono gradualmente riuscite a risolvere difficoltà e problemi che per l’innanzi erano parsi del tutto superiori alle capacità umane. Comunque, ritorneremo su questo punto allorché parleremo del rapporto dialettico fra verità ed errore.
Qui basti aggiungere che il riconoscimento del carattere relativo delle verità provate mediante il criterio della prassi presenta il seguente grande vantaggio: di impedirci di assumere un atteggiamento di dogmatica chiusura nei confronti delle teorie nuove, solo per il fatto che la prassi non può provarle nel momento presente.
Ciò vale per le teorie scientifiche, ma vale pure per quelle che riguardano i processi rivoluzionari, e in particolare per la teoria marxista incentrata sulla lotta di classe.
«Nella lotta sociale- scrive Mao- le forze che rappresentano la classe avanzata subiscono a volte delle sconfitte, non perchè abbiano idee sbagliate, ma perchè, nel rapporto delle forze in lotta, esse sono temporaneamente meno potenti delle forze della reazione». In altri termini: la verifica di una teoria scientifica o sociale mediante il criterio della prassi non è qualcosa di meccanico che possa portarci automaticamente al riconoscimento della sua verità o falsità; la pretesa di rifiutare le teorie che non possono venire immediatamente provate dalla prassi costituirebbe un gravissimo ostacolo al progresso scientifico e sociale.
6 E’ ben, noto che il rapporto fra carattere oggettivo e carattere storicorelativo della verità costituisce un problema nodale per il marxismo, e non solo per il marxismo ma anche, ad esempio, per la filosofia della scienza. Avendo sostenuto che il criterio della prassi sociale è oggettivo sebbene fornisca la base a verità limitate e relative, Zhang Enci deve enunciare tale problema in termini alquanto diversi, cioè non come problema del rapporto fra carattere oggettivo e carattere storico-relativo della verità, ma del rapporto fra verità assoluta e verità relativa.
Si tratta di un problema che risulta immediatamente collegato, nell’impostazione marxista, con la teoria del riflesso. Basta, per rendersene conto, riferire le due definizioni che costituiscono l’inizio dell’indagine.
«La verità relativa e la verità assoluta sono allora i due concetti filosofici che esprimono il processo storico della conoscenza della realtà oggettiva. Ciò che chiamiamo verità assoluta indica una conoscenza il cui contenuto riflette la realtà oggettiva in maniera completa, incondizionata e assoluta. Ciò che chiamiamo verità relativa è dunque una conoscenza il cui contenuto riflette la realtà oggettiva in modo approssimativo, incompleto e relativo».
Lo studio della teoria del riflesso costituirà pertanto l’avvio alla risoluzione del problema in esame.
Se il marxismo (in particolare quello di Lenin) ammettesse davvero — come gli rimproverano i suoi più accaniti avversari — il carattere passivo e immediato del riflesso, allora esso dovrebbe negare il carattere storico-relativo delle conoscenze ricavate con tale procedura, e si troverebbe pertanto nell’impossibilità di rendere conto delle conoscenze scientifiche, cui la moderna epistemologia attribuisce soltanto una verità relativa alla determinata situazione storica in cui vennero scoperte. Il fatto è, però, che la teoria del riflesso, proprio nella concezione di Lenin, non condivide per nulla tale interpretazione, ma sostiene invece il carattere attivo del riflesso.
Nessuna meraviglia quindi che anche Zhang Enci si proclami apertamente fautore della teoria del riflesso attivo. È tutt’al più signifativo che, al fine di spiegarla e difenderla, egli prenda in considerazione proprio alcuni esempi di conoscenze relative, ricavati dalla storia delle scienze. La cosa è significativa da due punti di vista: perché conferma l’importanza che il nostro autore attribuisce alla scienza, inoltre perché dimostra che, parlando di storia delle scienze, egli si riferisce, proprio alla così detta storia interna di esse (contrariamente a quanto sembrano ritenere alcuni studiosi nostrani che pur si proclamano fedelissimi seguaci del marxismo cinese).
Ma se intendiamo sostenere, in base alla teoria del riflesso attivo, che la verità è un processo dinamico il quale non si conclude mai con una visione definitiva ed esaustiva del mondo oggettivo staticamente inteso, non ci troveremo di conseguenza costretti ad ammettere che tutte le verità da noi conseguite sono essenzialmente relative? cioè che, almeno per noi, non esiste verità assoluta? E non equivarrà tale ammissione ad una pericolosa caduta nel relativismo? Come è noto, uno dei punti più delicati (ma anche più fecondi) della gnoseologia marxista sta proprio nella difesa del valore relativo di tutte le nostre verità e nel contemporaneo rifiuto di ogni forma di relativismo.
Il nostro autore risolve la grave difficoltà, affermando per un lato — contro il relativismo — che la verità assoluta esiste (onde noi siamo effettivamente in grado di conoscere la realtà), ma affermando d’altro lato che essa non esiste indipendentemente dalla verità relativa. Afferma cioè che la verità assoluta non possiede un’esistenza metafisica, ma si forma per gradi, essendo «costituita dalla somma delle verità relative che sono in continuo sviluppo».
La ragione per cui tutte le verità da noi raggiunte nello sforzo di conoscere la realtà sono relative, va cercata nel fatto che non possiamo liberarci «dalle condizioni storiche e sociali» in cui viviamo né «dai loro limiti»; il che non esclude tuttavia che conosciamo effettivamente qualcosa. L’intero sviluppo della scienza ci mostra che l’uomo si è sempre trovato in una situazione simile; nella situazione, cioè, di raggiungere delle verità, ma non mai delle verità complete, immodificabili, non passibili di radicali rivoluzionamenti. Di fronte a uno stato di cose siffatto, la tentazione del filosofo è sempre stata di ricavarne che: allora non conosciamo nulla, allora la scienza non è conoscenza, allora le presunte verità scientifiche sono soltanto convenzioni di comodo. La soluzione offertaci dalla gnoseologia ‘marxista si impernia invece sulla tesi che la «verità relativa» è un’autentica verità pur essendo relativa.
Ovviamente, per accettare questa tesi, occorre estendere il significato della nozione di verità: occorre ammettere — accanto al significato tradizionale di verità come verità assoluta — un nuovo significato di essa (quello appunto di verità relativa), postulando che fra le due verità esista un rapporto che non è né di identificazione né di esclusione reciproca. Il marxista gli dà il nome di « rapporto dialettico», e afferma di conseguenza l’unità dialettica di verità relativa e verità assoluta. Gli avversari del marxismo diranno che l’attributo «dialettico» non designa alcunché di preciso, ma non sapranno sostituirlo con altro attributo più significativo E, se rifiutano il termine «dialettico» senza trovare il modo di sostituirlo, come potranno descrivere ciò che realmente accade nello sviluppo della scienza? Si limiteranno a dire che le teorie si susseguono le une alle altre, senza ordine alcuno? Ma, così facendo, non riusciranno a cogliere la specificità dell’evoluzione delle teorie; evoluzione che non è affatto caotica, ma è «evoluzione positiva da un grado inferiore a un grado superiore».
Una riflessione veramente seria sul tipo di questa evoluzione ci fa capire l’importanza dell’aver qui introdotto, come poco sopra accennammo, la nozione di rapporto dialettico; non diversamente da quanto abbiamo notato nel paragrafo quarto, allorché sottolineammo l’insostituibilità del criterio della prassi. Ora finalmente possiamo comprendere la fondatezza di quanto scrive Zhang Enici, allorché sostiene che «solo quando Marx ebbe introdotto la pratica e la dialettica nella teoria materialista della conoscenza si sviluppò una teoria scientifica e conseguente della verità oggettiva». In altri termini solo facendo appello alla prassi e alla dialettica, potremo delineare una gnoseologia ma- terialistica soddisfacente, in caso contrario il materialismo non sarà in grado di elaborare alcuna teoria della conoscenza che sfugga all’accusa di rozzezza e dogmatismo.
7 Come è noto, parecchi studiosi di Lenin danno un rilievo tutto speciale al brano in cui egli afferma che «l’anima viva del marxismo, la sua essenza, è “l’analisi concreta della situazione concreta». Anche Zhang Enci attribuisce grande importanza a questo pensiero del padre della rivoluzione sovietica; tanto è vero che inizia il proprio capitolo sulla verità concreta con un’altra citazione sempre di Lenin dove viene espresso il medesimo concetto: «Il principio fonda mentale della dialettica è che non esiste verità assoluta, e che ogni verità è concreta».
Carattere concreto e carattere relativo delle verità sono qui considerati l’uno complementare dell’altro, onde la concretezza viene invocata proprio per ribadire la relatività. Ciò vale, ad esempiò, per sostenere che le stesse dottrine elaborate da Marx e da Engels sulla struttura della società umana non rappresentano affatto delle verità assolute, risultando invece esse pure soggette alle condizioni storiche in cui vennero concepite.
Ma, diversamente da quanto pensano alcuni «marxisti» occidentali, l’anzidetto appello alla concretezza non costituisce soltanto un canone prezioso per le indagini storico-economico-politiche che si intendono eseguire nell’ambito del marxismo. Esso è un principio che si inserisce nel cuore stesso del materialismo dialettico, in quanto costituisce il riflesso del carattere concreto delle realtà oggettive; In altri termini, come scrive il nostro autore, è perché « tutte le realtà si trovano tra loro in rapporti di determinazioni reciproche e complesse» che noi dobbiamo sforzarci di comprenderle entro questi rapporti e perciò nella loro concretezza. Ricondotto a questo fondamento oggettivo, il principio anzidetto assume un peso ben maggiore di quello che poteva avere come semplice canone cui il materialista storico era invitato ad attenersi.
Come ognuno sa molto bene, le determinazioni di tutte le cose sono costituite da rapporti di tempo è di luogo nonché dalle condizioni in cui tali cose avvengono. Ne segue — sempre secondo il nostro autore — che il voler «capire le cose al di fuori del tempo, del luogo e delle condizioni è un’operazione astratta» che conduce a parecchi travisamenti della realtà.
Zhang Enci ricava dalla stessa vita quotidiana molti esempi a conforto di quanto ora asserito. Si tratta però di esempi piuttosto rozzi, che possono lasciarci perplessi. Molto più convincente è invece il riferimento ad alcune fondamentali analisi storico-critiche compiute dallo stesso Mao, ove questi pone in luce il significato radicalmente diverso che assunsero talune alleanze fra il proletariato e la classe borghese in Cina, durante la guerra di resistenza al Giappone e durante quella di liberazione; durante la guerra antigiapponese, tutte le classi, strati e gruppi sociali che partecipavano alla resistenza contro il Giappone appartenevano alla categoria del popolo», mentre invece durante la guerra di liberazione facevano parte di esso soltanto le classi, gli strati sociali e i gruppi sociali che combattevano «gli imperialisti americani e i loro lacché, cioè la borghesia burocratica, i proprietari fondiari e i reazionari del Guomindang». Altri esempi, a riprova del principio in esame, sono tratti dal Capitale di Marx, e da varie opere di Mao. In tutti questi casi — vuoi riferiti alla realtà sociale vuoi riferiti alla realtà naturale — una cosa risulta chiara: che solo sforzandoci di cogliere le cose in tutti i loro rapporti concreti, possiamo conoscerne la natura specifica: «la verità concreta riflette la sintesi delle diverse determinazioni delle cose, la loro essenza, le loro leggi proprie».
Quì sorge un problema di evidente importanza teoretica: la ricerca della concretezza va intesa come sforzo di mantenersi costantemente aderenti ai soli dati empirici? La risposta del materialismo dialettico non può essere che decisamente negativa: il carattere concreto della verità corrisponde al concreto del pensiero, non al concreto sensibile.
Il nostro autore non ha dubbi al riguardo, e ricava la propria certezza dallo stesso studio del Capitale di Marx. Questo studio ci dimostra infatti, secondo Zhang Enci, che, nella sua mirabile analisi del capitalismo, Marx «passa progressivamente dall’astratto al concreto» e non viceversa. Trattasi di un risultato abbastanza noto a tutti gli studiosi del pensiero marxisiano ma il filosofo cinese ha il merito di averlo inquadrato con chirezza nella predetta fondamentale distinzione fra concreto del pensiero e concreto sensibile.
Per sottolineare l’importanza che egli giustamente attribuisce a questa distinzione, nel quadro generale della problematica gnoseologica, vale la pena di riferire per intero un lungo brano ad essa didicato:
Il concreto sensibile, che è il riflesso di fenomeni particolari, è sempre superficiale e unilaterale, quale che sia la sua vicinanza con le cose percepite. Solo il concreto di pensiero permette di cogliere le diverse strutture interne della realtà. Per questo la verità concreta non è raggiungibile attraverso la sensazione; si realizza solo nel pensiero. Non solo: essa non compare all’inizio del processo di pensiero, ma ne è il suo risultato.
Trattasi di un’affermazione in singolare accordo con le tesi sostenute da alcuni fra i più moderni indirizzi di epistemologia, per esempio dell’epistemologia di Bachelard. Abbiamo segnalato questo accordo, solo per sfatare la leggenda purtroppo ancora oggi molto diffusa in Occidente circa la presunta arretratezza della gnoseologia del materialismo dialettico. Basti infine aggiungere un breve ma significativo rilievo: secondo il nostro autore è proprio l’esigenza di pervenire alla verità concreta (nel senso testé chiarito) ciò che deve indurci a riconoscere che l’analisi di classe costituisce l’unico metodo valido per lo studio dei fenomeni sociali, e quindi anche per lo studio della scienza in quanto venga considerata, essa pure, un fenomeno sociale.
8 Il volume di Zhang Enci si conclude con un capitolo particolarmente impegnativo sulla lotta tra verità ed errore. Il relativismo nega l’esistenza di una effettiva distinzione tra verità ed errore; non così il marxismo che, pur riconoscendo il carattere relativo di tutte le verità (concrete) da noi via via conseguite, attribuisce loro un’autentica oggettività. Ma se riconosciamo il carattere relativo della verità, non dovremmo ammettere il carattere relativo anche dell’errore? E se ammettiamo il carattere relativo sia della verità che dell’errore, in qual modo potremo concepire il loro rapporto? Innanzi tutto va detto che non può trattarsi di opposizione assoluta, come pretenderebbero i metafisici. Si tratta invece di un rapporto molto più complesso che potremmo qualificare più come rapporto di interdipendenza che di esclusione.
Il nostro autore parla di «rapporto dialettico di opposizione e di identità»; e, per illustrare questa espressione, esamina alcuni significativi esempi — ricavati dalla scienza della natura e dalla stessa analisi della società operata da Marx e da Engels — nei quali si constata che verità ed errore, pur opponendosi fra loro, risultano così profondamente legati da potersi trasformare l’uno nell‘ altra con il mutare delle situazioni concrete. Quale altro attributo potrebbe descrivere meglio del termine «dialettico» una realtà così complessa e così fluida come quella che incontriamo studiando lo sviluppo effettivo delle nostre conoscenze? Senza dubbio l’uso del termine «dialettico» può lasciare perplessi i detrattori dogmatici del marxismo; ma è un fatto che solo sostituendo all’opposizione metafisica l’opposizione dialettica noi riusciamo a comprendere come la distinzione fra verità ed errore non generi una «sclerosi della conoscenza».
Passando ora ad un problema più specifico, possiamo chiederci: quali sono i motivi per cui gli errori risultano inevitabili? Zhang Enci ne indica due: uno (cui già accennammo nelle pagine precedenti) va cercato nella struttura della nostra società, dominata da una classe — la borghesia — che, accecata dalla ricerca del proprio utile, non prova un autentico interesse per la scoperta della verità. Il secondo motivo è invece di natura gnoseologica; esso affonda le proprie radici nel dinamismo stesso del conoscere umano, che si esprime nella teoria del riflesso attivo. Proprio tenendo conto di questo carattere attivo del riflesso, noi siamo tenuti ad ammettere che il soggetto potrà sempre discostarsi dall’oggettivo.
Ma la presenza ineliminabile di questa «possibilità» di sbagliare non deve indurci al pessimismo. Ed infatti il carattere dialettico dell’opposizione fra verità ed errore, carattere di cui abbiamo poco sopra sottolineato l’importanza, è in grado di farci comprendere che la lotta ininterrotta tra verità ed errore non solo non rappresenta un freno allo sviluppo della verità, ma anzi ne costituisce la forza motrice.
Né si tratta di lotta che si svolga solo all’interno del processo conoscitivo.
La tesi del nostro autore è — come sappiamo — che verità ed errore hanno una esistenza oggettiva, e pertanto è oggettivamente che si determinano a vicenda. In altri termini: la lotta fra verità ed errore è un caso particolare di rapporto dialettico, da inquadrarsi nella dialettica generale della realtà.
Dobbiamo francamente confessare che questa concezione, grandiosa e affascinante, non risulta argomentata in modo del tutto soddisfacente nella trattazione di Zhang Enci, forse a causa del carattere volutamente schematico della trattazione stessa. Una cosa va comunque sottolineata: che proprio in riferimento al carattere oggettivo anzidetto il nostro autore si sente autorizzato a «credere» (questo termine è nostro) nella vittoria della verità: vittoria che non conclude una volta per sempre il processo conoscitivo ma che contrassegna ogni tappa del suo sviluppo.
«In conclusione – egli scrive in una delle ultime pagine-, è fondamentalmente per il suo carattere oggettivo che la verità può vincere l’errore; se si accorda alle leggi dello sviluppo oggettivo, la verità è inconfutabile. Quali che siano la durata e le difficoltà della lotta, la verità finisce sempre per affermarsi».
Come abbiamo testé osservato, questa concezione della dialettica veritàerrore va considerata più come un documento di militanza politico-culturale che non come una tesi filosofilca criticamente fondata. Né ciò costituisce un rimprovero che vogliamo muovere a Zhang Enci, ma al contrario un riconoscimento dell’impegno totale che sorregge l’intero suo lavoro; una conferma della sua piena consapevolezza dell’importanza anche pratica delle ricerche, apparentemente neutrali, intorno al problema gnoseologico.
A giustificazione indiretta della predetta concezione, sia permesso osservare che nella tesi della perenne dialettica verità-errore ci sembra naturale scorgere un riflesso della teoria ben nota maoista secondo cui la lotta di classe non si estingue nemmeno con la vittoria della rivoluzione proletaria. E ci sembra altrettanto naturale scorgere nella tesi secondo cui «la verità finisce sempre per affermarsi» l’espressione entusiastica della sicurezza del militante comunista nella vittoria della rivoluzione. «La verità vincerà l’errore; è la legge dello sviluppo della verità ed è anche la legge dello sviluppo del marxismo-leninismo».
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Autore: Rishabh Dharmani, 27 agosto 2021
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