Giacomo Marchetti
Le mobilitazioni iniziate il 19 dicembre dello scorso anno in Sudan sono ad un punto di svolta decisivo dopo l’accerchiamento prolungato della capitale.
Una marea umana – di cui il flusso non si è interrotto – è giunta da diversi punti per dare vita ad un prolungato sit-in di fronte al quartier generale dell’esercito iniziato il 6 aprile – data dal forte valore simbolico per la storia sudanese – invadendo le arterie principali che portano a Khartoum.
Mentre a Port Sudan sulle coste del Mar Rosso i manifestanti sono fuori del quartiere generale della marina.
Il leggendario musicista e cantante sudanese Abu Araki Albakhett si è unito alla protesta…
Ed è proprio l’esercito che sarà con ogni probabilità il garante di un processo di transizione inimmaginabile appena qualche mese fa, e che ha “protetto” i manifestanti dai corpi di sicurezza e dalle milizie del regime, di fatto “fraternizzando” con gli insorti.
In queste ore convulse, sembra come riporta la Reuters che il settantenne presidente al potere dal 1989 si sia dimesso insieme alcune figure chiave della sua cerchia e sia “relegato” nel palazzo presidenziale, mentre la casa di Awad Alhajz, noto torturatore del regime, sembra essere stata invasa da militari e manifestanti.
Mohammed Naji Al-Sam, il portavoce della SDA (Sudanese Professionals Associations), arrestato il 4 febbraio è stato liberato e portato in braccia dai manifestanti. Questa Associazione, ossatura organizzativa della protesta per ciò che riguarda la “società civile” aveva dichiarato che qualsiasi fosse stato l’annuncio atteso dell’esercito – come comunicato dai media nazionali – avrebbe vigilato sul processo rivoluzionario e non avrebbe smobilitato affinché la transizione non coinvolga persone del “regime” e sia guidata da figure della società universamente conosciute:
“Noi dichiariamo che il popolo del Sudan non accetterà niente di meno che una autorità civile di transizione composta da un gruppo patriotico di esperti che non sia stato coinvolto con il regime tirannico”
Dopo l’annuncio fatto dall’Esercito che ha esplicitato la volontà di gestione della transizione prima delle elezioni per due anni e la promulgazione di tre mesi dello “stato d’emergenza”, l’opposizione ha mantenuto la mobilitazione “sfidando” il coprifuoco imposto dalla giunta militare: “questa è la continuazione dello stesso regime” ha dichiarato Sara Abdelijalil della SPA “Così ciò che dobbiamo fare è continuare la lotta”.
Il ministro della Difesa Awad Ibn Ouf ha letto il comunicato dell’esercito ha dichiarato che la costituzione è sospesa, i confini sigillati fino ad indicazione contraria e lo spazio aereo chiuso per 24 ore.
***
Il Sudan è un Paese pesantemente segnato da conflitti armati, come quello del Darfour all’inizio del 2000 e la guerra nella zona meridionale che ha portato all’indipendenza del Sud nel 2011, con zone di conflitto “a bassa intensità” non ancora “pacificate” come nella regione di Sud_Kordofan e Nilo Blu.
Un Paese dove Bashir ha governato da trent’anni, in un momento in cui era alla vigilia delle elezioni che si dovrebbero tenere in prossimo anno.
La periferia, epicentro delle mobilitazioni, ha per così dire “circondato” il centro, in un Paese dove il 40% della popolazione ha meno di 15 anni ed ha conosciuto solo il “regime”. Un regime quello sudanese che ha coniugato politiche di controllo securitario con inconsistenti spese sociali ed la Sharia in vigore dal 1983 – per un velo “mal portato” una donna viene frustrata, così come se passeggia con un uomo od è sospettata d’adulterio – che il realismo geo-politico occidentale, non ha messo in cima alle proprie iniziative in difesa dei diritti umani…
Le proteste sono iniziate nella città operaia di Atbara, nel Nord-Est del Paese, dove i manifestanti si sono concentrati in seguito all’impennata del prezzo del pane, aumentato di tre volte il proprio valore da un giorno all’altro!
L’80% del budget dello stato va per le spese militari e per ingrassare gli apparati di sicurezza, vera assicurazione sulla vita – fino ad ora – del regime, mentre il 5% va ad istruzione e alla sanità, con una inflazione che si attesta al 70% ed un grave situazione debitoria: la ricchezza non era ridistribuita ma andava appannaggio di una oligarchia che ha stabilmente occupato i posti di potere godendo di standard di vita impensabili per la popolazione, anche quella più istruita e qualificata (medici, insegnanti, giudici, avvocati,..) alimentata dai proventi petroliferi e d’oro, dall’indebitamento estero, tra l’altro.
Il calo del prezzo del barile ha dipinto una parabola discendente di un paese già depauperato delle sue risorse del sottosuolo dopo la “secessione” del sud.
In questo contesto di fronte ad una opposizione politica inconsistente, fortemente monitorata e pesantemente repressa, un ombrello di associazioni professionali (SPA) è stata una delle spine dorsali organizzative di questa protesta, fortemente sostenuta dalla comunità sudanese all’estero.
Una comunità che come in Francia ha duramente lottato contro le deportazione dei propri concittadini, visto che paradossalmente il Sudan è ritenuto paese sicuro!
Come ha detto l’analista Marc Lavergne, esperto di Sudan: è un movimento che assomiglia più ai gilets jaunes che alle primavere arabe.
La comunità internazionale tutta, compresa l’Unione Europea e gli USA, nonché il Fondo Monetario Internazionale, dovrà far scordare in fretta le pesanti responsabilità che ha avuto nel permettere la continuazione di questo regime castrense e poliziesco, utile anzi fondamentale, a tutti i maggiori attori internazionali e regionali in questo snodo centrale transcontinentale tra Africa e il cosiddetto “Medio Oriente”.
Omar Al-Bashir ha avuto una politica estera piuttosto spregiudicata: organico alla coalizione a guida saudita impegnata nel conflitto yemenita – e quindi complice della catastrofe umanitaria yemenita – ed allo stesso tempo pronta ad ospitare navi da guerra russe (come annunciato alcune settimane fa) nel proprio importante scalo portuale nel Mar Rosso, recentemente depennato dalle sanzioni degli Stati Uniti che ha annullato l’embargo dell’Era Obama e allo stesso tempo, pronto a firmare con la UE un accordo per il controllo dei flussi migratori verso il “vecchio continente”.
Pronto ad accogliere gli investimenti russi, cinesi ed a intrattenere rapporti piuttosto stretti con la Turchia di Erdogan e l’Egitto dei militari, ma molto attento a non alienarsi il consenso dell’Unione Europea che ha azzittito qualsiasi critica a riguardo, anche in questi tre mesi di mobilitazione.
Una buona dose di pragmatismo in un mondo multipolare in cui il campismo è definitivamente “lettera morta”, che ha fatto dimenticare – rimuovere – il ruolo di primo piano che il suo regime ha avuto nello sviluppo dello “jihadismo” non solo nel continente africano (Somalia e Sahel) ed che ha ospitato Osama Ben Laden negli anni Novanta.
Un pragmatismo teso a fargli rimediare in parte l’amputazione delle ricchezze del sottosuolo avvenuta con la secessione della parte meridionale del Paese, ¾ dei pozzi petroliferi e le riserve auree più importanti, per un paese praticamente mono-esportatore di petrolio che recentemente si è piegato ai Dicktat del Fondo Monetario Internazionale.
Misure di austerità che in un paese dall’inflazione già galoppante dove la malnutrizione è endemica ha fatto schizzare il prezzo dei beni di prima necessità: innesco economico di una protesta che ha assunto sin da subito un profilo politico e la forma dei blocchi stradali.
Se la stampa occidentale si sofferma ipocritamente sulla splendida immagina iconica Alaa Salah, architetta poco che ventenne diventata simbolo della protesta, pochi ricordano il ruolo che le donne hanno avuto nella lotta anticoloniale nel Paese Africano – come Khalida Zahir, prima donna medico del paese – e la condizione schiavile della donna ignorata fino ad ora dall’Occidente: l’abito che indossa è un omaggio alle donne lavoratrici che si sono precedentemente battute contro la dittatura.
Difficile immaginare gli sviluppi della situazione futuro, una cosa però è certa: i dannati della terra in Algeria, Sudan e Mali stanno di nuovo riscrivendo la Storia ed hanno ingaggiato una lotta contro il neo-colonialismo che non vogliono vedere sequestrata e mutilata, né sacrificata alle logiche della Realpolitik del “Nord” del pianeta.