di Silvia Di Fonzo*
All’inizio c’era il “Big Bang”. Sappiamo che non si trattava di caos disorganizzato, perché abbiamo trovato che ha avuto luogo secondo leggi della natura molto ben definite. L’energia è stata convertita in materia e radiazioni elettromagnetiche secondo modelli matematici che sono stati sviluppati solo in tempi più recenti.
Le leggi della natura non sono cambiate dal momento del “Big Bang”, ma noi abbiamo solo scoperto di recente questi meccanismi. Fino a circa un secolo fa l’umanità non era riuscita ad avere un’idea chiara sul collegamento tra energia, materia e radiazioni . Tramite l’utilizzo di esperimenti mentali (Gedankenexperiment) Albert Einstein pose finalmente le basi per capire il “Big Bang”, cioè che energia e materia sono la stessa cosa.
Teorie di questo tipo erano tuttavia così lontane dal senso comune da risultare completamente strane, così strane che relativamente pochi specialisti erano e sono anche oggi in grado di seguirle. Einstein era convinto che la natura stesse seguendo una sola equazione universale, passò l’intera sua vita a cercarla senza riuscirvi.
La teoria delle onde gravitazionali, dei fotoni, della loro deviazione nel campo gravitazionale e altro ancora sono diretta conseguenza dei suoi studi, cioè della sua descrizione matematica del comportamento della natura. Einstein ha descritto tutto questo e ha cercato l’aiuto dei colleghi per simulare e sperimentare in modo molto dettagliato le conseguenze di queste teorie.
Fa parte delle sue scoperte anche la “lente gravitazionale” ossia l’ incurvamento della radiazione elettromagnetica nell’attraversare campi gravitazionali eccezionalmente forti come quelli che si formano intorno ai buchi neri.
Nel 1913, in una sua breve lettera indirizzata al collega astronomo statunitense George Hale [1], Einstein ipotizza la possibilità di provare gli effetti curvanti della forza di gravità esaminando le posizioni di stelle in vicinanza del perimetro del sole: se il campo gravitazionale del sole avesse deviato la luce proveniente da quelle stelle, queste si sarebbero trovate, relativamente a tutte le altre stelle, in posizioni leggermente diverse rispetto alla posizioni osservate di notte.
La verifica sperimentale di questa ipotesi è avvenuta solo successivamente, durante un’eclissi di sole. Einstein ha quindi il diritto di considerarsi a tutti gli effetti come lo scopritore della lente gravitazionale. Come è noto, è anche e soprattutto l’inventore della teoria della relatività. All’epoca non aveva a disposizione computer per calcoli pesanti, internet con le banche dati, né l’elettronica ad alte prestazioni, perciò non aveva la possibilità di confermare integralmente le sue teorie.
Oggi l’ uso di elettronica avanzata e di computer ad alta potenza permette di fare queste verifiche. Ma si può chiamare scoperta l’osservazione di fenomeni previsti da altri ? Al più la si potrebbe definire applicazione di altissima tecnologia, ma questo è tutto.
Eppure in questi giorni abbiamo subito il bombardamento mediatico sulla prima foto realizzata in assoluto di un buco nero. L’immagine della ciambella rossa e storta ha fatto il giro del mondo.
I buchi neri sono neri e le onde radio non hanno colore. Quindi una foto a colori di un buco nero non può essere l’immagine reale di un buco nero. In realtà si tratta dell’osservazione della deviazione di onde radio nel campo gravitazionale di un buco nero, cioè della conferma del fenomeno già previsto e verificato all’epoca di Einstein. A proposito, quanti buchi neri avremo incluso nel campo visivo dell’immagine l’ultima volta che abbiamo puntato la nostra fotocamera verso il cielo durante la notte? Forse non li abbiamo visti perchè sono rimasti neri sul fondo nero
La lettera di Einstein a Hale (Zurigo, 11 agosto 1913)
Ma c’è del nuovo in questa osservazione? I buchi neri sono noti da molto tempo come è noto da molto tempo che la risoluzione angolare di qualsiasi rivelatore per le onde elettromagnetiche dipende solo dal rapporto tra la lunghezza d’onda e l’apertura finale del dispositivo. E’ del tutto equivalente usare due rivelatori, come per esempio i nostri occhi, disposti sul perimetro dell’apertura.
Per rendere la visione ancora migliore (in gergo si dice aumentare la risoluzione angolare) basta quindi aumentare l’apertura o, in modo equivalente, la distanza ed eventualmente anche il numero dei rivelatori. I grandi progetti di ricerca, quelli della “Big Science”, che sono grandi anche per i finanziamenti richiesti, fanno proprio questo mettendo i rivelatori a distanze fino a 12.000 km, il diametro della terra, e ci permettono di risolvere meglio la posizione della radiazione deviata da buchi neri come l’ M87 e il Sagittarius A*[2].
Il prossimo “avanzamento” per aumentare la risoluzione potrebbe richiedere l’utilizzo di satelliti geostazionari, distanti fino a 84.000 km. Tutto molto impressionante, ma niente di veramente innovativo nella sostanza, soprattutto se pensiamo che vengono utilizzati fenomeni noti e tecniche ben collaudate da decine di anni, come l’interferometria a lunga base.
Mettere i dati di un’osservazione astronomica in una bella veste grafica, anche se sono il risultato di anni di elaborazioni di immagini e di conti con i super-computer, non può essere quindi una motivazione sufficiente per meritarsi premi, notorietà e futuri finanziamenti. Anche la forma a ciambella storta era stata prevista nel 1979 [3]. La grande scienza è data dalle grandi idee e a volte per spiegarle basta uno schizzo a matita (monocolore).
[2] Black hole pictured for first time — in spectacular detail, https://www.nature.com/
[3] https://blogs.futura-sciences.
*ricercatrice del Sincrotrone di Trieste