La
nuova aggressione militare israeliana sulla “striscia” di Gaza è in
perfetta continuità con la politica che lo stato sionista attua dal suo
nascere nel 1948 contro la popolazione palestinese.
Una politica che già dalla “catastrofe” del ‘48 ha provocato il massacro
del popolo palestinese e la distruzione dei suoi villaggi, il suo
allontanamento e l’inizio della sua diaspora – aggravata con la guerra
del ’67 – in tutto il “Medio-Oriente”.
Gaza, come il resto dei territori occupati della “West Bank” , è
diventata da tempo – almeno dalla “Seconda Intifada” – “una prigione a
cielo aperto” – come l’ha definita il Segretario Generale dell’ONU
Antonio Gutierrez – e basterebbe leggere un qualsiasi racconto della
vita quotidiana della Striscia per comprendere le condizioni d’esistenza
infernali dentro un territorio di fatto ermeticamente chiuso nei suoi
confini, da una parte con Israele che ha come unico punto di passaggio:
Erez e dall’altra l’Egitto con il varco di Rafah.
Su 360 km quadri abitano circa due milioni di palestinesi, più della
metà bambini, quasi l’80% vive in povertà e tre quarti circa sono
rifugiati che vivono con gli aiuti dell’UNRWA.
La disoccupazione di massa colpisce la popolazione, costretta ad
arrangiarsi come può, mentre i tagli alla luce elettrica durano 6/8 ore
al giorno e la mancanza d’acqua potabile è cronica, e la situazione
sanitaria prossima al collasso.
Le condizioni più deprecabili sono nei campi profughi.
Il responsabile di questa situazione ha un solo nome: Israele che
assedia la Striscia da più di dieci anni: l’assedio più lungo della
storia contemporanea.
Lo sanno bene i bambini “gazawi” costretti a vivere con i droni sopra la
testa, gli “zanana” – come vengono chiamati – che ronzano continuamente
sui cielo di Gaza: il suono di uno strumento di morte con cui gli
abitanti della striscia devono convivere continuamente e che spesso si
concretizza con i bombardamenti.
Dall’Operazione “Piombo Fuso” che durò consecutivamente per 21 giorni
dal dicembre del 2008 ad oggi la situazione non è affatto migliorata.
Da allora altre tre operazioni sono state lanciate sulla Striscia:
“colonne di fumo” dal 14 al 21 novembre del 2012 e “margine protettivo”
dall’8 luglio al 26 agosto del 2014.
Vista il trattamento mediatico ricevuto dall’ultima aggressione consumata in questi giorni è bene ricordare l’immensa tragedia umana subita dai palestinesi, contestuale ad un processo di “disumanizzazione” che fa apparire questa barbarie tra le pagine più nere della storia dell’umanità: più di 4.700 morti e più tre volte tanti feriti di cui una grossa parte bambini.
Nonostante questo, la Resistenza palestinese non si è mai placata e la “Grande Marcia per il Ritorno” è stata probabilmente l’esempio più eroico di come questo popolo non cessi di fronteggiare a testa alta, nonostante l’abissale sproporzione dei mezzi, questo nemico.
Un
nemico, quello sionista, che sul piano internazionale ha ricevuto
l’appoggio nel completamento dai suoi piani dall’amministrazione Trump
che gli ha dato carta bianca su tutto.
Gli Usa hanno scelto come uno dei bersagli privilegiati della politica
in “Medio-Oriente” la Repubblica Islamica dell’Iran e di conseguenza la
“Mezzaluna sciita” che ostacola i piani israeliani e Sauditi nell’area
dalla Siria allo Yemen, passando per il Libano dove Hiz’bullah ha svolto
e svolge nel Paese dei Cedri, come in Siria, un ruolo chiave.
Non è un caso che il due di Maggio il Segretario Generale del movimento
di resistenza sciita Sayyed Hassan Nasrallah ha dichiarato – durante la
commemorazione del comandante Mustafa Bedreddine morto tre anni prima in
Siria – ha ricordato l’impegno di questo capo militare nel difendere la
causa palestinese e dichiarato che: “ogni forza israeliana che entri
nel Sud del Libano verrà soggiogata e distrutta di fronte agli occhi dei
media mainstream e schermi televisivi internazionali”, ribadendo la
giustezza della scelta effettuata dal “Partito di Dio” di combattere in
Siria di cui l’organizzazione è più convinta che mai.
L’attacco israeliano a Gaza si configura come un “avvertimento” in una
situazione in cui le tensioni ed i conflitti regionali non sono sopiti e
dove i tentativi di destabilizzazioni promossi in primis da Usa,
Israele ed Arabia Saudita non hanno raggiunto il loro obiettivo sia in
Siria che in Libano.
I
media italiani, oltre ad avere svolto un opera aberrante sul recente
attacco a Gaza, hanno ignorato un particolare importante rilevato da “Le
Monde” in Francia il 6 maggio e ripreso dall’ “L’Obs”.
È la prima volta che uno stato utilizza la forza militare in risposta ad
un “cyber-attacco”, distruggendo sabato un edificio in cui avrebbero
operato degli specialisti informatici di Hamas, secondo quanto riportato
al quotidiano francese dal portavoce dello “tsahal” – l’esercito
israeliano, che era comunque già stato “sventato” dai servizi e comunque
di modesta entità.
In questo modo Israele crea un precedente in grado di pesare nelle
relazioni internazionali perché giustifica un attacco contro chi mette
in discussione la sua sicurezza informatica come “casus belli”.
È noto l’importanza che questa sfera nella guerra contemporanea e come
il mettere in difficoltà questo campo dell’avversario sia al centro
delle più avanzate ricerche ed applicazioni militari, oltre che sono
noti le conseguenze nella capacità di potere “bucare” un sistema di
sicurezza e danneggiare un aspetto importante della vita civile ormai
gestito per via informatica.
Non sappiamo se sia questa la reale ragione dell’attacco, poi continuata
ed estesa, o solo una operazione di comunicazione tesa a giustificare
questa nuova aggressione, ma è chiaro il chiaro messaggio che manda
Israele ai suoi antagonisti e che come vuole la prassi sionista fa parte
della politica del “fatto compiuto” tesa a ri-configurare regole ed
equilibri.
Sappiamo però che la questione arabo-palestinese deve essere in fretta rimessa al centro dell’agenda politica, mettendo bene in evidenza come lo stato sionista sia il maggiore vettore della tendenza alla guerra nell’area e di come i suoi antagonisti siano un fattore di deterrenza dalla spirale viziosa di un escalation militare che sarebbe catastrofica per i palestinesi e per i popoli dell’area.
In questo senso ogni iniziativa politica su qualsiasi piano che riesca ad impedire la “normalizzazione” dell’occupazione sionista e la legittimazione dello stato d’Israele nel nostro Paese ha una valenza del tutto rilevante, che contribuisce ad isolare ulteriormente il sionismo e a rompere l’assedio a quel popolo che come una “araba fenice” riesce sempre a rigenerarsi combattendo contro il proprio nemico storico.
Rete dei Comunisti