Abituato a fare appelli a Capi di Stato, Sting ha esortato il suo paese a ripensarci sulla Brexit1. E’ la notizia più frivola su un processo che, dopo le incertezze ed un dibattito parlamentare fatto di bocciature e rinvii2, è stato da più parti derubricato a pasticcio3 e ad errore. Perciò è necessario analizzarlo un po’ meglio cercando di restituire ad esso lo spessore che merita.
L’Unione Europea e l’euro sono le forme assunte negli ultimi decenni nel nostro continente dalle politiche neoliberiste, per quanto queste ultime si fossero già parzialmente affermate a livello nazionale in molte parti del mondo negli anni Ottanta (Usa, Gb ma anche Francia e Italia) e Novanta (paesi dell’Est Europa e poi Russia). La crisi del modello di accumulazione capitalistico degli anni Settanta5 ha portato alla globalizzazione (intesa come strategia liberoscambista di abbattimento delle barriere alla circolazione mondiale di merci e di capitali)6 e dunque ai processi di riorganizzazione capitalistica volti a risolvere (con implicazioni contraddittorie) le crisi mediante l’espansione industriale e/o finanziaria all’esterno e la riduzione del salario e del welfare all’interno7. Ciò accelerava sia la competizione tra Stati e anche tra intere aree economiche8 sia la creazione di macroregioni che garantissero una sufficiente centralizzazione di capitale per competere al meglio. Non è un caso che la difficile costruzione dell’Unione Europea si è resa necessaria tra nazioni che erano o sconfitte nell’ultima guerra o vincitrici grazie all’intervento di una nazione più forte. Non è un caso che tale costruzione si sia accelerata quando l’unificazione tedesca rischiava di destabilizzarla9 e quando è stato chiaro che il tempo avrebbe giocato a sfavore delle nazioni europee isolatamente considerate. Non dimentichiamo che la quota del commercio mondiale detenuta dalle singole nazioni europee è costantemente diminuita nel corso di questi anni (la grande Germania è passata dal 9,43% del 1994 al 7,48% del 2014, la Francia dal 7,06 al 3,97, il Regno Unito dal 6,43 al 4,01, l’Italia dal 4,63 al 2,65, i Paesi Bassi e la Spagna sono rimasti allo stesso livello e cioè 3,9 e 1,9)10. L’ancora composito e fragile polo imperialista europeo ha una funzione almeno inizialmente difensiva. La formazione accidentata di questa macroregione non ha portato però ad un rapporto coordinato tra le economie ad essa interne. I processi di concentrazione e centralizzazione del capitale necessari alla competizione internazionale esigono la competizione anche interna tra nazioni. Lo stare insieme implica una feroce concorrenza interna e ciò necessita e legittima un’ancora maggiore estorsione di plusvalore dal mondo del lavoro11 attraverso tagli al salario diretto (riforme del mercato del lavoro), indiretto (riforme del Welfare) e differito (riforme dei sistemi pensionistici). La concorrenza interna genera una mobilità dei fattori produttivi e dunque squilibri che tendono ad autoalimentarsi12 soprattutto se s’impone a quest’area un regime di cambi fissi13. A questi la legislazione comunitaria ha aggiunto altri vincoli che si ripercuotono su salari diretti, indiretti e differiti facendo dell’Europa una gabbia da cui è necessario uscire.
In questo quadro si configura la Brexit.
Scendendo un po’ più nello specifico, la Brexit nasce da una crisi della bilancia commerciale inglese14. Possiamo dire che questa crisi commerciale sia indipendente dall’Unione Europea o dall’euro? Qualcuno dice sostanzialmente di sì15 ma noi siamo d’accordo con chi dice che nel corso di questi anni dall’introduzione dell’euro lo sbilancio commerciale britannico è aumentato16 e con chi spiega tale aumento con il surplus commerciale della Germania nei confronti dell’UK17, surplus reso possibile anche dalla svalutazione dell’euro rispetto alla sterlina. Le due monete hanno oscillato sempre al di sotto della parità e all’inizio l’euro ha svalutato sino ad avere nell’Ottobre del 2000 quasi la metà (0,57) del valore di una sterlina18. Tanto che (nonostante si fosse cominciato ad importare più dagli Usa che dalla Germania) il saldo negativo delle partite correnti rispetto al Pil dell’ UK dal -0,8% del 1998 sia salito al -1,8% del 200119. Successivamente anche il Regno Unito ha svalutato, ma il Trattato di Maastricht dispone che la svalutazione di coloro che sono nell’UE ma non nell’UEM sia di fatto concertata20 per cui essa non è stata sufficiente a migliorare di tanto la bilancia commerciale inglese (anche se nel 2002 e nel 2003 il saldo negativo delle partite correnti rispetto al Pil era sceso al -1,7%). La crisi del 2007 colpendo in particolare i paesi che vendono prodotti finanziari vede il Regno Unito necessitato a svalutare maggiormente la propria moneta (l’euro va da 0,67 di Dicembre 2006 al 0,98 del dicembre 2008) e questo porta il saldo negativo delle partite correnti sul pil dal -2,8% del 2008 al -1,7% del 2010. A questo punto l’euro ricomincia a svalutare (con varie oscillazioni) fino a raggiungere più volte quota 0,70 e il saldo negativo delle partite correnti rispetto al Pil dell’UK sale fino al -5,1% del 2015. Ovviamente non è solo colpa della Germania (l’euro non è mai tornato a 0,57), ma è comunque un argomento per evidenziare che non basta non appartenere all’UEM per non avere problemi con l’euro21.
Il succitato articolo di Domenico Moro ribadisce che il Regno Unito è un tipico esempio di società capitalistica nella fase più avanzata di sviluppo. Essendo stato il primo paese ad assistere alla rivoluzione industriale (e la lettura di Marx e di Engels ce ne rende consapevoli) dovrebbe essere stato il primo a fare una politica imperialista ed il primo ad andare in quella fase di senescenza che Lenin etichetta come putrefazione, anche se tra questo e quel primato è passato più di un secolo (per cui la questione dei tempi e del loro raccordo costituisce un bel problema per il programma di ricerca marxista). In questo senso il problema dell’economia del Regno Unito è quello di un eccessivo sbilancio verso il settore finanziario22. Domenico Moro evidenzia, associata a questa tendenza, una caduta forte della produttività industriale, ben maggiore di quella verificatasi per l’Italia: il valore aggiunto dell’industria in senso stretto sul totale passa dal 32,1% del 1970 al 14,7% del 2014, mentre in Italia la caduta è dal 28,8% al 18,6%. Dobbiamo tenere presente comunque che la produzione industriale inglese rimane nel 2016 maggiore di quella francese e di quella italiana anche se quella manifatturiera è inferiore a quella di entrambi. Altra cosa da ricordare è che la percentuale dell’industria sul Pil francese è nel 2015 ancora inferiore a quella inglese (19% contro 21%) e questo vale anche per gli Usa (19%), la Danimarca (19,1%) e la Grecia (17,4%). E la tendenza alla deindustrializzazione è una tendenza propria della maggior parte delle economie capitalistiche sviluppate (l’Italia dal 1994 al 2015 scende dal 28,2% al 23%, la grande Germania dal 34% al 30%, il Giappone dal 41% al 26%, la stessa Cina dal 49% al 43%). Perciò dobbiamo sempre contestualizzare i processi in corso23.
Se il Regno Unito ha una economia caratterizzata dai servizi, il settore finanziario copre l’7,9% del Pil (l’Italia è al 5,8%)24 e anche in questo senso non si possono evocare catastrofi sulla base di presunzioni non calibrate. Tuttavia la City di Londra (12% del Pil britannico) è con New York il centro della finanza mondiale. Questo condiziona la discussione sulla Brexit, in molti sensi. Da un lato la City è tutta per il remain, dall’altro le Midland deindustrializzate sono tutte per il leave. Con il paradosso che le esportazioni in termini di servizi finanziari sono in maggioranza verso i paesi extraeuropei, mentre le esportazioni industriali residue sono prevalentemente verso l’Europa25. La finanza non vuole perdere niente, mentre il proletariato industriale sembra voler perdere quel poco che ha. Tuttavia il mondo finanziario se vuole l’Europa è al tempo stesso in un rapporto non del tutto pacifico con l’Europa. Domenico Moro evidenzia come “Il ruolo finanziario mondiale di Londra si basa però su un delicato equilibrio, fondato sul fatto di essere interna alla maggiore area economica mondiale, la Ue, facendo parte nello stesso tempo di uno Stato che mantiene la propria sovranità monetaria Londra, quindi, è una piazza finanziaria che attrae banche e investitori da tutto il mondo perché è inserita nell’Europa ma nello stesso tempo è in grado di svolgere il suo ruolo in modo autonomo, coerentemente con le necessità dei mercati finanziari”26. In questo delicato equilibrio Gattei individua un punto dolente e cioè un progetto di fusione tra la Borsa di Londra e quella di Francoforte, dove la seconda avrebbe seppur di poco la maggioranza azionaria, sancendo la fine dell’egemonia londinese27. Altri notano che la mancata unificazione tra le due Borse, sancita dal gran rifiuto europeo il giorno stesso dell’apertura della Brexit, manterrebbe la speculazione sui derivati in euro nelle mani della London Clearing House, cioè di un istituto della Borsa di un paese che non farebbe più parte dell’Unione Europea, anche perché il mercato della speculazione ha detto esplicitamente no ad una clearing house sul continente a causa dell’incremento in termini di costi28. Altri ancora evidenziano che, nel caso di Brexit senza accordo banche ed assicurazioni residenti nel Regno Unito perderebbero il passaporto finanziario che consente loro di prestare servizi negli altri paesi europei grazie all’autorizzazione ottenuta nel Regno Unito. Questo però vale anche per le imprese occidentali che offrono servizi nel Regno Unito (e che sono in termini assoluti in numero maggiore rispetto alle prime). Al tempo stesso un effetto-rete da un lato eviterebbe la fuga degli operatori da Londra perché nessuno fugge se non fuggono anche gli altri e al tempo stesso potrebbe generare un effetto valanga appena un certo numero di operatori sarebbe disposto a spostarsi29. Altri ancora enfatizzano le perplessità cinesi sulla Brexit e sulla sterlina debole che ne sarebbe uno degli esiti30.
Non siamo d’accordo con chi dice che il referendum sulla Brexit sia stato istituito solo per arginare l’Ukip. Esso si inserisce nello stretto sentiero che viene in negativo delineato da questo delicato equilibrio che il Regno Unito deve rispettare per mantenere la sua posizione sui mercati finanziari senza da un lato cedere troppo all’Europa e senza in definitiva separarsi da essa.
Nell’economia finanziarizzata dell’UK gli ultimi governi hanno teso a migliorare la bilancia dei capitali anche per ovviare agli inconvenienti del processo di deindustrializzazione e permettere una occupazione diffusa a bassa produttività e a bassi salari ed una tenuta populistica del Welfare sopravvissuto alla mannaia della Thatcher e di Blair. Non a caso, in proporzione al Pil mentre gli investimenti dal 17,6% del 1998 sono prima scesi al 15% del 2014 per poi risalire al 17% nel 2015, i consumi collettivi sono saliti dal 16,6% del 1998 al 22% del 2011 per poi ridiscendere al 20% nel 2015. Il surplus di capitali in entrata è servito a compensare il passivo della bilancia commerciale31 e tra i maggiori investitori troviamo appunto la Cina32. Per rendere più attrattivo il Regno Unito ai capitali in entrata Cameron dal 2010 al 2015 ha sottoposto il paese ad una politica di austerity feroce33. Tenendo presente però che, nonostante la Thatcher abbia iniziato una politica di lacrime e sangue diventata proverbiale, Il Regno Unito da metà anni Ottanta alla fine della prima decade del secolo successivo ha avuto un innalzamento del coefficiente di Gini da 0.309 a 0.345 (dunque un peggioramento dal punto di vista della distribuzione del reddito) ma l’Italia ha fatto registrare il medesimo trend (da 0.309 a 0.337).
Si può dire anche che il Regno Unito non sia stato forzato dall’Europa per fare questa politica austeritaria e tuttavia, se qualcuno pensa che la Brexit sia un’occasione per migliorare la bilancia commerciale e per fare una politica industriale più convinta e con migliori ricadute nel mondo del lavoro, l’Europa c’entra sicuramente qualcosa. Nonostante questi “encomiabili sforzi”, il surplus nella bilancia dei capitali tra il 2010 (+76,3 in mld di dollari) e il 2012 (+31,5) ne esce più che dimezzato (seppur sempre in attivo)34. E’ a questo punto che comincia la strategia referendaria di Cameron, la quale, ripetiamo, non è un semplice tentativo di arginare l’Ukip35, ma si inserisce in quel delicato equilibrio che il Regno Unito deve rispettare nell’ambito finanziario. Ciò tenendo presente che Cameron ha costruito il suo consenso proprio sulle opzioni populiste su cui è stato scavalcato a destra dall’Ukip (chi si ricorda della Big Society?). Nel Gennaio del 2013, parlando infatti di “perdita di fiducia della gente nelle istituzioni di Bruxelles”, egli annuncia una rinegoziazione dei Trattati britannici UE e un successivo referendum relativo alla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea36. Si vuole così brandire il referendum come una clava per ottenere il meglio dal processo di rinegoziazione. L’Ukip a livello nazionale non è ancora un problema (solo alle elezioni europee del 2004 e del 2009 ha preso più del 16% dei voti mentre i conservatori si sono assestati al 26-27%) ma lo diventerà a Maggio del 2013 quando sfiorerà il 20% nelle elezioni amministrative locali. Anche l’Ukip diventerà un’altra clava cui riservare la parte del cattivo (mentre Cameron si presenta come il meno peggio) nel processo di rinegoziazione delle condizioni di permanenza dell’Uk nell’UE. Una clava ingombrante visto che alle Europee del 2014 è il primo partito britannico con il 27,6%. Una clava che costringerà sostanzialmente Cameron a rispettare la promessa di indire il referendum sulla Brexit (cosa che è ben diversa dal dire che Cameron con il referendum vuole arginare Farage). Comunque l’annuncio della rinegoziazione a livello europeo (assieme agli effetti deflattivi dell’austerità britannica: l’inflazione interna dal 2010 al 2013 è scesa dal 4,6% al 2,6% e la sterlina si rivaluta sull’euro) porta il surplus dei capitali in entrata a 120,9 a fine 2013 (anche se specularmente porta a peggiorare le partite correnti). Nonostante il parziale smacco delle Europee, Cameron nel 2014 incassa la sconfitta del nazionalisti scozzesi al referendum sull’indipendenza della Scozia e si presenta alle elezioni del 2015 prevalendo nettamente sullo scialbo Miliband e prendendo la maggioranza assoluta dei seggi (con il 36,9% dei voti alla faccia della democrazia anglosassone). Non avendo più bisogno di un’altra formazione politica che li appoggi al governo, i conservatori si apprestano ad una politica di austerity ancora più feroce. A fine 2015 il surplus dei capitali in entrata è +175,5 (in miliardi di dollari).
Con la minaccia del referendum anche l’UE scioglie le sue riserve e proprio nel Febbraio del 2016 i leader dell’UE raggiungono un’intesa che rafforza lo status speciale del Regno Unito nell’Unione Europea. Lo scopo che ci si prefissava indicendo il referendum era stato almeno in parte raggiunto. Magari una campagna referendaria all’insegna della moderazione avrebbe evitato la vittoria del leave, visto che, tranne l’Ukip, nessun partito di una certa consistenza era schierato appunto per il leave. I Conservatori dovevano e forse potevano dichiararsi neutrali, lasciando al loro leader l’onore e l’onere di sostenere il remain. Cameron così avrebbe potuto vincere su tutta la linea.
Rimaneva però il referendum. E qui entra in gioco il proletariato inglese. In questo caso non si tratta di idealizzare nessuno. Si tratta di un proletariato non strutturato né sindacalmente, né politicamente (e questo grazie all’involuzione politica sia del Labour, sia delle Trade Unions), Si tratta di un proletariato senza grande consapevolezza politica. Si tratta di un proletariato che può per questo indulgere anche a destra, verso posizioni scioviniste e razziste. Un proletariato che per decenni è stato forse aristocrazia operaia e perciò rimpiange il glorioso trentennio. Ebbene questo proletariato al referendum ha votato per il leave. Lo ha fatto soprattutto nelle Midlands, storica roccaforte Labour37, un territorio prima ad intensa industrializzazione, ma oggi deindustrializzato e mortificato. La città forse più importante di questo territorio, Birmingham, è una città davvero multietnica con solo il 58% della popolazione di etnia bianca. A Londra che si fregia di essere città aperta, la percentuale degli abitanti di etnia bianca è sia pur di poco maggiore (il 59%) e questo divario era maggiore nei decenni scorsi (per cui Birmingham è città multietnica da più tempo di Londra). Ci sono inoltre altre zone nella Gran Bretagna dove la percentuale di bianchi è relativamente più bassa che altrove: il distretto di Blackburn (69,1%) il distretto di Bradford nello Yorkshire (67,5%) il distretto di Coventry (al 73,8%) il distretto di Kirklees sempre nello Yorkshire (79,5%), quello di Leicester nelle Midlands (50.6%) quello di Luton nell’East-England (53.7%) quello di Manchester (66.7%) quello di Nottingham (71.5%) di Oadby and Wigston (73%) di Oldham (77.6%) di Oxford (77.7%) di Reading nel Berkshire (74.8%) di Sandwell nelle Midlands (69.9%) di Slough nel Berkshire (45.7%) di Walsall sempre nelle Midlands (78.8%) di Watford (72%) di Wolverhampton (68%)38. Questi centri hanno poco più del 10% della popolazione totale ma circa il 27% della popolazione di colore e ben 7 di questi distretti sono nelle Midlands. In una situazione dove la distribuzione del reddito è peggiorata e dove salario, diretto, indiretto e differito sono diminuiti è normale che ci sia la guerra tra poveri. Ed è normale che la guerra tra poveri veda gli schieramenti dividersi secondo i criteri più rozzi e semplicistici, ovvero quelli del colore della pelle e della provenienza. Ha ragione Mimmo Porcaro “Dopo aver distrutto la scuola pubblica se la prendono con l’ignoranza del popolo. Dopo aver smantellato le concentrazioni operaie, dopo aver annichilito i partiti, dopo aver dichiarato che ogni ideale di eguaglianza (anzi, ogni e qualsiasi ideale) è pericoloso, hanno il coraggio di lamentarsi del populismo”39. E comunque l’avversione e il dispetto era soprattutto per i migranti all’interno dell’UE, in aumento con l’allargamento stesso dell’Unione Europea. Ovviamente all’interno di un’area valutaria non ottimale i trasferimenti di capitale non si vedono mentre quelli dei lavoratori rompono le scatole a tutti e molti immigrati di provenienza UE sono italiani perché se Londra piange, Roma non ride, anzi piange di più come tutti i paesi PIGS.
A questo proposito vale sempre la pena ricordare la differenza tra un paese nell’UEM (l’Italia in situazione analoga all’UK per popolazione e per aver conteso per anni all’UK un posto nel G7) e un paese fuori dell’UEM. Nonostante la Thatcher, nel 2017 la spesa pubblica sanitaria inglese procapite in dollari Usa è superiore a quella italiana del 27%40 (e dal 2002 al 2007 l’aumento della spesa sanitaria pubblica in UK è stato del +6,9% contro il +4,4% della spesa italiana41). La spesa pubblica per educazione nell’UK nel 2017 è il 4,7% del Pil mentre in Italia è il 3,9%. La spesa complessiva per l’educazione dal 1998 al 2015 in Uk è salita dal 4,7% del Pil al 5,7% mentre in Italia è scesa dal 4,7% al 4,1%. Il Pil pro capite a parità di potere d’acquisto dell’UK è salito da 71 (fatto 100 quello Usa) del 1998 a 74,3 del 2015 mentre quello italiano è sceso da 69,1 a 65,7.
Tornando al proletariato inglese, al di là dell’ambiguità politica dovuta alla reazione neoliberista degli ultimi 40 anni, esso con il voto per il leave ha sostanzialmenteimpedito a Cameron di giocare la sua partita a basso costo sociale a favore della rendita. Se si voleva utilizzare il surplus dei capitali in entrata per dare una spalmata di vasellina ai poveri mentre si dava ai ricchi, beh questo avarissimo sgocciolamento (trickle down), questo contentino è stato considerato insufficiente. Cameron, nonostante la maggioranza assoluta del 2015, nonostante l’ampio mandato, è stato costretto a dimettersi. Qui finisce il ruolo del proletariato, qui dovrebbe iniziare il ruolo delle organizzazioni che questo proletariato lo dovrebbero rappresentare. A destra la vittoria della Brexit ha scatenato un fuggi fuggi generale. Farage, come il migliore degli speculatori politici, vende tutto il suo capitale politico mentre è al top, si dimette da segretario dell’Ukip, salta un giro lasciando il cerino in mano ai conservatori. Cameron si dimette e lascia il cerino della Brexit nelle mani tremolanti di Theresa May. La palla potrebbe tornare nel campo del Labour del sorprendente Jeremy Corbin che però è alla guida di un partito che ha invitato a votare per il remain andando nella direzione opposta di quello che una volta era il suo blocco sociale. Mentre invece dovrebbe sforzarsi di rappresentarlo di nuovo, trovando una sintesi tra esso e la parte radicale ed europeista del partito. Corbyn si è mosso bene dicendo che la Brexit è un dato ma bisogna lavorare per sfumarne le implicazioni isolazioniste, per rimanere nell’Unione doganale europea. In questo modo egli non si prende le responsabilità della Brexit ma non segue chi vuole far tornare la situazione a prima del referendum. Facendo rosolare la May a fuoco lento, le presenta la soluzione e acquista credito sia da coloro che la Brexit l’hanno paventata, sia da coloro che questa Brexit la volevano applicata. Il punto però è convincere la loro propria base (sia quella proletaria incattivita, sia quella radical atterrita) che tale compromesso è quello necessario per tenere unito il partito ed il paese. Il Watson di Blair (scioccamente come il suo omonimo letterario) ha tentato per l’ennesima volta di fargli le scarpe cercando di costringere il partito ad inseguire un nuovo referendum42. Per fortuna al momento non c’è riuscito. Per Corbyn infatti sarebbe la sconfitta e per il proletariato del leave sarebbe l’ennesimo schiaffo, l’ennesimo distacco e dunque l’ennesima spinta verso il populismo di destra. Ciò tenendo presente che il compromesso di Corbyn, contestato dalla destra, dovrebbe essere invece ben analizzato dalla sinistra del partito dal momento che l’unione doganale potrebbe essere un ostacolo a quella politica di parziale reindustrializzazione che dovrebbe essere il risicato risultato di tale compromesso (perché riproporrebbe in parte i motivi per cui la bilancia commerciale britannica rimane in passivo). Farage, da speculatore politico quale è, si è ripresentato con un nuovo partito che nei sondaggi ha il 27%, esattamente il risultato dell’Ukip alle Europee del 2014. In questo modo si prepara alle Europee di quest’anno a rappresentare la Brexit a tutto tondo43. Sta ora al Labour decidere: provare a sperimentare questa sintesi che lo manterrebbe unito? O ripiombare di nuovo nel blairismo e staccarsi ancora una volta dalla parte proletaria della sua base? Se non vuole rilanciare Farage, il Labour deve prepararsi a contendergli il voto nei territori deindustrializzati che sta abbandonando al suo destino (e riflettere su come reindustrializzare in parte il paese all’interno dell’unione doganale). Oppure deve rassegnarsi ad abbandonare la sua base proletaria alla Destra. Presto il dado dovrà essere gettato.
Nel frattempo il voto delle amministrative locali del 201944 che ha favorito liberaldemocratici e verdi e punito Conservatori e Laburisti (questi ultimi in proporzioni molto ridotte rispetto ai conservatori) è stato interpretato come un voto che premia gli europeisti. Non è in realtà così semplice. Il Labour ha perso 12 Consigli locali e ne ha guadagnati 4 (per una perdita netta di -8) e solo uno è andato ad un altro partito (negli altri 11 c’è solo una maggioranza relativa che impone governi di coalizione). Ed il buon risultato in termini di consiglieri locali da parte dei Verdi (che non hanno la maggioranza assoluta in nessun consiglio) si collega più a specifiche situazioni locali (dove le questioni ambientali sono più concretamente sentite) e all’effetto trascinamento del fenomeno Greta45, fenomeno mediatico che solleva una questione da almeno cinquant’anni sul tappeto46 (probabilmente i Verdi ne avranno beneficio per le prossime elezioni europee).
Prima di passare alle conclusioni, una breve valutazione di come l’economia britannica abbia reagito alla vittoria referendaria della Brexit, cosa che è diversa dall’analizzare gli effetti della Brexit (che ancora non c’è stata). Il risultato rispecchia probabilmente una situazione caratterizzata ancora dall’incertezza politica. Gli indicatori economici sono in miglioramento ma non nella percentuale degli anni scorsi (caratterizzati da una crescita finanziata dai sacrifici dei lavoratori) e non nella misura di un paese dell’UEM come può essere la Francia. Il solo miglioramento netto (rispetto agli anni scorsi) è per quanto riguarda l’occupazione (dal 2016 al 2018 la disoccupazione è scesa dal 4,4% al 4%) e l’indice dei salari medi reali che dal 95,2 del 2013 (dato 100 il livello del 2005 e cioè prima della crisi del 2007) è arrivato al 99,5 del 2018. Però lo sbilancio commerciale con l’estero rimane forte (la Germania rimane il primo esportatore in UK, nonostante la Cina conquisti posizioni) e il surplus di capitali rimane alto ma in leggera diminuzione rispetto agli anni scorsi e costituito più di disinvestimenti all’estero (i capitali inglesi rientrano grazie ad un aumento della fiducia?) che di investimenti dall’estero47.
Come abbiamo visto la questione della Brexit è questione complessa ed ambigua, come tutte le questioni storico-sociali caratterizzate come sono da un contesto ricco e mai sufficientemente indagato. Per quanto in difficoltà nella bilancia commerciale il Regno Unito in questi anni è stato comunque meglio dei Paesi Pigs e nonostante ciò si è pensato di uscire dall’UE, processo che si sta rivelando più difficile del previsto. Per un paese come l’Italia, dove la situazione è peggiore, la gabbia dell’UE (e della UEM) genera più direttamente gli effetti deleteri che tutti sappiamo. Perciò l’esigenza di uscire da questa gabbia è maggiore di quella inglese. Ma l’urgenza è forse direttamente proporzionale alla difficoltà visto che non abbiamo una nostra moneta. In relazione a ciò bisogna sempre ricordare che l’Italexit è subordinata ad un diverso internazionalismo come dice Luciano Vasapollo quando ricorda che “L’idea di abbandonare l’UEM e di tornare alle monete nazionali non può essere un’alternativa di prospettiva strategica per i paesi del Mediterraneo, poiché l’estrema debolezza di eventuali monete nazionali di fronte al capitale finanziario globale non favorirà una regolamentazione efficace del ciclo e del cambiamento strutturale dei suddetti paesi. Se in una prima fase la rottura dell’Euro e della UE richiede oggettivamente un passaggio nazionale la prospettiva da costruire da subito è quella dell’Area Euromediterranea”48.
A questo proposito vale la pena ricordare che sia per l’Italia che per il Regno Unito (contrariamente a paesi come Francia e Germania) le percentuali dello scambio commerciale con l’Europa (che nel frattempo si è estesa il che è ancora più significativo) sono diminuite, soprattutto a partire dalla crisi del 2007. Per l’UK si è passati dal 58% delle esportazioni del 2005 al 46,2% del 2018 mentre si è passati dal 55% delle importazioni nel 2005 al 53,7% del 2018. Per quanto riguarda l’Italia si è passati dal 59,3% delle esportazioni al 2005 al 54,9% del 2015, mentre si è passati dal 59,9% delle importazioni nel 2005 al 57,1% del 2015. Un fattore che spiega questa controtendenza rispetto al processo di unificazione europea è la crescita della Cina e del complesso delle sue relazioni commerciali e finanziarie con il resto del mondo. Per quanto la strategia cinese non sembra desiderare strappi in Europa, la sua presenza finisce oggettivamente per mettere in discussione vecchi equilibri. Si vedrà se l’unificazione europea costituisca un percorso continuo che si implementi quale che sia il contesto o se il suo sviluppo sia destinato sempre a rimanere incompleto e quindi instabile. Quello che è certo è che la Cina con la sua Via della Seta49 costituisce un attrattore sia per il Regno Unito in cerca di capitali da gestire sia per l’Italia sospesa sulla faglia esistente tra Europa e Mediterraneo.
Italo Nobile (Rete dei Comunisti)
1 http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/europa/2019/04/30/brexit-lappello-di-sting-a-ripensarci_3d2f820d-943b-4675-b978-dffdbe9dc6d0.html
2 http://lnx.retedeicomunisti.net/2019/04/06/corrispondenze-britanniche/
3 http://www.famigliacristiana.it/articolo/il-pasticcio-brexit.aspx
5 https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/crisi-mondiale/3931-luciano-vasapollo-il-fascino-discreto-della-crisi-economica.html
6 https://sinistrainrete.info/crisi-mondiale/7615-giovanni-di-benedetto-brexit-uscita-obbligatoria-a-destra.html
7 https://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/brexit-come-crisi-delluem-e-della-globalizzazione-2/
8 https://books.google.it/books?id=CVFRXFx1V9oC&pg=PP1&lpg=PP1&dq=vasapollo+clash&source=bl&ots=4i-kJeLtSg&sig=ACfU3U1d-YXFiysXZappNgkkjlbpNeyhVw&hl=it&sa=X&ved=2ahUKEwjRneGv5_zhAhWNC-wKHUioBd4Q6AEwBXoECAoQAQ#v=onepage&q=vasapollo%20clash&f=false
9 https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2009/09/11/quando-la-thatcher-mitterrand-temevano-la-germania.html
10 The Economist, Il mondo in cifre, 1996, Internazionale e Economist, Il mondo in cifre 2017, Internazionale
11 https://sinistrainrete.info/globalizzazione/7540-rodolfo-ricci-brexit-verso-la-de-globalizzazione.html
12 https://sinistrainrete.info/europa/14730-rete-dei-comunisti-autonomia-differenziata-il-convitato-di-pietra-e-l-unione-europea.html
13 https://it.wikipedia.org/wiki/Area_valutaria_ottimale#Gli_shock_asimmetrici_e_le_aree_valutarie_ottimali
14 http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/06/24/news/la-brexit-puo-mettere-a-rischio-anche-l-euro-1.274805
15 http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-nuovo-blocco-sociale-della-brexit/
16 https://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/brexit-come-crisi-delluem-e-della-globalizzazione-2/
17 https://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/brexit-o-remain-ovvero-la-guerra-commerciale-anglo-tedesca/
18 http://www.frasi.net/utilita/cambiovalute/default.asp?ISO=GBP
19 The Economist, Il mondo in cifre, 2000, Internazionale e Economist, Il mondo in cifre 2003, Internazionale
20 https://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/brexit-per-andare-dove-2/
21 https://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/brexit-come-crisi-delluem-e-della-globalizzazione-2/
22 https://sinistrainrete.info/europa/13681-marco-veronese-passarella-brexit-prendere-tempo-per-non-perdere-spazio.html
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25 https://www.economiaepolitica.it/2019-anno-11-n-17-sem-1/conseguenze-brexit/
26 https://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/brexit-come-crisi-delluem-e-della-globalizzazione-2/
27 https://www.economiaepolitica.it/politiche-economiche/europa-e-mondo/brexit-e-la-city-di-londra/
28 https://clarissa.it/wp/2017/06/30/la-brexit-e-la-speculazione-finanziaria-in-euro/
29 https://www.lavoce.info/archives/57519/brexit-and-the-city/
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33 http://lnx.retedeicomunisti.net/2019/04/06/corrispondenze-britanniche/
34 Economist, Il mondo in cifre, 2012, Internazionale e Economist, Il mondo in cifre 2014, Internazionale
35 https://sinistrainrete.info/europa/13681-marco-veronese-passarella-brexit-prendere-tempo-per-non-perdere-spazio.html
36 https://www.ilfoglio.it/articoli/2013/01/24/news/sono-eretico-e-britannico-cameron-lancia-il-referendum-sullue-56865/
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38 https://en.wikipedia.org/wiki/List_of_English_districts_and_their_ethnic_composition
39 http://contropiano.org/interventi/2016/07/12/roba-contessa-brexit-dintorni-081591
40 https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=68164
41 http://www.saluteinternazionale.info/2010/04/spesa-sanitaria-dei-paesi-ocse-trend-e-riflessioni/
42 https://europa.today.it/attualita/Brexit-labour-referendum.html
43 https://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2019-04-17/il-partito-pro-brexit-farage-testa-sondaggi-le-europee-gran-bretagna-crollano-conservatori-180842.shtml?uuid=ABFSG3pB
44 https://en.wikipedia.org/wiki/2019_United_Kingdom_local_elections
45 http://contropiano.org/interventi/2019/05/01/affinita-divergenze-tra-la-compagna-greta-e-noi-0114993
46 https://it.wikipedia.org/wiki/Rachel_Carson; https://it.wikipedia.org/wiki/Rapporto_sui_limiti_dello_sviluppo
47 Intesa San Paolo, Country Statistics, United Kingdom, April 2019.
48 Vasapollo, Luciano, Pigs la vendetta dei maiali, Edizioni Efesto, Roma, 2018
49 http://contropiano.org/editoriale/2019/03/22/e-tornato-dragonda-0113688