Giacomo Marchetti
In un comunicato stampa rilasciato il 21 maggio, la Sudanese Professionals Association (architrave del movimento di opposizione sudanese che ha defenestrato Bashir) esplicita le ragioni dell’interruzione del terzo round di colloqui tra l’organismo di transizione militare (TMC) e la coalizione di forze civile della Dichiarazione della Libertà e del Cambiamento (FCD).
L’oggetto della discordia, che sta divenendo un vero e proprio casus belli a causa del montare della tensione, è la composizione dell’organismo di transizione più importante nell’architettura della transizione prefigurata, su cui la settimana scorsa le due delegazioni avevano raggiunto un accordo parziale.
Il “Consiglio Sovrano” per la TMC dovrebbe avere una composizione a maggioranza militare e guidata da una figura dell’esercito, mentre per le forze del FCD una civile.
Questo è un nodo principale del processo di transizione dall’attuale giunta che con un colpo di stato ha defenestrato l’11 aprile l’ex presidente in carica dal 1989, al picco della mobilitazione popolare in un climax iniziato il 6 aprile con il sit-in (da allora mai rimosso) di fronte al quartier generale dell’esercito.
Le immagini che giungono dal presidio mercoledì mostrano la folla cantare a squarciagola in arabo: “madania, madania” ovvero “civile, civile”.
I manifestanti avevano atteso con ansia i risultati della trattativa la notte del 20 maggio, votando in maniera plebiscitaria per la continuazione della mobilitazione fino alla soddisfazione dei propri obiettivi ed onorando come d’abitudine con un minuto di silenzio i martiri della rivoluzione sudanese dall’inizio dicembre.
E proprio la TMC aveva unilateralmente sospeso le trattative all’inizio della scorsa settimana, quando un accordo su quest’ultimo punto si sarebbe dovuto raggiungere.
Sotto la mai scemata pressione popolare sono riprese le trattative giunte per l’ennesima volta ad un impasse.
Per realizzare queste aspirazioni la SPA ha chiamato all’organizzazione di uno sciopero generale politico ed a forme di disobbedienza civile di massa.
“A questo fine, facciamo appello a tutti gli organismi rivoluzionari di relazionarsi con i comitati di sciopero nei vari settori professionali, artigianali, nel settore dei servizi”.
Il comunicato si conclude con queste parole d’ordine: “mettere in piedi il comitato di sciopero è la priorità assoluta. I nostri assembramenti previsti per oggi rappresentano l’inizio della sua costruzione. La vigilanza nella zona del sit-it [dove erano avvenute le aggressioni, NdA] è vitale per il raggiungimento degli obiettivi della rivoluzione.
La reazione del Vice Presidente della TMC, capo delle RSF – principale forza impegnata per la coalizione a guida saudita nella guerra yemenita e responsabile delle atrocità commesse nella guerra civile in Darfur – alla dichiarazione di sciopero è stata rabbiosa.
In un video il Generale minaccia di licenziare tutti coloro che non si recheranno al lavoro, invitandoli a rimanere a casa i giorni i successivi, ricordando che il Sudan è pieno di figure professionali che possano sostituire gli scioperanti.
Il numero due della TMC ha detto esplicitamente: “tutti coloro che scioperano, rimangano a casa e non tornino nel posto dove ha scioperato”.
I membri dell’esercito sono stati pesantemente implicati nel regime di Bashir, soprattutto per ciò che riguarda la sua svolta in favore dell’Arabia Saudita che ha portato all’attiva partecipazione alla coalizione a guida saudita nella guerra in Yemen, e alla repressione delle popolazione del Darfur.
I maggiori sponsor della giunta militare, a cui hanno offerto sostegno politico e finanziario (rifiutato a gran voce dalla piazza: “tenetevi i vostri soldi” è stata la risposta) sono proprio l’Arabia Saudita, Gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto.
Un altro motivo di scontro frontale è la questione della Sharia che gli eredi delle formazioni dell’islam politico che avevano sostenuto il regime sin dal colpo di stato di Bashir, difendono contro la volontà popolare di porvi fine dopo che era stata proclamata nel 1983, ma rafforzata dal regime.
I sufi – una componente essenziale del paese rinomata per la sua moderazione e tolleranza religiosa – sono scesi in strada gridando “No Dio ma Allah”, “la fratellanza mussulmana è nemica di Allah”, insieme al grido “Libertà, libertà” e “Non torneremo indietro finché la dichiarazione non sarà approvata”, in riferimento al trasferimento all’autorità civile.
Ma non è l’unica manifestazione del genere e l’odio popolare verso questo aspetto del vecchio regime e di chi li incarna, e per la ripresa delle acquisizioni dell’indipendenza è visibile quotidianamente.
Le ultime settimane sono state caratterizzate da scioperi impressionanti e da marce in tutto il paese.
Gli insegnanti, la scorsa settimana, hanno dato vita un sit in di fronte agli uffici del dipartimento dell’Educazione a El Geneina, capitale della regione occidentale del Darfur.
I lavoratori della Sudatel che lavora con la telefonia e internet, hanno organizzato una protesta di massa nella capitale per manifestare contro le aggressioni e gli omicidi della scorsa settimana, chiedendo la rimozione del direttore generale dell’azienda giudicato “un agente del vecchio regime”.
Il giorno successivo i lavoratori ospedalieri di ad Damazi e El Roseiris nello stato del Blue Nile hanno scioperato contro una aggressione militare ai medici, mentre i lavoratori del settore petrolifero hanno protestato domenica.
Il Sudan ha una storia di lotte sindacali significative, motrici dei grandi cambiamenti del paese già dai tempi della lotta per l’Indipendenza, e contro i colpi di stato avvenuti a metà anni Sessanta e a metà degli anni Ottanta.
Un meme che sta circolando mostra tre giocatori di carte seduti ad un tavolino, con un giocatore che passa con le dita dei piedi una carta a chi gli sta di fronte sulla destra. La didascalia specifica che il baro sulla destra è un membro del vecchio partito di governo mentre colui che gli passa la carta è del Consiglio Militare di Transizione.
Il popolo sudanese sta rovesciando il tavolino, sta a noi aiutarlo con forza.