Giacomo Marchetti
Sono state giornate storiche per il Sudan in un delicatissimo frangente pieno di incognite all’alba dell’era post-Bashir.
Per due giorni lo stato africano è stato letteralmente paralizzato da uno sciopero generale politico indetto dalla SPA – l’organizzazione che è stata il perno della vittoriosa opposizione a Omar Al-Bashir dal dicembre scorso – in seguito all’arenarsi delle trattative con la TMC.
Le foto degli scioperanti che mostravano cartelli scritti sono un affresco del Sudan odierno, tra cui spicca una agguerrita componente femminile, così come le serrande abbassate di molti esercizi commerciali danno l’idea dell’impatto della mobilitazione.
L’organismo militare transitorio (TMC è l’acronimo inglese) detiene il potere dopo il defenestramento del sanguinario dittatore con un “colpo di stato” l’11 aprile, al culmine di una protesta che ha accerchiato la capitale dal 6 aprile e dato vita ad un sit-in permanente che dura più di 50 giorni.
Questo presidio di fronte al Quartier Generale dell’Esercito non è stato “rimosso” dai manifestanti dopo la caduta del despota che governava con il terrore il Sudan dal 1989, cioè da quando grazie ad un “colpo di stato” – spalleggiato dalle componenti più retrive dell’islam politico che ora vorrebbero mantenere la Sharia che è stata introdotta nel 1983 ma è stata implementata durante l’era Al Bashir – ha preso il potere, e traghettato il paese in sanguinari conflitti civili “contro il suo popolo”. Questi conflitti hanno fortemente segnato la vita delle persone, come quello del Darfur, e l’ex-presidente ha usato i potentissimi servizi di sicurezza interni contro l’opposizione sindacale, politica e culturale per annichilirla, ma in vano, adoperando sistematicamente la tortura.
Nell’era Al Bashir, il Sudan ha perso una parte assolutamente rilevante dei suoi giacimenti petroliferi ed auriferi a discapito del “Sud” secessionista resosi indipendenti dopo un conflitto sanguinoso, ma è diventato uno snodo strategico – per la sua posizione geografica – nella “Nuova Via della Seta” cinese, ed un partner affidabile della strategia anti-iraniana delle petrol-monarchie del Golfo, nonché un approdo di flussi d’investimento cinesi, sauditi e turchi (tra gli altri), oltre ad un acquirente di sistema d’arma russi.
È da evidenziare la firma di questi giorni di un trattato di cooperazione militare proprio con la Russia della durata di sette anni che intensifica ed amplia di molto i loro rapporti bilaterali.
Dalla cooperazione in ambito ONU, allo scambio di esperienze e capacità in manovre congiunte e dell’industria militare, il trattato fa fare “un balzo in avanti” nella cooperazione tra i due paesi.
Un altro aspetto importante è l’accordo per l’installazione di un ufficio di rappresentanza del Ministero della Difesa Russo in Sudan, con uno staff di quattro persone.
Lo scopo della rappresentanza è assistere allo sviluppo delle Forze Armate Sudanesi e addestrare il personale ad usare e riparare armi e equipaggiamenti militari forniti dalla Russia.
Non bisogna dimenticare che al despota, l’UE aveva volentieri affidato un ruolo di contenimento e di gestione dell’immigrazione proveniente dall’Africa, chiudendo gli occhi di fronte al fatto che sebbene giudicato un paese sicuro molti sudanesi se deportati rischiassero la tortura e la morte come denunciato con forza dalle varie comunità sudanesi all’estero.
Il razzismo di stato sudanese, prediligeva la componente araba di religione mussulmana, discriminando le popolazioni nere del sud (“schiavo” era un insulto comune ricorrente dei primi nei confronti dei secondi), e quelle delle valli del Nilo le cui terre venivano espropriate e allagate per faraonici progetti di dighe – realizzate ed in costruzione – , nonché delle “minoranze religiose” come la componente sufi che in queste settimane si è schierata apertamente contro i vecchi arnesi jihadisti del regime.
Differenti servizi della stampa internazionale stanno evidenziando come numerosi esuli stiano tornando per dare una mano alla Rivoluzione sudanese…
Le donne sono, in continuità con tutta la storia del Sudan e al di là dell’ “iconizzazione” fugace dei media mainstream occidentali – dell’insurrezione sudanese e forse coloro che hanno meglio realizzato – attraverso la loro arte pittorica “muralista” – la raffigurazione di una rivoluzione che ha sfidato un dittatore trentennale (che sembrava inamovibile) e sta sfidando un intero assetto regionale.
Tra le varie artiste Assil Diab sta realizzando insieme ad una serie di “collaboratori” dei murales con i volti dei martiri della rivoluzione per onorare la memoria delle novanta vittime di questi mesi di mobilitazione.
L’ultima avventura di questo guerrafondaio è stata l’appoggio alla coalizione a guida saudita alla guerra alla popolazione yemenita nel 2015 e la rottura di rapporti diplomatici con l’Iran, a cui il paese africano ha contribuito con esperti militari della delle forze del Supporto di Reazione Rapida (RSF) e tra l’altro di cui il capo è uno degli uomini chiave della TMC – composti prevalentemente dai ex-Janjaweed che hanno combattuto i Darfur – e “bambini soldato” delle regioni più depresse, come il Darfur, pagando con i proventi petroliferi “la carne da cannone” sudanese e le armi usate per provocare “la più grossa crisi umanitaria mondiale” come l’ha definita l’ONU, e di cui la Francia e l’Italia sono tra i fornitori.
Le potenze regionali grandi sponsor della giunta militare (Egitto, Arabia Saudita, Sudan) sono particolarmente preoccupate che la rivoluzione sudanese metta in discussione il “contributo” che questo paese da alla guerra in Yemen, oltre all’effetto domino che potrebbe provocare in un arco territoriale più ampio.
La popolazione sudanese rigetta in massa le ingerenze straniere e le offerte di denaro sia dei sauditi che degli Emirati, ed anche nei giorni di sciopero nell’aeroporto di Port Sudan una folla si è assembrata contro le interferenze saudite, bloccando nel primo giorno dello sciopero un aereo saudita ed il secondo giorno sono rimasti a terra i veivoli di Badr, Tarco e Nova.
Il Generale Abdel Fattaah al-Burham e il Generale Mohamed Hamdam Dagalo, rispettivamente numero uno e numero due della TMC, hanno viaggiato l’ultima settimana (proprio durante la fase di stallo dei colloqui) in questi paesi. Al-Burhan si è incontrato con Al-Sissi in Egitto e poi si è recato in EAU dove ha incontrato il principe Mohamed bin Zayed, mentre Degalo si è recato in AS in visita ufficiale, ricevuto direttamente dal re Salaman.
Il portavoce della TMC, il generale Shnaseldin Kabbashi, ha accompagnato la delegazione della TMC che ha partecipato ad un incontro sull’Iran, in una fase in cui si stanno addensando pericolose spinte nell’escalation militare contro la repubblica islamica promosse dall’amministrazione Trump.
Fino ad ora sono state due delegazioni che hanno visitato il Sudan: l’Eritrea e l’Etiopia.
La popolazione sudanese ha dimostrato con questi due giorni di sciopero che ha colpito tutti i settori e tutti gli stati del paese africano (dalle banche alle miniere aurifere, dai lavoratori dell’energia ai portuali, dai calzolai ai dipendenti del settore sanitario, ecc.), nonostante le minacce del numero due della “TMC” che ha minacciato di licenziare chi non si sarebbe recato al lavoro. La popolazione vuole la piena realizzazione degli obiettivi delle Forze della Dichiarazione della Libertà e del Cambiamento (DFC) di cui la SPA è un asse portante: cioè il passaggio dei poteri ad un organismo a maggioranza civile che gestista il processo di transizione, all’interno di una impalcatura politica su cui le due delegazioni trattanti (DFC e TMC) avevano raggiunto un accordo.
Se le trattative non riprendessero, la SPA ha già dichiarato che sarebbe passata ad azioni di “disobbedienza civile di massa” più incisive.
Un risultato stupefacente tenuto conto che il movimento sindacale sudanese architrave dei movimenti vincenti contro i colpi di stato a metà anni Sessanta e Ottanta, è stato il bersaglio della repressione dei Bashir che ha cercato annichilirlo, ed i più giovani (la maggioranza della popolazione) non ha mai conosciuto nemmeno una pallida copia di un regime democratico che il Paese aveva conquistato con l’indipendenza.
Lo “stato profondo” sudanese non sembra uscire di scena e si è reso responsabile in questi due mesi di continue provocazioni ed aggressioni, solo la continua vigilanza al sit-in e la pronta reazione dei partecipanti che hanno organizzato una presenza permanente e che si fa carico di ogni esigenza dal cibo all’acqua e ai bagni, e la risposta rapida della mobilitazioni in cui poteva prefigurarsi una escalation della violenza hanno permesso questa capacità di tenuta, nonostante i morti che sono più di novanta dall’inizio della “tempesta di sabbia” sudanese.
La giunta ha più volte minacciato il leader della SPLM-N Yasir Arman – che è parte della DFC – di lasciare il paese. Su di lui è stata emessa una condanna a morte da una corte militare nel marzo del 2014, per la partecipazione alla ribellione nello stato del Blue Nile nel settembre del 2011.
Gli stessi leader della protesta hanno dichiarato che lo sciopero è riuscito.
Ha dichiarato: “rifiuto la richiesta in quanto è mio diritto risiedere in Sudan e prodigarmi per l’affermazione di un processo di pace durevole, una democrazia e una cittadinanza equa”.
Le parti più martoriate della popolazione vedono una chance per il ripristino di una vera sovranità che cancelli l’influenza dell’islam politico più retrivo – abolendo la sharia e marginalizzando gli imam che hanno sostenuto Al Bashir – , metta in un angolo i vari “signori della guerra” complici dei veri e propri genocidi commessi da Bashir e risolva i conflitti civili che ancora non hanno trovato soluzione – oltre a sganciarsi dalla coalizione a guida saudita – , ridando dignità e sicurezza ai lavoratori e a parti importanti della società civile coinvolte nella mobilitazione (medici, insegnanti, avvocati, artisti), rendendo l’esilio non più una scelta obbligata e decidendo con quali partner internazionali disegnare insieme il futuro del nuovo Sudan, nel solco di una storia politica ricchissima che è doveroso (ri)scoprire.