Giacomo Marchetti
Lunedì mattina è stato sgomberato con estrema violenza il sit-in di fronte al quartier generale dell’esercito nella capitale sudanese, e azioni di “rappresaglia” analoghe si sono svolte in altre città, come Nuhood, Atbara, Port Sudan, ecc.
È stato l’ultimo atto di una serie di provocazioni e minacce che “lo stato profondo” del defunto regime ha messo in atto per cercare di stroncare le aspirazioni ad un cambiamento radicale, che non si limitasse alla sola “uscita di scena” di Omar Al-Bashir, nonostante la TMC neghi avere avuto alcuna responsabilità nell’accaduto, sfiorando lo sprezzo del ridicolo.
Il dittatore sudanese – salito al potere con un colpo di stato appoggiato dalle forze dell’islam radicale più retrivo nel 1989 – era stato deposto l’11 aprile al culmine della mobilitazione iniziata il 6 aprile, facendo convergere proprio di fronte al quartier generale una marea umana da ogni angolo del paese.
Da allora il governo del Sudan è in mano ad alcuni generali “golpisti” (ex fedelissimi del regime) mentre le mobilitazioni non sono cessate; il sit in era stato mantenuto per più di 50 giorni – nonostante provocazioni e minacce reiterate – divenendo di fatto il centro della vita politica non solo della capitale; un approdo per le delegazioni da ogni parte del paese, specie in periodo di Ramadam dove, con la fine del digiuno, le persone si recavano in questo presidio permanente.
Dopo la rottura delle trattative tra l’autorità militare provvisoria (TMC) e le Forze della Dichiarazione della Libertà e del Cambiamento (DFC) – arenatesi sulla composizione dell’organismo più importante che avrebbe dovuto guidare la transizione – la situazione è andata deteriorandosi, raggiungendo il muro “contro muro” (dopo numerose provocazioni) con lo sciopero generale politico che ha paralizzato il paese martedì e mercoledì scorso, nonostante le minacce di licenziamento pronunciate proprio da un alto esponente del TMC.
Quest’azione è stata promossa dall’associazione che raggruppa i vari settori sociali che hanno fin qui guidato la protesta dal dicembre scorso, la SPA, perno della DFC, come strumento di pressione per la ripresa delle trattative
Ma nei loro viaggi in Egitto, Arabia Saudita e negli EAU della settimana scorsa, i componenti della TMC devono avere avuto carta bianca per avviare una escalation di violenza, assicurandosi la copertura di questi primattori regionali interessati al mantenimento dello status quo, ed in particolare (sauditi ed emirati) che il Sudan continui a fornire “la carne da macello” per la coalizione a guida saudita nel conflitto yemenita – stimata attorno ai 14.000 combattenti finora – e che resti meta, nell’area, del flusso di investimenti tesi a bilanciare l’influenza cinese e ad ostacolarne i progetti legati alla “via della seta”.
Già la scorsa settimana, dopo i primi due morti, si potevano intuire i prodromi di quest’azione di forza annunciata. Un generale vicino a “Hemetti” (numero due della TMC), il generale Othman Ahmed, aveva dichiarato che il sit in è un assembramento di: “prostitute e di spacciatori di Hascisc (…) un incrocio per ogni tipo di attività criminale”, tale da diventare una minaccia per i rivoluzionari e lo sicurezza dello stato stesso.
Un chiaro segnale di preparazione del terreno per ciò che è avvenuto lunedì.
Sempre la scorsa settimana c’è stata una ulteriore stretta sull’informazione, con la proibizione formale per gli operatori di “Al Jazeera” di svolgere il proprio lavoro. L’emittente araba aveva puntualmente documentato le mobilitazioni.
È significativo che questo lunedì la stampa internazionale sia stata confinata “a forza” in un hotel, da parte di personale che non si è qualificato.
Domenica erano giunti dalla capitale, dalle più remote zone rurali, dei bus con alcune migliaia di manifestanti che hanno dimostrato a favore della giunta militare e per il mantenimento della sharia – gridando “Askariya” ovvero potere ai militari, e “Islamiya” ovvero “potere all’islam” – rispondendo all’appello del predicatore Abdel Hay Youssef, del gruppo islamico Sostegno alla sharia. Un chiaro tentativo di organizzare una contro-mobilitazione reazionaria che giustificasse un intervento, per ridare un qualche protagonismo alle istanze fortemente rigettate dal popolo sudanese.
Lo sgombero ha fatto almeno trenta morti (ma il numero potrebbe essere maggiore) e alcune centinaia di feriti, congestionando le strutture sanitarie, insufficienti ad accogliere un tal numero di persone aggredite fisicamente o raggiunte da colpi d’arma da fuoco. Decine sono i dispersi.
I punti di accesso al presidio erano stati bloccati militarmente da membri delle milizie paramilitari. A nulla è valso il tentativo di resistenza messo in atto da alcuni membri del sit-in incendiando pneumatici, ed erigendo alcune barricate con mattoni.
Moschee e strutture sanitarie sono state attaccate con l’uso anche di armi da fuoco e gas lacrimogeni.
Persone sono state aggredite e si registrano tentativi di stupro da parte dei paramilitari.
Internet è stato completamente sospeso.
Un colpo di stato a tutti gli effetti, che ha imposto di fatto l’assedio della capitale: il quarto della storia del paese africano che a metà anni sessanta e a metà anni ottanta aveva reagito, così come sta avvenendo ora, defenestrando i golpisti.
L’ONU e l’Unione Africana, e altri esponenti della diplomazia, hanno condannato le violenze, propugnando una ripresa delle trattative. Ma si è giunti ad un punto di non ritorno, con l’SPA che ha dichiarato chiuse le trattative chiamando alla “disobbedienza civile totale” e allo sciopero. Uno dei suoi esponenti di spicco ha dato una alternativa secca alla situazione: “o noi o loro, non c’è altro modo”.
L’SPA ritiene responsabili del massacro le RSF – ex janjaweed – le forze della “sicurezza nazionale” ed altre milizie.
Nel suo comunicato del 3 giugno chiama ad una “escalation della rivoluzione” in 5 punti:
- ritiene “il consiglio del colpo di stato”, non più chiamato TMC, responsabile di ciò che è successo lunedì,
- taglia tutte le comunicazioni con questo organismo che sarà processato con la vittoria della rivoluzione,
- annuncia l’inizio dello sciopero generale e della disobbedienza civile di massa da questo lunedì “fino alla caduta del regime”,
- chiama i membri degni di rispetto della polizia e dell’esercito a proteggere il popolo dalle milizie e di unirsi al popolo nella lotta per la caduta del regime e la messa in piedi di un governo integralmente civile (di fatto invitando alla diserzione),
- chiama la comunità internazionale e regionale a denunciare il colpo di stato, negarne la legittimità, e stare a fianco al popolo sudanese.
E il grido di libertà di questo popolo non può essere ignorato