Abbiamo formulato a Cristiano Sabino, attivista sardo, ricercatore politico/sociale, impegnato nei vari movimenti di lotta antimilitaristi ed anticolonialisti, alcune domande sul dibattito in corso attorno agli “studi gramsciani”. Di Cristiano Sabino è prossimamente in uscita un saggio su Antonio Gramsci su cui ritorneremo più ampiamente appena il libro sarà disponibile.
Da anni – particolarmente fuori dalla ”provincia Italia” – si è riaccesa l’attenzione sul pensiero teorico e politico di Antonio Gramsci. In America Latina ed in Asia fioriscono autori, scuole di pensiero e seminari di approfondimento che affrontano l’opera del “rivoluzionario sardo” collocandola, a vario titolo, nel crogiuolo delle contraddizioni della moderna contemporaneità capitalistica. Come interpreti questa interessante e rinnovata attenzione?
Gramsci è una miniera inestimabile di riflessioni e studi sulla società a noi contemporanea perché ne ha analizzato alcune direttrici portanti proprio nel momento in cui questa si andava formando. In particolare Gramsci ha individuato nel tema della “rivoluzione passiva” un tratto distintivo tipico delle società moderne, cioè delle società che sviluppano la modernità in maniera autoritaria ed escludente e che la impongono in maniera coloniale o semi coloniale alle porzioni di mondo che vengono assoggettate.
La rivoluzione passiva è lo strumento tramite il quale la modernità viene sviluppata solamente in senso tecnico e tecnologico ma i cui vantaggi riguardano solamente minoranze di oligarchi o di stati privilegiati a tutto svantaggio della maggioranza della popolazione e della maggioranza dei popoli del mondo.
È un tema – come si può facilmente intuire – assai attuale e dalle infinite applicazioni in diverse realtà del pianeta dove la modernità si è presentata appunto sotto la forma della modernizzazione forzata e dove in effetti spesso ad oggettivi progressi in campo tecnico, infrastrutturale e scientifico non coincideva affatto alcun avanzamento nel campo sociale e culturale dei subalterni.
Non è un caso se leggendo Fanon e Said – giusto per fare due nomi eccellenti – la riflessione di Gramsci sia sempre sotto traccia e in diverse aree dei continenti africano e asiatico siano sorte vere e proprie scuole teoriche che si rifanno a Gramsci (Post-Colonial Studies statunitenti e i Subaltern Studies indiani, in particolare con l’opera di Ranajt Guha che ne è il fondatore).
Per comprendere il successo e la permanenza dell’opera di Gramsci nella nostra età dobbiamo capire che non si tratta solo di questioni intellettuali e di correnti di studi, perché Gramsci non era un “intellettuale” nel senso che noi diamo oggi a questo termine. Gramsci era un rivoluzionario e la sua stessa concezione di filosofia è completamente orientata alla creazione, diffusione e affermazione di concezioni del mondo nuove e quindi rivoluzionarie.
La maggior parte degli intellettuali a noi contemporanei, a partire da quelli di sinistra, sarebbe derubricata da Gramsci come “lorianesimo”, una categoria sotto la quale Gramsci includeva tutti gli stanchi ripetitori di idee pigre, passive, conformiste e trasformiste prive di reale coraggio e creatività.
È del tutto normale che il pensiero di Gramsci attecchisca in quelle parti di mondo dove non proliferi questo genere di intellettuali da cortile narcotizzati e magnetizzati dal sistema delle corti imperiali in via di disfacimento. Gramsci attecchisce là dove sono possibili nuove esperienze politiche e soprattutto nuovi rapporti di scambio reciproco tra intellettuali e popolo e quindi nuove direzioni della storia sociale e nazionale.
Ha ragione Giuseppe Vacca quando scrive che «l’incontro [con Gramsci] è più fecondo quando concorre a originare nuovi progetti politici e una nuova idea della politica». A Gramsci si torna quando si ha reale bisogno di reinterpretare dinamiche conflittuali e quando una cultura nazionale debba fare i conti con le lacerazioni lasciate dalla propria tradizione, dalla sofferenza di una modernità calata dall’alto o quando gruppi subalterni abbiano maturato il desiderio di porre fine a tale subalternità uscendo dal livello «economico-corporativo» delle proprie rivendicazioni puntuali per creare nuove visioni del mondo.
Sta qui il senso della «filosofia della prassi» che mantiene vivo il suo pensiero al di là e nonostante la riduzione all’erudizione a cui il pensiero di Gramsci viene sottoposto da epigoni e accademici.
Non so in Italia, ma in Sardegna credo che da questo punto di vista ci sia un enorme bisogno di tornare a Gramsci e di attingere a piene mani dalla sua cassetta degli attrezzi.
E’ oramai palesemente evidente che per un lunghissimo ciclo del corso politico del nostro paese l’interpretazione di Gramsci – da parte del Partito Comunista Italiano e dei suoi addentellati accademici – è stata quella di rendere la figura di Antonio una icona inoffensiva la quale veniva usata ed abusata per “giustificare” scelte politiche e collocazioni di campo che debordavano da ogni possibile orizzonte di trasformazione sociale e di rottura rivoluzionaria. Questa eredità negativa pesa tutt’ora nel dibattito attorno a Gramsci (vedi il paludato ambiente dell’Istituto Gramsci) dove continua ad affermarsi una griglia interpretativa che nega la valenza innovativa e rivoluzionaria del comunista dell’Ordine Nuovo, della Rivoluzione in Occidente e di Americanismo e Fordismo. A tuo giudizio quali possono essere i canovacci teorici che il pensiero di Gramsci ci trasmette per le battaglie adatte alla contemporaneità capitalistica?
Come detto Gramsci temeva di diventare un «cencio inamidato», cioè un oggetto inerte da mostrare nelle grandi occasioni ma privo di quella conflittualità che rende vitale qualunque forma di essere storico. Non solo è da confermare che Gramsci è stato fortemente depotenziato nel messaggio del PCI e utilizzato da sapienti ermeneuti del partito in un riformista ante litteram, ma le tesi stesse del Partito che lui aveva o scritto (Lione 1926) o fortemente influenzato (Colonia 1931) sono state completamente archiviate e la loro memoria storica del tutto cancellata.
Non è un caso che negli anni Settanta molti compagni e intellettuali rivoluzionari che contestavano il PCI da sinistra abbiano rifiutato Gramsci le cui tesi infatti non si rintracciano minimamente né nelle analisi, né soprattutto nelle pratiche dei movimenti della cosiddetta “nuova sinistra”.
Fu un errore gravissimo perché permise a quello che stava diventando il Partito Comunista di seppellire in una sorta di sarcofago dorato una testimonianza di metodo dialettico profondamente matura e rara. I gramsciani del PCI e seguenti (sono sopravvissuti molti di essi perfino all’estinzione del PCI e dei suoi epigoni) si sono comportati come gli aristotelici cristiani con Aristotele, inventando di sana piana un Gramsci tutto a immagine e somiglianza delle esigenze pratiche di un partito che aveva fatto della tattica parlamentare una dottrina ideologica e del processo rivoluzionario un feticcio mitico.
Molti di questi signori hanno persino distinto tra il Gramsci prima del carcere e quello dell’esperienza carceraria, non nel senso dei giusti e doverosi rilievi sul maturare della sua ricerca filosofica e politica, quanto sulla frattura tra un giovane Gramsci sardista, utopista e intemperante rivoluzionario e un Gramsci moderato, riformista, ostile ad ogni discorso di ribaltamento dei rapporti di forza.
Persino la dicitura “riforma intellettuale e morale” in luogo di “rivoluzione” è stata utilizzata a tal scopo distorcendo il senso profondo di questa categoria legata ai grandi sommovimenti della storia moderna (Riforma Luterana e Rivoluzione Francese con annessa ascesa del giacobinismo, solo per fare due esempi ricorrenti).
Ma questo esercizio di riduzione in formalina del metodo gramsciano fa parte del gioco e lui ne era perfettamente conscio perché non dimentichiamo che egli si era formato proprio nel periodo in cui il messaggio dei testi Marx era stato completamente distorto dal determinismo della Seconda Internazionale e in particolare dal revisionismo di Bernstein e dal «rinnegato Kautsky» che oggi forse non ricorda più nessuno ma che erano allora i pontefici del marxismo in terra.
La produzione di Gramsci e “su Gramsci” è enorme. Che indicazione ti senti di offrire, da attivista politico e sociale, per addentrarsi in una possibile comprensione di questo autore?
Innanzitutto un consiglio ai giovani: mollate i libri e gli articoli su Gramsci – compreso il mio ovviamente – e leggete Gramsci. Prendetevi qualche mese per immergervi nei suoi testi e studiatelo con tutta la concentrazione e la profondità che riservereste al viaggio più importante, all’amore della vita, al lavoro dei vostri sogni. Gramsci o lo si legge così o per imparare qualche citazione da piazzare sui social sull’indifferenza o sul capodanno è meglio lasciar perdere.
Riguardo ai “canovacci” diffiderei, perché credo che gli elementi vitali di Gramsci non consistano appunto in un quadro che riassume o riepiloga le scene fondamentali del suo pensiero. Io penso che sia altamente consigliabile acquisire il suo metodo di analisi ed indagine, gli strumenti di lettura che ci portano a considerare la realtà in maniera articolata e complessa, dinamica e storicamente viva, a rifiutare ogni semplificazione deterministica e ogni riduzione semplificata dei processi di trasformazione e rinnovamento a bignami rivoluzionari.
E ci aiutano soprattutto a identificare e comprendere la natura e la sostanza dei rapporti di subalternità ovunque e sotto qualunque spoglia essi si presentino. Così come Hegel è stato salvato dalle grinfie degli hegeliani da un non hegeliano (per lo meno non in senso stretto), Marx dai marxisti ortodossi da un marxista eretico come Lenin, forse qualcuno riuscirà a rimettere in circolazione Gramsci strappandolo dalla mortifera presa degli istituti Gramsci, dei professoroni di Gramsci, dei libroni su Gramsci e dei gramsciani di professione.
In tempi di accentuazione della contraddizione Nord/Sud a scala interna e continentale, mentre lievita la discussione su “Autonomia Differenziata” e nuova polarizzazione delle disuguaglianze economiche e sociali, anche sul versante del territorio, quali possono essere i termini utili della “Questione Meridionale” (aggiungerei Mediterranea, nella fase del costruendo polo imperialista europeo) – che Antonio Gramsci sapientemente elaborò in contesti storici difficili – i quali tornano attuali per la nostra prospettiva di emancipazione e di liberazione dagli attuali rapporti sociali?.
In un articolo del 1920 su Ordine Nuovo intitolato Operai e Contadini Gramsci ci dice come la pensa sul rapporto nord-sud-Sicilia e Sardegna (Gramsci differenziava sempre tra il sud e le due isole):
«La borghesia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole e le ha ridotte a colonie di sfruttamento; il proletario settentrionale, emancipando se stesso dalla schiavitú capitalistica, emanciperà le masse contadine meridionali asservite alla banca e all’industrialismo parassitario del Settentrione»
Su questo concetto Gramsci ha lavorato tutta la vita da questa intuizione egli ha tratto alcune elaborazioni fondamentali: 1) Lo stato italiano «si è costituito imperialisticamente» e il cosiddetto Risorgimento non è altro che una rivoluzione passiva fondata sull’assoggettamento coloniale prima della Sardegna e poi del sud Italia e della Sicilia; 2) Al blocco (storico) di industriali del nord e agrari del sud si sarebbe dovuto contrapporre un blocco altrettanto ferreo tra operai del nord e contadini del sud. Solo così la decolonizzazione avrebbe avuto successo; 3) Il Partito Comunista d’Italia (e non Partito Comunista Italiano – e in quel “d’Italia” sta tutta l’enorme antitesi tra i due progetti) sarebbe dovuto essere il collante storico della decolonizzazione del meridione che, in fin dei conti, è per Gramsci una questione coloniale.
Nei giorni dell’arresto di Gramsci, in seguito alle leggi fascistissime, Gramsci stava lavorando proprio su questi temi. Ve lo immaginate oggi un dirigente intellettuale che con il fascismo al potere invece di invocare fronti uniti per battere le destre a scapito di qualunque contenuto progressivo si mette a studiare il rapporto coloniale che una parte dello stato intrattiene con le aree marginalizzate, spoliate e forzosamente acculturate?
Il manoscritto Alcuni temi della quistione meridionale andò smarrito nei giorni dell’arresto di Gramsci e fu ritrovato da Camilla Ravera tra le carte abbandonate nell’abitazione di via Morgagni e pubblicato solo nel gennaio 1930 a Parigi nella rivista Stato Operaio. Lo scritto non era completo, ma in nuce sono contenuti i temi centrali poi sviluppati nei Quaderni. Possiamo anzi dire che molti dei temi contenuti nei Quaderni non sono altro che lo svolgimento paziente e organico di questo testo.
Il ragionamento parte proprio da un incipit polemico rivolto contro gli autori della rivista Quarto Stato e con la citazione proprio del testo citato sopra sul Settentrione che soggioga il meridione e le isole riducendole a «colonie di sfruttamento».
Sette anni dopo, nei gironi in cui il fascismo era all’avvento, in riferimento al carattere coloniale del capitalismo italiano Gramsci scriveva quanto segue «sono passati sette anni e noi siamo più anziani di sette anni anche politicamente; qualche concetto potrebbe essere oggi espresso meglio, potrebbe e dovrebbe essere meglio distinto il periodo immediatamente successivo alla conquista dello Stato, caratterizzato dal semplice controllo operaio sull’industria, dai periodi successivi.
Ma quello che importa notare qui è che il concetto fondamentale dei comunisti torinesi non è stato la “formula magica” della divisione del latifondo, ma quello della alleanza politica tra operai del Nord e contadini del Sud per rovesciare la borghesia dal potere di Stato». Decolonizzazione e lotta per la società socialista per Gramsci vanno di pari passo e sono aspetti della stessa medaglia.
Questo è importante da un lato perché ci aiuta a capire la genesi intellettuale e politica delle Tesi di Lione e di Colonia che riportano la eco di questa impostazione e addirittura la sviluppano fino al riconoscimento del «diritto all’autodeterminazione fino alla separazione» delle repubbliche confederate (Nord, Sud, Sicilia e Sardegna), dall’altro ci rende intellegibile come e perché Gramsci sia stato recepito dai Subaltern Studies.
Per quanto riguarda la condizione di subalternità della Sardegna (ma non solo, viaggiando e discutendo con tante realtà del sud e della Sicilia proprio di questi temi mi sono reso conto come in realtà la sofferenza coloniale del sud, della Sardegna e della Sicilia descritta da Gramsci sia solo cambiata di segno ma nella sostanza rimanga inalterata nonostante la forma repubblicana della dominazione che subiamo) credo che dobbiamo avere il coraggio di tornare a Gramsci e alla sua lettura.
Ovviamente non è riproponibile il nesso operai-contadini così come lo descriveva lui in tempi e contesti profondamente diversi e non è nemmeno riutilizzabile l’idea che la liberazione di una classe, fra l’altro geograficamente localizzabile, aiuterà tutti a liberarsi dai ceppi del capitalismo-colonialismo.
Ma sul piatto della nostra bilancia non ci sono formulette, intellettuali organici precostruiti la cui massima aspirazione è quella di mettere capo ad una pseudo repubblica pseudo antifascista fondata sullo pseudo lavoro e misticamente unita e indivisibile in sæcula sæculorum.
Sul piatto della nostra prospettiva di emancipazione e di liberazione dagli attuali rapporti sociali c’è l’idea che i rapporti di subalternità (tutti, da quello classico capitale-lavoro a quelli coloniali insiti nel contesto di un medesimo stato a quelli su cui si fondano i vincoli di austerità dell’Unione Europea e le glaciali logiche della ragione ultra liberale) vadano spezzati e il tavolo su cui si poggiano apparecchiato con corredo democratico, plurale, tollerante, civile e rispettoso delle differenze e delle minoranze, vada rovesciato. Con intelligenza, lungimiranza, senso della storia certo, ma sempre di un necessario rovesciamento stiamo parlando.
Nella tua ricerca neghi – a mio giudizio a ragione – la mistificante narrazione che vorrebbe Gramsci come un autore del lungo “risorgimento italiano”. Puoi articolare questa tua chiave interpretativa e descrivere meglio i tratti peculiari dell’attitudine gramsciana su questo versante della “storia nazionale”?
Per Gramsci il Risorgimento italiano era un caso emblematico di Rivoluzione Passiva e per questo lo stato italiano – che si regge su rapporti coloniali interni prima che esterni – tende naturalmente al fascismo, altro caso emblematico di Rivoluzione Passiva.
Risorgimento, colonialismo interno e fascismo sono tre fasi del medesimo processo, le loro conseguenze nefaste non sono separabili e non si tratta di errori o di parentesi buie archiviabili e correggibili come invece sosteneva Benedetto Croce.
La cosa curiosa è che anche i migliori gramsciani, quelli che meglio mettono in luce gli aspetti antideterministici del suo pensiero e della sua azione e che non riducono Gramsci ad un intellettuale astratto deprivandolo di tutti i suoi contenuti di classe, quando si discute di queste cose staccano la spina e vanno come in trance.
Succede per esempio ad un mio connazionale abbastanza quotato nella scena neogramsciana e autore di un bellissimo libro appena sfornato dal Brasile dove è professore di Filosofia politica alla Universidade Federal de Uberlandia, “Antonio Gramsci. L’uomo Filosofo”. Sul suo blog è sempre reperibile un interessante articolo intitolato Questione meridionale e questione sarda. I temi dell’Autonomia e l’elaborazione dei Comunisti pubblicato il giugno del 2011 [http://www.giannifresu.it/2011/06/questione-meridionale-e-questione-sarda/
Qui il mio connazionale fa delle giravolte deterministiche veramente magistrali pur di fare aderire il pensiero e soprattutto il metodo di Gramsci al fatale destino di fusione permanete e definitiva della Sardegna con la Repubblica italiana.
Fresu, solitamente preciso e puntuale nell’opera di storicizzazione e ricostruzione del dibattito storiografico comunista, scrive quanto segue senza sentire il bisogno di far notare quanto queste posizioni fossero in completa e aperta antitesi non solo con la linea di Gramsci pocanzi descritta, ma con le tesi stessi del PCd’I degli anni Venti e Trenta:
«Bisogna infatti ricordare che nel dibattito dell’Assemblea costituente la posizione del PCI era più orientata verso il municipalismo, che rivendicava la continuità storica con la tradizione dei Comuni e intendeva mettere a valore il patrimonio delle «cento città». Secondo quella posizione, la creazione di una struttura federale o a forte regionalismo avrebbe invece portato al consolidarsi dei blocchi di potere che dominavano il Mezzogiorno acuendo la frattura tra Nord e Sud, ma soprattutto avrebbe impedito l’attuazione organica ed omogenea delle riforme a carattere generale, le cosiddette «riforme di struttura». Dunque solo per Sardegna e Sicilia si prevedeva un ipotesi di specialità nell’attribuzione di competenze, facendo però salva la capacità impositiva e d’intervento dello Stato, che era ritenuto il solo organo capace di reperire le risorse e approntare gli strumenti per le profonde trasformazioni economiche e sociali che le due Isole necessitavano»
Le famose cento città sarde! I famosi “comuni sardi”! Tutta l’elaborazione gramsciana sulla questione meridionale come questione coloniale: cancellata! Federazione di quattro repubbliche: cancellata! Scioglimento della questione coloniale: rimosso. La Repubblica federale degli operai e dei contadini diventa un generico «Stato, che era ritenuto il solo organo capace di reperire le risorse e approntare gli strumenti per le profonde trasformazioni economiche e sociali che le due Isole necessitavano».
Sta proprio qui il segno eclatante della mutazione genetica del pensiero di Gramsci sulla tanto citata “questione meridionale”: quella che in tutta l’attività e l’analisi del rivoluzionario sardo era una questione legata alla genesi dello Stato costituitosi in maniera imperiale e coloniale (Risorgimento, democrazia autoritaria di Crispi e poi il Fascismo) e che sarebbe stata sciolta soltanto da un’azione congiunta di tutte le forze economiche, sociali e politiche rivoluzionarie (comprese le istanze popolari che avevano dato vita al Partito Sardo), diventa nei gramsciani capitanati oggi da Fresu una questione astratta risolvibile dall’azione di una forma stato intesa come forza super partes che dall’alto avrebbe garantito le trasformazioni economiche e sociali necessarie per realizzare il bene della Sardegna.
Insomma, senza voler oltremodo annoiare e anticipare temi che tratterò in maniera più puntuale in un mio prossimo lavoro, all’insegna del gramscismo si è velocemente passati da un pensiero immanente, rivoluzionario, dialettico, storicistico ad una sorta di dispotismo illuminato che concepisce la Repubblica come buon padre che pensa al bene dei subalterni sub specie aeternitatis e che fa spallucce a quanti ricordano che la sostanza dello sfruttamento e dell’assoggettamento del Settentrione capitalista e colonialista verso il sud, la Sicilia e la Sardegna non è affatto cambiata e che anzi è in forte fase di recrudescenza.
Dietro tante belle parole e giri di valzer retorici si nasconde una idea di Gramsci come di un Garibaldi un po’ più colto e meno folkloristico che sta però a garanzia dei sacri valori dei numi patrii dello stato indivisibile e intoccabile. Insomma proprio quel cencio inamidato che Gramsci temeva di diventare.