In preparazione dell’iniziativa del prossimo 3 ottobre a Roma, organizzata dalla RdC, sui “70° anniversario della proclamazione della Repubblica Popolare Cinese e, più compiutamente come contributo alla discussione su questo importante snodo storico/teorico e politico pubblichiamo l’introduzione al libro “Ribellarsi è giusto” (una raccolta di scritti di Mao Tse-tung curata dal compagno Roberto Sassi che sarà un relatore all’iniziativa del 3/10 a Roma.
Dalla introduzione alla terza edizione di Mao Tse-tung, Ribellarsi è giusto!, Ed. Gwynplaine, 2013.
Il vento non si ferma neanche se gli alberi vogliono riposare
Mao Tse-tung, 2 giugno 1966.
Una montagna di menzogne ci opprime, una filosofia dell’irreversibile e dell’ineluttabile vuole imporci l’accettazione incondizionata dello stato di cose presente. La Storia ci chiude la bocca, curva le nostre spalle. E son sempre di più quelli che, stanchi di cercare l’ago nel pagliaio, cominciano a pensare che la paglia non è poi tanto male…
Tempi bui, davvero tempi bui: tempi di disastri e stragi, tempi di tirannia.
Il Nuovo Ordine Mondiale Imperialista, dopo aver celebrato i suoi fasti, è precipitato in una crisi di sistema senza precedenti.
Il mercato ha regolato tutti i conti, a modo suo, ma i conti non tornano.
È tempo di incominciare la Rivoluzione
Per questo Mao Tse-tung è attuale, oggi più che mai. Di più, il pensiero di Mao è indispensabile a chi non vuole arrendersi alla morte delle intelligenze, dei corpi e della natura.
Il pensiero di Mao, “roba da scemi, da gruppetti folklorici e settari, ormai sepolti in un un passato di vergogna di cui è OBBLIGATORIO pentirsi”. Chi ci dice questo altro non ci propone se non sfruttamento, inquinamento e guerra – l’orizzonte insuperabile del dominio del capitale.
Vogliono imporci un “si” convinto, o perlomeno rassegnato. Mao ci insegna a dire “no”.
Se una montagna di menzogne ci opprime, solo con la tenace follia di Yu Kung potremo liberarcene.
Solo con gli occhi del vecchio pazzo possiamo vedere, nell’ora più buia, l’approssimarsi dell’aurora.
Icaro involato
Gli anni fra il 1965 ed il 1975 possono essere considerati gli anni della grande offensiva proletaria: il ciclo favorevole per l’accumulazione capitalistica, iniziato dopo la Seconda guerra mondiale, dà evidenti segnali di esaurimento, e già si profila quella crisi che dovrà deflagrare nel decennio successivo, la politica krusceviana della “coesistenza pacifica” mostra la corda di fronte alle esperienze cubane e cinesi, il movimento operaio e soprattutto i movimenti di liberazione del Terzo Mondo conoscono un nuovo grande slancio. E’ il 1965 l’anno in cui Lin Piao pubblica “Viva la vittoria della guerra popolare!” e Che Guevara tiene il famoso “Discorso di Algeri”, testi in cui troviamo una nuova strategia di lotta antimperialista delle masse popolari.
“Da quando i capitali monopolistici si sono impadroniti del mondo, hanno mantenuto nella povertà la maggior parte dell’umanità, mentre i guadagni venivano divisi tra i paesi più forti. Il livello di vita di questi paesi è fondato sulla miseria dei nostri; bisogna dunque lottare contro l’imperialismo per innalzare il livello di vita dei popoli sottosviluppati. E ogni volta che un paese si stacca dal tronco imperialista non solo si vince una parziale battaglia contro il nemico fondamentale, ma si contribuisce anche al suo reale indebolimento e si fa un passo avanti verso la vittoria definitiva.”
(Ernesto Che Guevara, Discorso di Algeri)
Nel 1968, con l’offensiva del Tet, l’imperialismo USA subisce in Vietnam una sconfitta analoga a quella dei nazisti a Stalingrado, le lotte di liberazione in tutto il mondo ne ricevono uno slancio formidabile. “Agnelli l’Indocina ce l’ha in officina!” Così gridavano gli operai italiani durante l’”autunno caldo” del 1969, volevano affermare l’unità con la guerriglia vietnamita e con i popoli del mondo in lotta contro l’imperialismo, ma soprattutto quello slogan conteneva una minaccia, anzi, qualcosa di più, una pratica di lotta che nella durezza, nell’intransigenza e fin nelle forme (gli scioperi a “gatto selvaggio”, gli scontri di piazza) si ispirava alla guerriglia “accerchiante” del Terzo mondo.
Icaro fulminato
I principali quotidiani cinesi pubblicarono un unico editoriale nel capodanno del 1970, intitolato “Diamo il benvenuto ai grandi anni Settanta”, che si apriva con una direttiva di Mao: “I prossimi 50 o 100 anni, a cominciare da ora, saranno una grande epoca di radicali cambiamenti nel sistema sociale in tutto il mondo, un’epoca di grandi sconvolgimenti, un’epoca alla quale non è paragonabile nessun’altra nella storia.” Difficile, oggi non riconoscere la verità di questa affermazione, senonché sono radicalmente mutati i rapporti di forza fra le classi, e non certo nel senso auspicato da Mao. Significa questo che è mutato il carattere rivoluzionario dell’epoca in cui viviamo, ovvero, viviamo in un’altra epoca? Molti hanno risposto di si. Forse però è necessaria una comprensione più approfondita della temporalità rivoluzionaria, che distingua fra epoche e fasi storiche. Oggi attraversiamo una fase controrivoluzionaria in un’epoca rivoluzionaria, una fase in cui il movimento proletario subisce gli effetti di una controffensiva imperialistica che ha sconvolto le basi su cui si reggeva la strategia comunista, senza però riuscire a risolvere le contraddizioni fondamentali che generano l’antagonismo sociale, e quindi il carattere rivoluzionario dell’epoca storica. Risulta quindi imprescindibile comprendere le cause di questa trasformazione della fase, per poter elaborare una nuova strategia rivoluzionaria.
La principale trasformazione (anch’essa “rivoluzionaria”, anche se in senso lato) è stata così descritta: “Il terzo quarto del secolo ha segnato la fine di sette o otto millenni di storia umana, iniziati all’età della pietra con l’invenzione dell’agricoltura, se non altro perché è venuta al termine la lunga era nella quale la stragrande maggioranza del genere umano è vissuta coltivando i campi e allevando animali.” (Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve)
La ristrutturazione capitalistica, oltre a sconvolgere i connotati della classe operaia con la nuova organizzazione del lavoro “flessibile”, ha radicalmente mutato il quadro delle alleanze di classe. Come rilevò a suo tempo J. Chesneaux “Vi è stata tutta una corrente di idee, che proiettava a scala planetaria l’idea dell’accerchiamento delle città da parte delle campagne: Guevara naturalmente, i comunisti indonesiani, Lin Piao con il suo grande testo del 1965 sull’accerchiamento della “città mondiale”. Quella di Lin Piao era una vasta impostazione politica e ideologica, comportava sia l’Australia che il Canada, così come gli Stati Uniti e l’Europa occidentale: la “città mondiale” era accerchiata dal “villaggio mondiale”. Queste tesi sono oggi superate in quanto non esiste più la situazione di una forza contadina mondiale, relativamente libera nei confronti delle città e dall’insieme delle attività economiche ivi concentrate: Il Terzo mondo degli anni Ottanta si svuota di contadini: ormai ci sono più contadini nelle città che nelle campagne, e fra questi due poli c’è la periferia, la trasformazione del Terzo mondo in un’immane periferia se non addirittura la sua trasformazione in una “baraccopoli mondiale”: Basti pensare a Città del Messico: saranno trenta milioni di abitanti alla fine del secolo. Che cosa sono: contadini? Cittadini? Né l’uno, né l’altro, e soprattutto non sono certamente delle persone in una situazione di accerchiamento vittorioso della città da parte delle campagne, anche se questi trenta milioni di abitanti di Città del Messico (attualmente sono già venti milioni) sono stati effettivamente scacciati dalle campagne ad opera della “rivoluzione verde”.” (Jean Chesneaux, intervento al convegno Mao Zedong: storia e politica dieci anni dopo, 1986)
Eccoci al cuore del problema: come gli sventramenti di Parigi operati dall’urbanista modernizzatore Haussmann privarono la strategia insurrezionalista della tattica barricadera, condannando i comunardi del 1871 alla sconfitta (dove i sanculotti avevano conosciuto il trionfo nel 1789) così la guerriglia antimperialista ha conosciuto, un secolo dopo, un analogo scacco per effetto degli “sventramenti” che hanno “modernizzato” le aree rurali del pianeta.
Nel 1971 Lin Piao veniva fulminato sui cieli della Mongolia, il Che lo aveva preceduto nella tragedia qualche anno prima: l’Icaro proletario aveva osato troppo. Nel 1975 la vittoria del Vietnam, ma da lì in poi sarà solo una parabola discendente per il movimento rivoluzionario, prima contenuta, poi rovinosa.
L’imperialismo ha risposto alla grande offensiva proletaria della seconda metà degli anni Sessanta (ed alle sue contraddizioni interne, che negli stessi anni maturavano in crisi di sovrapproduzione di capitali) con una strategia che ha rivoluzionato l’intero modo di produzione capitalistico.
La distruzione delle economie rurali di sussistenza, attraverso le “rivoluzioni verdi”, la proletarizzazione di sterminate masse contadine del Terzo mondo e la loro urbanizzazione nei ghetti metropolitani, la trasmigrazione delle produzioni industriali dalle loro sedi storiche verso queste aree (e poi di continuo, inseguendo le occasioni di sfruttamento di forza lavoro a salari più bassi) sono tra le condizioni generali che hanno consentito da una parte di intervenire sulle contraddizioni del capitale con se stesso, passando dal fordismo al toyotismo, dall’altra di “inquinare” l’acqua dove nuotavano i movimenti antimperialisti.
Le metropoli del capitale
Dunque, dall’ultimo quarto del ‘900, che è fase di crisi profonda di sovrapproduzione di capitali, la risposta imperialista alla crisi ed alle lotte proletarie e popolari (“piano Kissinger” del 1973) ha portato trasformazioni nelle condizioni generali della produzione (nello sfruttamento della natura, nella distribuzione demografica, negli assetti urbani, ecc.) e nelle condizioni specifiche della produzione (incorporazione nelle macchine delle funzioni mentali di calcolo e memoria, nuova organizzazione del lavoro, ecc.). La risultante generale di queste trasformazioni è la riduzione del salario sociale correlata all’estensione e intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori.
Il marxista inglese David Harvey ha svolto una analisi molto approfondita su questi fenomeni: con La crisi della Modernità è riuscito a cogliere, nella sua multiforme concretezza, l’insieme delle trasformazioni del capitalismo, tracciando anche un monumentale affresco dell’epoca moderna, ed individuando nelle trasformazioni degli spazi urbani (e, più in generale dell’esperienza dello spazio e del tempo) uno dei gangli fondamentali della nuova fase storica. Harvey parla di “accumulazione flessibile” per definire la fase attuale, caratterizzata dalla stagnazione nell’accumulazione e dalla flessibilità nella produzione. L’obbiettivo fondamentale, per usare le parole del “guru” del toyotismo, Taijchi Ohno, è quello di “sopravvivere in un’epoca di crescita lenta”, o, senza eufemismi, di crisi del capitalismo.
La tendenza alla caduta del saggio medio di profitto non provoca il crollo del capitalismo automaticamente, ma spinge il capitale ad un processo rivoluzionario radicale, che riguarda le basi stesse del modo di produzione. Questo significa che la rivoluzione industriale che parte dalla crisi degli anni ’70, trasforma radicalmente il modo di produzione capitalistico, con l’automazione del controllo sul lavoro.
Con l’estensione alle funzioni di controllo, la prevalenza del lavoro morto sul lavoro vivo compie un salto di qualità, acuendo l’antitesi fra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione. Infatti, questo significa la fine del lavoro “in cui l’uomo fa ciò che può lasciar fare alle cose in vece sua”. Mentre la forza-lavoro resta l’unica merce il cui consumo crea valore. Questa contraddizione impone al capitale nuove forme di comando sul lavoro, che si articolano in un sistema di rapporti sociali neocorporativo.
La risultante di tali processi è da un lato una ulteriore polarizzazione sociale, dall’altro la costituzione di un vasto proletariato metropolitano, estremamente mobile, che accorpa settori di classe operaia “tradizionale”, i vari comparti dell’esercito industriale di riserva, in cui confluiscono contadini urbanizzati, piccolo borghesi proletarizzati, studenti senza prospettive, ecc.. In qualche modo, assistiamo ad un ritorno alla sottomissione formale di processi produttivi reali che per loro natura trascendono il modo di produzione capitalistico. Nell’attuale fase dell’accumulazione flessibile del capitale, lo stoccaggio della forza-lavoro nelle periferie metropolitane, l’estensione e l’intensificazione del comando neocorporativo sul lavoro, comportano la trasformazione dell’esercito industriale di riserva nel settore preponderante della classe lavoratrice, mentre si fanno sempre più frastagliati e mutevoli i confini fra i settori attivi e di riserva.
Il mondo si è sempre più rimpicciolito, le zone rurali si sono sempre più spopolate, le metropoli si sono sempre più estese e connesse fra loro con reti di trasporto e comunicazione. La densità di popolazione urbana è enormemente superiore alla densità di popolazione astratta su tutto l’ecumene. Fourier e Marx definivano le fabbriche ergastoli, oggi l’ergastolo si estende all’intero territorio metropolitano, questa è la condizione perché l’industria flessibile cresca in termini di produzione di valore riducendosi in termini di occupazione. Queste forme di schiavismo industriale sono il motore dell’ipercompetizione capitalistica. Ne abbiamo notizia dai rapporti sulle New Industrializated Countries del Pacifico come dalle cronache (sporadiche) su qualche irruzione di carabinieri in laboratori di sartoria in Campania o pelletterie cinesi in Toscana.
Dobbiamo considerare come il carattere intimamente sociale del salario, in quanto forma necessaria del rapporto di capitale, la sua dimensione collettiva, di classe, non si riducano alla busta-paga, al denaro direttamente percepito dal singolo lavoratore, ma al complesso dei costi di riproduzione della forza-lavoro. La metropoli è la macchina che abbatte questi costi di riproduzione. La macchina metropolitana è cablata, il suo sistema nervoso, la sua connessione con il mercato mondiale, è basata sulla automazione del controllo, così come la fabbrica flessibile. Il sistema nervoso della macchina metropolitana è ben protetto, almeno dalle forme tradizionali di lotta di classe, e dalla breve durata delle rivolte. Il suo punto debole potrebbe essere proprio il tempo. L’annullamento dello spazio attraverso il tempo, la “compressione spazio-temporale” che caratterizza l’odierna dimensione metropolitana (il riferimento è sempre alle analisi di Harvey), pur producendo effetti reali, ha in ultima istanza un carattere ideale, in gran parte illusorio, ideologico. Messo a nudo, un nervo duole in modo insopportabile, la crisi finanziaria deflagrata nel 2007 sta lì a dimostrarlo.
Se l’informatica è il sistema nervoso della macchina metropolitana, la rete stradale e la rete dei trasporti nel suo complesso (ferrovie, aeroporti, ecc.) ne costituiscono lo scheletro, l’asse portante. Il tessuto dei fabbricati ammassa attorno a questo scheletro quantità sovrabbondanti di forza-lavoro, secondo la gerarchia delle aree industriali e dei quartieri residenziali, dei centri direzionali e dei ghetti, ecc. . La produzione, organizzata in maniera flessibile, trova i requisiti ambientali idonei per il suo massimo decentramento, fino alla mobilità, alla fluidità completa che è lo stato di grazia per combattere la guerra di guerriglia dell’ipercompetizione capitalistica.
I movimenti antagonistici del proletariato metropolitano -intesi come movimenti di massa di reazione all’affermarsi dell’accumulazione flessibile- hanno un carattere di resistenza e coinvolgono prevalentemente i settori tradizionali della classe lavoratrice e settori di tecnici e impiegati drasticamente emarginati dall’automazione del controllo. Si manifestano in scioperi e grandi cortei, ma anche in blocchi del sistema dei trasporti. Spesso, sempre più spesso e sempre più diffusamente, a questi movimenti si aggregano, od esplodono autonomamente, movimenti di rivolta, con caratteri più violenti, di saccheggio, di scontro fisico con le forze repressive, di imprevedibilità, di breve periodo. Queste rivolte coinvolgono prevalentemente settori giovanili, emarginati dalla produzione, privi di garanzie contrattuali collettive, di canali di accesso al salario sociale.
L’acuirsi della crisi ha moltiplicato esponenzialmente la diffusione delle lotte in tutto il mondo. In India, Nepal, Filippine, movimenti guerriglieri espressamente maoisti stanno resistendo da decenni, rafforzandosi e conseguendo importanti vittorie. In America Latina sembra di assistere ad una vendetta del Che: l’imperialismo USA perde terreno, indios, leader rivoluzionari o progressisti, a volte con un passato di guerriglieri, governano in vasta parte del continente, contrastando vigorosamente il dominio delle multinazionali. L’Europa e gli stessi USA sono attraversati da vasti movimenti di massa.
Dunque, inchiesta, pratica, contraddizione, guerriglia, lunga durata, autonomia (“contare sulle proprie forze”) sono categorie maoiste che possono tornare a diventare armi affilate della lotta di classe nelle metropoli.
Nel 1989 è finita la fase del movimento comunista mondiale che ha ruotato intorno all’esperienza del socialismo reale, ovvero dell’URSS come stato-guida del campo socialista e dei partiti comunisti generati dalla terza Internazionale come dirigenti del movimento operaio. Il comunismo novecentesco ha prodotto nella teoria un marxismo “costituito”, cioè un sistema ideologico compiuto, che aveva la funzione di legittimare partiti e stati sorti da esperienze rivoluzionarie, ma degenerati in apparati istituzionali intimamente conservatori, volti alla propria perpetuazione. I comunisti debbono impegnarsi in un grande sforzo creativo, perché il marxismo non può che essere una teoria “costituente”, un pensiero-movimento che si arricchisce continuamente con l’incremento delle esperienze di lotta e con l’approfondimento dell’analisi concreta della situazione concreta. Il maoismo costituisce storicamente e teoricamente la terza tappa del comunismo (dopo Marx e Lenin) proprio perché è un pensiero costituente, concreto, in continuo rapporto con la prassi e non un pensiero unilaterale ed astratto, un dogma.