| english | italiano |
L’arresto della compagna Nicoletta Dosio è – sicuramente – un atto odioso da qualsiasi punto di vista s’intenda interpretarlo.
L’esecuzione dell’ordine di cattura, la tempistica temporale adottata, l’età della Dosio assieme alla compresenza di alcune patologie mediche e la sostanziale irrilevanza penale del “reato” ascritto (si tratta di circa 700 Euro che la Società Autostradale avrebbe perso a causa dell’azione di lotta di Nicoletta e degli altri attivisti No Tav) avrebbero consigliato ai solerti giudici del Tribunale di Torino un comportamento meno plateale e ridondante e non, necessariamente, orientato verso la obbligatoria carcerazione della compagna.
Invece a poche ore dalla fine dell’anno è scattata la “brillante operazione” che ha condotto alle Vallette la “pericolosa sovversiva”.
Questa vicenda – quindi – se, da un versante, conferma il carattere persecutorio e di aperta vendetta penale contro i protagonisti di una battaglia sociale che ha segnato il corso del conflitto nel nostro paese (la lotta dei No Tav nasce alla fine degli anni ottanta ed è tutt’altra che pacificata) è, però, sintomatica delle caratteristiche costitutive e vigenti della natura dello stato nelle società a capitalismo avanzato.
Attorno al caso della Dosio – al di là delle schermaglie procedurali circa la possibilità del ricorso alle cosiddette misure alternative di detenzione – la Magistratura (ossia uno dei pilastri fondamentali della forma/stato del capitale) ha fatto prevalere il principio della sacralità del “monopolio dell’uso della forza” e della “dittatura della borghesia e dei suoi codici” su ogni espressione contraddittoria con il suo dominio.
Questo aspetto, che lo Stato, fa valere ogni volta che sul terreno giudiziario o della “governance” di alcuni “contesti di crisi” si paventa – anche solo prospetticamente – la possibilità di una critica radicale agli istituti dell’ordinamento esistente è un concetto che occorre tenere a mente e da cui trarne le necessarie lezioni teoriche e politiche.
Basta ripercorrere la storia del nostro paese ed è possibile enucleare questo filo nero che marchia inesorabilmente la natura di classe ed il portato antiproletario delle variegate forme del comando dello Stato.
Naturalmente bene ha fatto la compagna Dosio – fin dai mesi scorsi – a sottrarsi dallo stucchevole “giochetto” sulle “alternative al carcere” e bene ha fatto a rivendicare le ragioni sociali della lotta No Tav e del complesso delle mobilitazioni contro l’immane devastazione che questa famigerata opera comporterebbe nell’eco/sistema della Val di Susa.
In tale contesto la solidarietà umana e politica della Rete dei Comunisti a Nicoletta ed agli altri attivisti arrestati è un dato irrinunciabile il quale andrà ulteriormente amplificato e raccordato con le prime mobilitazioni (a cominciare da quelle che Potere a Popolo ha messo in campo in decine di città italiane nella giornata del 31/12) che si stanno iniziando a configurare e che dovranno proseguire fino alla liberazione di Nicoletta.
Ma questo atto repressivo è solo quello “più spettacolarizzato” di un accentuazione delle politiche securitarie e repressive che si stanno addensando nei posti di lavoro, nei territori e nel complesso della società.
Nei mesi scorsi (all’epoca del governo Conte 1) facevamo notare che le misure contenute nei vari “pacchetti Sicurezza” non erano solo espressione del particolare odio anti migranti del “fascista Salvini” ma rappresentavano un attacco all’intero arco delle forme del conflitto sociale e sindacale. Una “lettura” questa non condivisa malevolmente da quanti nella nostrana “sinistra” erano orientati ad ostacolare (neanche troppo!) solo le parti di queste leggi riguardanti la criminalizzazione degli immigrati!
Infatti tali misure che il governo Conte 2 evita, nella sostanza normativa, di mettere in discussione sono state la sintesi progressiva e sempre più sapiente dei vari decreti e provvedimenti che nel corso degli anni (..con o senza la presenza del “fascista Salvini”) sono stati elaborati e varati per costruire quella gabbia di criminalizzazione del conflitto e di inasprimento delle pene che, di fatto, determinano nel nostro paese quella “democrazia autoritaria” di cui iniziano ad avvertirsi i primi effetti antisociali.
Certo non che fino ad ora l’Italia (basta conoscere un po’ la storia del Belpaese) brillasse per garantismo o civiltà giuridica. Lungi da noi accreditare l’immagine di un paese che non è mai esistito se non nei sogni degli esegeti dello “stato democratico di tutto il popolo” i quali però sono sempre stati smentiti dal corso materiale dei fatti e dagli inenarrabili misfatti compiuti – ieri come oggi – nel nome della “democrazia”.
Come valutare, altrimenti, le pesanti sanzioni economiche contro i lavoratori di Prato in lotta per la difesa del posto di lavoro oppure il costante ricorso ad articoli del Codice Penale che prevedono pene pesantissime anche in assenza di eventi che, anche solo lontanamente, potrebbero configurare l’utilizzo di simili codicilli (come il processo in corso a Napoli contro 9 giovani compagni accusati di “devastazione e saccheggio” per un corteo che protestava contro una kermesse di Salvini nella città partenopea).
O, ancora, l’asfissiante clima di intimidazione e di persecuzione che registriamo ai cancelli di una fabbrica per un volantinaggio oppure i mille impedimenti che si riscontrano per organizzare un corteo o un semplice presidio.
Dobbiamo prendere atto che questi fenomeni quotidiani di “ordinaria repressione” (per restare alla cronaca politica delle piazze e tralasciando, solo per comodità di esposizione, la inarrestabile blindatura che avviene sul terreno del funzionamento degli istituti della rappresentanza, delle relazioni sindacali e, più in generale, dell’esercizio della “democrazia reale”) sono un macigno, a volte insormontabile, che, unitamente agli altri fattori sociali e politici, che afferiscono ai generali “rapporti di forza tra le classi” impediscono una, possibile, ripresa, a scala più estesa, del conflitto e della lotta organizzata nel nostro paese.
La “questione Nicoletta Dosio” è tutta interna a questo gigantesco dispositivo antiproletario su cui è ora di interrogarsi seriamente – con una modalità menoimpressionistica che, spesso, caratterizza la pratica delle organizzazioni sociali e deimovimenti di lotta – per costruire quelle necessarie condizioni politiche e, soprattutto, organizzative in grado di iniziare a porre un deciso Stop alla Repressione.
La piena libertà di lotta e di organizzazione, l’opposizione sistematica ad ogni tentativo di limitare le stesse libertà formalmente ancora sancite nella Costituzione ed una indispensabile battaglia, anche sul versante culturale, per infrangere la paralizzante gabbia autoritaria che inibisce e colpisce lo sviluppo del conflitto possono trovare – a nostro parere – un unitario terreno di protagonismo e di mobilitazione nella rivendicazione della totale cancellazione delle “Leggi/Decreti Sicurezza”.
Un obiettivo che, come abbiamo riscontrato in questi mesi, entra immediatamente in rotta di collisione non solo con il governo ma con il complesso dei poteri forti – anche di quelli più direttamente riconducibili all’Unione Europea – i quali sono disposti a fare carta staccia del diritto, delle norme e dei “principi costituzionali” pur di impedire la ripresa generalizzata della lotta di classe.
1 gennaio 2020