Francesco Piccioni (in Contropiano anno 29 n° 1 – gennaio 2020 Lo stallo degli Imperialismi)
a) La discussione sulla moneta e le sue funzioni
Qualsiasi riflessione sulla storia monetaria del secondo dopoguerra deve comunque tener presenti le funzioni essenziali del denaro (categoria generale), in modo da poter ragionare seriamente su come certe monete – e non altre – abbiano fin qui interpretato queste funzioni, in tutto o in parte.
- Mezzo di pagamento
- Riserva di valore
- Unità di conto
- Strumento di credito
- Capitale
- Moneta mondiale
Il dollaro, dal 1944, le ha coperte tutte contemporaneamente. Una citazione, per capirci.
“Gli Usa sono in grado di pagare tutti i debiti che hanno, perché noi possiamo sempre stampare i soldi per farlo.
Quindi non esiste nessuna possibilità di default”, parola di Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve nel pieno della crisi del 2008.
Nessun altro paese ha mai potuto dire altrettanto, prima. Dunque il dollaro assolve da 75 anni una funzione strategica e strutturale da capire bene.
E’ marxianamente capitale fittizio, ossia una normale “promessa di pagamento”, ma letteralmente creato dal nulla dalla Federal Reserve. Ossia da un istituto di proprietà privata, controllato da alcune banche d’affari di grandissime dimensioni, che stampa dollari in esclusiva per conto degli Stati Uniti.
Al tempo stesso quelle stesse gigantesche banche d’affari costituiscono anche il baricentro dei “mercati finanziari”. Dunque la creazione di nuovo capitale fittizio denominato in dollari assume valori nominali – cartacei o elettronici – assolutamente incomparabili con il processo produttivo di ricchezza, che teoricamente la moneta dovrebbe rappresentare e misurare.
E’ come se il metro lineare assumesse una dimensione variabile a seconda dei desideri dei costruttori di autostrade, al momento di fatturare e dal farsi pagare dallo Stato.
Vediamo i passaggi storici.
b) Il sistema di Bretton Woods e la centralità del dollaro convertibile in oro
Se si guarda alle ragioni della nascita del cosiddetto “sistema di Bretton Woods” c’è da allarmarsi, e con buone ragioni. La Seconda Guerra Mondiale – nel luglio del 1944 – non era ancora finita, anche se l’esito appariva ormai certo, ma i protagonisti di quell’accordo condividevano un’analisi secondo cui tra le cause della guerra andavano conteggiate anche le diffuse pratiche protezionistiche, le svalutazioni dei tassi di cambio per ragioni competitive e la scarsa collaborazione tra i paesi in materia di politiche monetarie.
Ossia lo scenario che, su scala infinitamente maggiore, cominciamo a vedere sotto i nostri occhi da qualche anno a questa parte.
Con alle spalle la Grande Depressione e le politiche economiche nazionalistiche (al massimo ognuna comune ad un piccolo gruppo di paesi), si cercò di porre le basi per raggiungere l’obbiettivo di una stabilizzazione dei tassi di cambio rispetto al dollaro (eletto a valuta principale) ed eliminare le condizioni di squilibrio determinate dai pagamenti internazionali.
A Bretton Woods furono istituite, per il raggiungimento del secondo fine, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (chiamata anche Banca mondiale).
La “stabilità” dei tassi di cambio venne perseguita agganciando il dollaro all’oro, secondo una parità fissa (un grammo per un dollaro). Solo il dollaro era convertibile in oro, mentre la quotazione di tutte le altre monete dell’Occidente capitalistico poteva oscillare entro margini molto stretti, secondo modalità poi parzialmente replicate per qualche anno all’interno del nascente sistema monetario europeo (il cosiddetto “serpentone”).
E’ da sottolineare che questa soluzione prevalse – per decisione Usa – sulla proposta inglese, formulata da Keynes, che consigliava invece un “paniere di valute” e una unità di conto neutra, col nome di bancor. La differenza tra le due proposte sta in chi ha il potere di stampare moneta: una comunità di Stati o uno solo? Di fatto, veniva varato un sistema di cambi fissi con parità centrale, basato su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro, il quale a sua volta era agganciato all’oro. In poche parole, il cosiddetto gold exchange standard.
L’Italia, per esempio, ha potuto vantare per circa 20 anni un cambio fisso con la valuta Usa pari a 625 lire per un dollaro/grammo d’oro.
Un particolare non è mai sfuggito agli analisti con qualche cognizione di Marx: in questo nodo veniva sancito il passaggio dalla valuta merce (metallo prezioso, tipicamente oro e argento) alla valuta cartacea. Con ancora un Contropiano 18 rivista della Rete dei Comunisti aggancio esile a un “sottostante” non arbitrario, materiale.
La vigilanza sul funzionamento del sistema era affidata al Fmi, cui ogni Stato poteva aderire versando una quota in oro e una in valuta nazionale, che conferivano proporzionali diritti di prelievo quando uno Stato andava in disavanzo (ma solo su autorizzazione dello stesso Fmi).
Anche le svalutazioni dovevano essere autorizzate, ma tutte le monete erano convertibili in dollari.
Per converso, la mobilità mondiale dei capitali era piuttosto limitata, proprio per evitare i fenomeni devastanti visti all’opera nella Grande Depressione.
A controbilanciare una struttura monetaria così rigida provvedeva la contemporanea creazione di un sistema economico liberista, ossia il più possibile aperto, con barriere doganali ridotte al minimo ed eventualmente variabili soltanto in caso di accertata “scarsità” di una particolare valuta.
Il vantaggio, per gli Stati Uniti, era nella possibilità di emettere dollari in quantità arbitraria, esportando così la propria inflazione sugli altri paesi. Lo svantaggio, implicito nella piena convertibilità, è che questi ultimi potevano trasformare le proprie valute in dollari e di qui in oro della riserva Usa, per tutelarsi dalla oggettiva svalutazione della moneta statunitense.
Questa convertibilità – ed era una differenza qualitativa – poteva avvenire solo a tassi prefissati, inferiori a quelli del dollaro. Di fatto, era la dollarizzazione del mondo capitalistico.
Ergo, la moneta nazionale Usa diventava surrettiziamente la fonte e la forma della liquidità mondiale.
O almeno, della parte capitalistica del mondo.
Il sistema poteva teoricamente reggere, all’inizio, perché i due terzi delle riserve d’oro mondiali erano depositate negli Stati Uniti (il mitico Fort Knox). Quindi la centralità e “solidità” del dollaro poteva essere economicamente giustificata grazie a questa predominanza senza avversari (tutti gli altri paesi dovevano ricostruirsi, in ogni senso, dalle devastazioni belliche).
La pressione congiunta delle spese per la guerra in Vietnam e il programma di welfare denominato Big Society (presidenza Johnson), nella seconda metà degli anni ‘60, fece però esplodere la spesa pubblica statunitense al di là del controllabile. A fronte di nuove, enormi, emissioni di dollari, gli altri paesi dell’accordo accelerarono le richieste di conversione dei dollari – depositati nelle proprie riserve – in oro, al punto che le riserve auree Usa scesero di oltre 12.000 tonnellate in pochi mesi.
A metà agosto 1971, il nuovo presidente – il repubblicano Richard Nixon – mise fine alla convertibilità del dollaro, aprendo una fase di cambi flessibili in luogo dello “standard aureo”.
c) La rottura della convertibilità (1971) e il dollaro come “scarica-crisi” sul resto del mondo
Del sistema precedente rimasero in vita solo due cose: a) le istituzioni economiche sovranazionali (Fmi, Birs e Gatt, poi trasformato in Wto), b) l’abitudine (e il “diritto”) Usa di “stampare dollari” ogni qual volta le loro crisi interne si rivelavano ingovernabili. Questo consentiva agli Usa di rastrellare moneta e capitale in giro per il mondo, “pagando” con una moneta il cui valore diventava sempre più evanescente e inverificabile.
Al di là dei tecnicismi monetari, insomma, gli Usa riuscivano a mantenere un modello fortemente importatore di merci grazie a una moneta ormai puramente “fiduciaria”, senza alcun aggancio a un “sottostante” certo (l’oro o qualche altra cosa), ma di cui ci si serviva senza farsi domande perché lo “stampatore di ultima istanza” non era discutibile. Per la sua potenza economica e militare.
Una riproduzione molto sofisticata e soprattutto globale dello scambio “perline colorate/oro” consumato dai primi conquistadores alle origini del sistema capitalistico.
Non stranamente, la “rottura” del gold exchange standard si risolse con una accentuazione del carattere arbitrario dell’emissioni di liquidità denominata in dollari (sempre meno nel formato cartaceo, tra l’altro). Contrariamente a quel si legge nei manuali, infatti, solo in un primo momento l’aumento della massa monetaria in dollari determinò una svalutazione di mercato della moneta Usa. Ben presto l’elemento “fiduciario” – la superiorità militare yankee, man mano che si andava indebolendo la coesione interna del “campo socialista”, del Patto di Varsavia e dell’Urss – prevale facendo del dollaro la rappresentazione monetaria di un’egemonia politicomilitare globale.
La guerra del Kippur e la crisi petrolifera del 1973 sancirono la ritrovata centralità strategica del dollaro, con le petromonarchie del Golfo che trasformavano i propri surplus commerciali in carburante per i mercati finanziari di New York e Londra.
Come hanno scritto in molti, si è così passati dal gold exchange standard al dollar standard. Non è una novità da poco, perché è la prima volta nella storia dell’umanità che il fondamento della moneta corrente – la sua unità di misura – è letteralmente un pezzo di carta (successivamente solo righe di codice su un conto corrente) e non un metallo raro (oro, argento, ecc).
Nel 1977 la questione diventa esplicita: viene dopo sei anni fissata la regola che i dollari in giro per il mondo possono essere convertiti… in altri dollari. Una moneta divina, sottratta a qualsiasi regola terrestre, alla marchese del Grillo…
Un ulteriore passo avanti viene fatto, nel 1979, nel famoso “vertice del Plaza”, in cui il presidente della Fed, Paul Volcker, viene “convinto” ad abbandonare la politica del dollaro forte e ad effettuare una svalutazione concordata con i governatori delle principali banche centrali del mondo.
Che di lì a pochi giorni metteranno sul mercato grandi quantità delle loro riserve in dollari, determinandone il crollo della quotazione e – questo era l’obiettivo – la scomparsa/ svalutazione di un terzo del debito pubblico statunitense.
Si potrebbe chiedere di fare lo stesso con quello italiano, vero?
d) Fine del mondo diviso in due e dollarizzazione di tutto il pianeta
Con l’89 e il crollo del “socialismo reale” il processo di dollarizzazione del mondo diventa completo, senza aree non contaminate (solo la Cina, in parte). L’emissione di capitale fittizio denominato in dollari si espande come mai prima. Con pezzi di carta – o semplici lettere di affidamento da parte di una banca – ci si comprano pezzi interi di paese reale. Gli “oligarchi” sono quelli che si improvvisano “venditori privati” di beni e attività reali che erano collettive o statali fino a qualche giorno prima.
L’abolizione del Glass Steagal Act (una legge degli anni ‘30 che imponeva la separazione tra banche di investimento e banche tradizionali, quelle che raccolgono depositi e fanno Contropiano 20 rivista della Rete dei Comunisti prestiti) rompe poi le ultime dighe all’esplosione del capitale fittizio creato da privati e denominato in dollari.
L’avvento della net economy, concrezione della rivoluzione informatica, consolida l’idea che i limiti fisici siano ormai cosa d’altri tempi, e che l’immateriale sia a-problematico.
Dura poco – nel 2000 esplode quella “bolla” – ma come ideologia e senso comune sopravvive alla catastrofe concreta.
La finanziarizzazione totale dell’economia produce una pletora di “prodotti finanziari” costruiti letteralmente “impastando” frammenti di attività reali, ma ben presto ripetendo la stessa operazione con gli stessi prodotti derivati. Un’orgia di immaginazione matematica – più che economica – che moltiplica le attività finanziarie fino a renderle incommensurabili con main street, il mondo della produzione reale.
Si calcola infatti che la massa dei soli prodotti derivati, al momento dell’esplosione della crisi nel 2007- 2008, assommasse a oltre 600.000 miliardi di dollari. In pratica, 11 o 12 volte il Pil mondiale.
Capitale fittizio, ma in cerca di una valorizzazione al pari di qualsiasi altro capitale. Anzi, in cerca della valorizzazione più veloce possibile, senza i lunghi cicli D-M-D’ della produzione reale (mesi o anni), sottoposti sempre all’incognita sul grado di “gradimento” di merci fisiche o servizi prodotti da parte del mercato.
Capitale fittizio denominato in dollari, tra l’altro, quindi capace di sommare due valutazioni arbitrarie in una sola “cambiale” che qualcuno – alla fine – dovrà pur pagare. O sostituire con un’altra.
Il destino del capitale fittizio è di esistere fin quando la fine del processo non si vede. E’ infatti scambiabile come fosse moneta corrente finché la data di scadenza è lontana. Una moneta (o un prodotto finanziario, più o o meno “derivato”) funziona finché incontra la “fiducia” di chi l’accetta in cambio di qualcosa di concreto per cui ha speso lavoro, investimenti, ecc. Quando questa fiducia viene in dubbio, quella moneta o quel prodotto finanziario torna carta straccia. Invendibile, senza valore, veleno puro per chi l’avesse pagato un qualsiasi prezzo superiore a zero.
e) La crisi del 2008 e il quantitative easing
Com’è noto, il fallimento di Lehmann Brothers – quarta banca d’affari del pianeta – gelò il mercato mondiale per alcuni giorni. Sul piano finanziario, una valanga di “prodotti derivati” non fecero più prezzo, ossia non li voleva più nessuno. Chiedete a Deutsche Bank quanti ne ha ancora oggi in pancia (quasi 20 volte il Pil tedesco) e saprete quali effetti ci sono stati. La prima banca tedesca vale oggi – come titolo azionario . Il 2-3% del suo valore massimo. Uno zombie, come si diceva qualche anno fa, too big to fail…
La risposta di tutte le banche centrali occidentali (Giappone compreso, ma non la Cina) è stato l’azzeramento dei tassi di interesse e una pioggia di liquidità a costo zero, tramite anche l’acquisto diretto di “derivati”, titoli di stato, corporate bond di aziende sull’orlo del fallimento, ecc.
Soldi fittizi, in dollari (ma anche euro, yen, sterline), per impedire il crollo generale dei mercati. “Socialismo per ricchi”, lo definì a ragione Joseph Stiglitz, ex presidente della Banca Mondiale.
La speranza, o l’obiettivo, era semplice: tenere in piedi il sistema finanziario per garantire che anche l’economia reale – aziende e famiglie, ossia investimenti e consumi – beneficiasse del denaro a tasso zero, rimettendo in moto il ciclo. Con molta fatica si è raggiunto il primo obbiettivo (fermare il crollo), ma non il secondo (la “crescita” globale è affare soltanto di Cina, India e altri paesi emergenti).
f) L’affermazione delle monete alternative al dollaro
Sta di fatto che un’immensa massa monetaria fittizia – e di capitale altrettanto fittizio creato da istituti finanziari privati – gira per il mondo senza che nessuno sappia come ricondurla a dimensioni “fisiologiche”, non pericolose per l’intero sistema economico globale. Ed è denominata soprattutto in dollari.
Ma, come si è detto (con Greenspan) gli Usa sono abituati a risolvere il problema convertendo i dollari altrui in nuovi dollari freschi di stampa (se venissero ancora stampati…).
Gli altri paesi rilevanti (Germania- Contropiano 22 rivista della Rete dei Comunisti Francia-Unione Europea, Giappone, Russia, Cina, ecc) sono perfettamente consapevoli che la “bolla del dollaro” è contemporaneamente insostenibile sul lungo periodo e vantaggiosa soltanto per gli Stati Uniti. Sono più deboli – finanziariamente e soprattutto sul piano militare – ma non cretini.
Con grande cautela, nel corso degli ultimi decenni, hanno quindi preso a detenere riserve in valuta diverse del dollaro (soprattutto euro e yen). Ma, aspetto più rilevante, a usare altre monete negli scambi commerciali globali.
La cautela è d’obbligo, vista la fine che hanno fatto quanti avevano provato a fare lo stesso in condizioni di maggior debolezza e di relativo isolamento internazionale (Saddam Hussein e Gheddafi).
Il dollaro è infatti ormai soltanto una moneta fiduciaria il cui “valore” si misura con la dimensione dell’armamento strategico (nucleare e non) degli stati Uniti. E dovrebbe suonare vagamente paradossale che buona parte di quell’armamento è stato messo insieme con capitale fittizio che rastrellava capitale vero in giro per il mondo. Tradotto: si sono armati a spese degli altri…
Attualmente la situazione è abbastanza diversa dai tempi del primo dollar standard. Se infatti le riserve in euro sono appena il 20% di quelle detenute dalle varie banche centrali (moneta di riserva), l’impiego della moneta europea è invece quasi alla pari con il dollaro per quanto riguarda i pagamenti internazionali (36% contro il 40).
D’altro canto l’Iran ha aperto una borsa petrolifera alternativa e vende in euro o altre monete. Giganti del greggio come Rosneft (2,5 milioni di barili al giorno) vendono in euro. Altri comparti del commercio internazionale stanno cambiando divisa abituale.
Ciò significa che il potere monetario e finanziario degli Stati Uniti degrada più velocemente di quanto non faccia il suo potere militare. Per somma jella – o convinzione di onnipotenza – gli Usa non dispongono neppure di riserve valutarie in altre monete.
Siamo insomma relativamente più vicini al momento in cui la massa di capitale fittizio globale denominato in dollari diventerà non più spendibile.
Perlomeno non nella misura del “valore nominale” degli infiniti titoli o “prodotti” con il simbolo $ davanti.
g) Criptovalute, la moneta privata insidia quella statale
La dialettica è la dinamica reale del mondo, prima che un sistema di pensiero. E dunque, nel momento in cui massima è la dimensione della “bolla” del capitale monetario e fittizio, e altrettanto seria è la crisi di “credibilità” della moneta imperiale, una nuova forma inaspettata del capitale monetario si è affacciata sulla scena.
Le cryptomonete, nonostante gli anatemi della Bce e della Fed, sono monete a tutti gli effetti. Alcune di loro (i Bitcoin per primi) sono accettate persino al livello del commercio al dettaglio (nelle boutique di lusso delle metropoli più grandi, per ora).
Come le monete statali non hanno alcun sottostante fisico materiale (oro o argento, ecc) e vengono prezzate in base esclusivamente alla dinamica tra domanda e offerta. Sono quasi tutte limitate come offerta al numero fissato al momento dell’emissione, quindi il loro valore nominale varia come quello di una merce scarsa, in ragione del rapporto domanda offerta.
Al contrario delle monete statali, invece, non hanno un garante di ultima istanza. Nessuno può assicurare che il valore della cryptomoneta – oggi un Bitcoin è quotato 7.500 dollari – sia corrisposto alla scadenza, ma nella compravendita quotidiana da qui a quella data si fanno affari (o si prendono mazzate) favolosi.
Sono tutte rigorosamente monete private, ma la loro sola esistenza insidia il carattere “sacrale” della moneta ufficiale col nome di uno Stato. Facebook, in questi giorni, ha dovuto rinunciare al suo progetto di cryptomoneta – Lybra – su pressione splicità delle autorità federali statunitensi. Se ogni social network, grazie alla globalità della propria piattaforma, avesse seguito quell’esempio (e non esisteva nessuna ragione per non farlo), si sarebbe messa in moto una valanga concorrenziale in primo luogo con il dollaro.
Soprattutto, anche le cryptomonete espandono la bolla dal capitale monetario fittizio. Ci mancavano soltanto loro… Ma in un mercato intossicato e bisognoso di “forme sostitutive” in grado di riempire i vuoti di valore di titoli screditati, il loro “successo” costituisce un sintomo della gravità della malattia.
h) Guerra dei dazi e delle monete
La crisi di credibilità del dollaro e la sovraproduzione di capitale fittizio – monetario o simil-monetario (i prodotti finanziari sono scambiati come e più del denaro liquido) – permettono di inquadrare in una luce più realistica anche la “guerra dei dazi” aperta da Donald Trump.
Al di là degli strilli a beneficio di telecamere sul “furto di tecnologia” e la presunta “concorrenza sleale”, infatti, gli Usa hanno premuto per ottenere due cose fondamentali: l’apertura del risparmio cinese alla finanza statunitense e, in direzione opposta, investimenti cinesi su Wall Street. In pratica, nuovo sangue fresco (ossia ricchezza vera) a disposizione del capitale fittizio denominato in dollari, in piena crisi di astinenza.
Il risultato, come sempre un cauto compromesso, consente di “comprare Contropiano 24 rivista della Rete dei Comunisti tempo”. Con la Foreign Investiment Law la Cina ha dato la possibilità alle imprese finanziarie estere di detenere la maggioranza assoluta delle joint venture, autorizzando per primi Deutsche Bank, Bnp Paribas e JpMorgan e ora altre istituzioni finanziarie americane.
Al tempo stesso, la Cina diminuisce l’acquisto di Treasury Bond Usa, ma favorisce un flusso finanziario cinese verso Wall Street, parziale ma sicuro, tale da portare nei mesi prossimi sui massimi gli indici e permettere di pagare le pensioni americane e dunque alimentare i consumi. Così facendo, si garantisce un mercato non più con l’operazione trentennale di acquisto di debito americano, ma entrando nel sistema dell’equity Usa.
La “guerra delle monete”, in questo senso, è stata – senza troppo clamore – temporaneamente vinta dai cinesi, che ora hanno bisogno di uno yuan “forte” tale da permettere un’ondata di investimenti esteri in ogni parte del mondo e la difesa dalla possibile fuga di capitali (come conseguenza di turbolenze geopolitiche su Hong Kong, per esempio).
i) L’apparente paradosso del “denaro che non rende”
Ma l’espansione senza limiti del capitale fittizio e monetario, alla fine, un limite lo ha trovato. Lo sappiamo da un fenomeno che non si era mai verificato nella storia delle economie, praticamente dagli assiri ad oggi: il denaro non rende più niente. Anzi si paga per tenerlo fermo. Evapora lentamente, ma evapora..
In Europa i rendimenti negativi sui capitali depositati presso la Bce sono la conseguenza diretta dei molti anni di quantitative easing sotto la direzione di Mario Draghi. Al tasso negativo ufficiale sui depositi (ora allo lo 0,50%) va infatti aggiunto anche il tasso di inflazione, che pur bassissimo è comunque superiore allo zero (in Germania quasi il 2%). Il che comporta non solo il peggioramento dei bilanci della banche (già stressate da quantità variabili di “prodotti derivati”), ma anche una forte penalizzazione di tutto il risparmio gestito (fondi pensione, assicurazioni, ecc), quindi – a cascata – dei consumi e dell’economia reale. In almeno un caso – Unicredit – si è arrivati ad scaricare i rendimenti negativi direttamente sui conti correnti dei clienti (al di sopra del milione di euro, per adesso).
Negli Stati Uniti, similarmente, la Fed ha deciso di tornare ad acquistare valanghe di titoli sul mercato per assicurare liquidità aggiuntiva.
Quello che voleva Trump in ottica “svalutazione competitiva”, ma anche quello che chiedeva Wall Street di fronte alla probabilissima esplosione dell’ennesima “bolla” a breve termine.
Come abbiamo visto, ciò aumenta ulteriormente la massa monetaria, rinviando la rottura degli equibri ma amplificandone la dimensione.
Risparmio cinese e quantitative easing della Fed, anche qui, stanno spingendo i rendimenti del denaro al di sotto dello zero (e comunque al di sotto del tasso di inflazione, che è poi la vera soglia che stabilisce se un tasso è positivo o negativo in termini effettivi).
Se il denaro non rende, anzi, implica sicuramente delle perdite, vuol dire che in giro ce n’è troppo rispetto non solo alle necessità fisiologiche dell’economia reale (fra l’altro in stagnazione, quindi con bisogni assai ridotti di liquidità per investimenti), ma anche rispetto alle possibilità di autovalorizzazione che ogni capitale pretende.
Sovrapproduzione, anche qui.
La “via d’uscita tecnica” – una mandrakata finanziaria – non sembra alle viste. Abbassare ulteriormente i tassi o immettere altra liquidità nel sistema non può cambiare il quadro perché è quello che si sta facendo continuativamente da quasi dieci anni a questa parte.
Quindi diventa sempre più probabile una “perturbazione tempestosa” per sfoltire, traumaticamente, una giungla monetaria e fittizia impossibile da disboscare con “tatto ed educazione”.
Che però, fisiologicamente, si trascina dietro cadute vertiginose anche dell’economia reale, lungo linee di faglia che separano macroaree continentali.
L’era del dollaro si avvia al tramonto. Non sarà una passeggiata di salute
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Immagine in evidenza: USA Dollar banknotes
Autore: Alexander Grey, 14 maggio 2018
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