Francesco Della Croce (in Contropiano anno 29 n° 1 – gennaio 2020 Lo stallo degli Imperialismi)
Gli argomenti e i contenuti d’analisi di fase che sono oggetto di questo convegno promosso dai compagni e dalle compagne della Rete dei Comunisti non sono tra quelli, in modo effimero e superficiale, considerabili “unitari”, d’occasione o rituali, ma attengono a questioni di analisi e all’uso concreto di strumenti teorici di interpretazione della fase che delineano distinzioni, anche profonde, tra i comunisti e le loro organizzazioni, in Italia e nel mondo.
Affermare che la moneta assuma solamente un ruolo neutrale nell’ambito del modello di produzione capitalista, che essa rappresenti un mero strumento facilitatore degli scambi e che sostanzialmente non sia, invece, il prodotto e la cristallizzazione dei rapporti di forza e dei rapporti sociali imperanti nella nostra società, è evidentemente tradire l’elaborazione plurisecolare sulla moneta e sul segno politico delle categorie mercantili e capitalistiche della storia del pensiero marxista.
Non vedere, ad esempio, nel ruolo egemonico del dollaro nelle relazioni internazionali, finanziarie e commerciali oggi esistenti a livello mondiale uno degli strumenti ancora oggi di garanzia per l’imperialismo statunitense, a fronte di una tendenza fortemente declinante dell’unipolarismo USA, significa essere miopi di fronte ad una realtà che, al contrario, i Paesi in transizione verso un sistema economico socialista o comunque autonomi ed indipendenti (e desiderosi di restarlo) dall’imperialismo vedono chiaramente e che cercano, con gli strumenti che la tecnologia e la modernità mettono a disposizione, di archiviare con la propria iniziativa.
Il caso delle cripto valute, da questo punto di vista, è emblematico ed eloquente.
Il confronto che segna la nuova fase internazionale è quello che oggi si esprime nella cosiddetta guerra commerciale Usa – Cina.
Esso rappresenta lo strumento diverso, sostanzialmente innervato da una politica neoprotezionistica, attraverso cui l’imperialismo statunitense prova a perseguire la strada della riaffermazione del suo ruolo egemonico e di dominio a livello mondiale. Sbaglia chi, anche tra i comunisti, abbia creduto e creda che l’amministrazione americana di Trump – espressione di una parte delle classi dirigenti statunitensi scontente dei fallimenti della politica Usa, che da oltre vent’anni ha tentato di affermare il proprio primato internazionale attraverso la globalizzazione capitalista, ma saldamente ancorate e subalterne agli interessi ed al peso politico del complesso produttivo-militare – possa rappresentare la sponda di una politica in definitiva di “pacificazione” e il dileguarsi delle pretese imperiali USA. La stessa “guerra commerciale”, più precisamente intesa come strumento di contenimento dell’espansione globale dell’influenza sul mercato internazionale della Repubblica Popolare Cinese, unita ad una nuova “corsa all’accaparramento di materie prime”, necessarie al fine di una nuova fase di valorizzazione di capitale attraverso la cosiddetta green economy, di cui è emblematico quanto sta avvenendo nei Paesi del Sud America, Bolivia in primis, rappresenta una risposta diversa alla medesima domanda di sempre: cioè, come praticare nelle nuove condizioni mondiali il disegno egemonico delle classi dirigenti USA. E, in definitiva, non allontana in alcun modo i pericoli di guerra su larga scala, che invece sono già una realtà del mondo di oggi.
Vedremo nell’evoluzione concreta delle prospettive strategiche della NATO se il suo ritiro, pur controverso e incerto, da alcuni scenari globali importanti, come quello mediorientale, significherà effettivamente la “morte cerebrale” – per usare l’espressione recentemente impiegata dal presidente francese Macron – dello strumento principe delle politiche neoimperialiste degli ultimi 25 anni e del suo “Nuovo concetto strategico”.
Sarebbe sbagliato considerare questa tendenza irreversibile così come sarebbe ingenuo non rendersi conto delle spinte e dinamiche interimperialistiche, che oggi stanno mettendo concretamente in crisi l’Alleanza atlantica, il suo ruolo e la sua funzione politica generale, per come essa è stata concepita dopo la crisi del blocco sovietico.
Da questa prospettiva, mi sembra sacrosanto il rifiuto della qualificazione di “imperialismo” con riferimento al ruolo e della politica internazionale cinese. L’esperienze della Cina merita e necessità di un’attenta analisi, che tra comunisti dobbiamo tenere aperta, dialogando in primo luogo con il PC Cinese, a partire dall’elaborazione specifica relativa al socialismo con caratteristiche cinese e, in modo non secondario, dal confronto con le posizioni espresse da larga parte degli Stati socialisti e in transizioni nei confronti dell’esperienza della Cina. Riuscendo, così, anche a sprovincializzare un dibattito sicuramente complesso quale quello sulla costruzione della via cinese, verso cui, dal mio punto di vista, dobbiamo avere attenzione e a cui si deve guardare con interesse positivo.
In un quadro così delineato, le spinte concrete all’interno dell’Unione europea alla costituzione di un polo economico, militare, produttivo e di potere in grado di inserirsi nelle contraddizioni del contesto mondiale si fanno assai intense. La Brexit, in particolar modo, ha facilitato il perseguimento dell’integrazione del complesso militare e produttivo dell’Unione. Ma, d’altro canto, essa ha rianimato un disegno espansivo dell’influenza e del ruolo della Gran Bretagna nell’ambito delle relazioni e della competizione mondiale (che si esprime con una relazione più forte tra Paesi anglosassoni, ma anche con le potenze petrolifere arabe e con interesse esplicito per gli sbocchi della Via della Seta a Nord dell’Europa continentale). In UE, la stessa riforma del MES, volta a inverare e rafforzare quel “centro di governo economico e monetario” – per usare le parole di Carlo Azeglio Ciampi, non certo un noto critico del processo di integrazione – di cui l’Unione economica e monetaria ha bisogno per svolgere il proprio ruolo politico esterno ed interno delineato da Maastricht, rappresenta una risposta politica alle dinamiche sovraordinate della fase mondiale. Una riforma che, non a caso, identifica linee di credito e di assistenza finanziaria agli Stati membri sul presupposto della precauzionalità e dell’esposizione delle economie nazionali nel mercato internazionale, nei cui confronti le principali agenzie di rating, come Moody’s, cominciano a esprimere le proprie “preoccupazioni” circa la capacità degli Stati di onorare i propri debiti. Il nuovo MES si configura come uno strumento più forte di governo, nella conservazione, a disposizione dell’Unione europea e delle sue classi dirigenti.
In un quadro così delineato, i comunisti devono per prima cosa avere le idee chiare sulla fase e, segnatamente, sui processi di trasformazione che si stanno delineando in seno all’Unione europea, verso cui il nostro giudizio non può che trovare conferma: essa si configura come una fortezza neoliberista irriformabile; un progetto di una cooperazione europea su basi progressive, per usare parole importanti di Samir Amin, passa inevitabilmente per la distruzione di quello attualmente esistente.
Nonostante il “sospiro di sollievo” tirato dalle forze cosiddette europeiste per la battuta d’arresto dell’affermazione delle forze cosiddette sovraniste (nazionaliste e neoliberiste), noi comunisti sappiamo che nelle regole e nelle politiche “costituzionalizzate” nella UE non c’è nessuna possibilità reale e concreta di rispondere in termini di emancipazione e progresso alle istanze popolari, che oggi rifiutano nettamente le compatibilità barbare di sistema. Non è in Maastricht che può trovare realizzazione un’alternativa al neoliberismo.
I comunisti hanno, in questa fase, il dovere di mettere a fuoco la propria critica alla UE, di farlo mai in astratto ma nella materialità delle contraddizioni e alimentando le lotte sociali. E di farlo nel luogo e per mezzo dello strumento ad essi più congeniale e favorevole: quello del sindacato di classe, che oggi come ieri ha i propri riferimenti fondamentali nella vita e nell’iniziativa della storica Federazione Sindacale Mondiale, e indipendente dal sindacalismo concertativo che, contemporaneamente alla ripresa di un ciclo di lotte e resistenza sociale come accade in Francia, nel nostro Paese ripropone un modello subalterno a governo e mondo delle imprese.
I comunisti, organizzati nella forma del partito e dell’organizzazione di quadri con vocazione e linea di massa, sono chiamati a rifiutare ogni forma di pigrizia, prima di tutto intellettuale e teorica, poiché nella fase nuova che si apre c’è una questione preliminare che si pone in tutta la sua grandezza teorica: quella della funzione politica dei comunisti e del loro ruolo rivoluzionario.