Nell’attuale fase di competizione globale interimperialista
Walter Lorenzi (in Il complesso militare industriale Europeo – Atti del convegno Eurostop, Napoli 25 gennaio 2020)
La crisi sistemica del modo di produzione capitalistico, incubata dalla prima metà degli anni ‘70 del secolo scorso ed esplosa nel 2007 con il crollo di alcuni colossi finanziari statunitensi, è stata il motore che ha spinto verso la nuova fase di competizione interimperialistica che stiamo vivendo.
L’Unione Europea è un prodotto di questa lunga crisi. Le borghesie dei paesi più potenti del vecchio continente hanno guidato il processo di integrazione continentale attraverso l’architettura istituzionale e politica che ben conosciamo, con l’obiettivo di costruire una “massa critica”, in termini economici e finanziari, in grado di competere a livello internazionale.
In questi anni gli epigoni dell’imperialismo europeo ci hanno nauseato con la retorica del “gigante economico e del nano politico”, incapace di integrare i sistemi costituzionali, gli ordinamenti giuridici, fiscali ed economici dei vari paesi dentro un meccanismo di governance all’altezza delle sfide globali. Più recentemente, alla luce degli sviluppi bellici che stanno rideterminando i rapporti di forza a livello internazionale, l’attenzione dei soliti si è concentrata anche sulla “forza” dell’unione europea, in termini di deterrenza militare.
In premessa c’è da dire che la questione militare è sempre stata ben presente nella mente e tra gli obiettivi dei costruttori della UE, ma come per i processi di integrazione politici ed istituzionali, gli archi-tetti del polo imperialista europeo si muovono rispettando i tempi complessi che richiede l’intrapresa. Evidentemente hanno fatto patrimonio delle leggi della dialettica, più di tanti marxisti che si trastullano con i testi “sacri” invece di tentare di renderli vivi nella realtà in continuo divenire.
Abbiamo sentito parlare a più riprese di crisi dell’UE, della sua possibile dissoluzione di fronte alle grandi contraddizioni interne. Ma da ogni crisi, sino ad ora, le classi dominanti sono uscite con spinte in avanti nella costruzione di questo gigante economico.
Gli esempi di “crisi irreversibili” superate si perdono, sino ad arrivare alla Brexit, trasformatasi invece in un potente avanzamento nel processo di integrazione europeo, anche sul terreno militare.
La realtà concreta dimostra, ancora una volta, come la crisi sia una condizione “naturale” dell’esistenza e dello sviluppo del capitalismo, delle sue continue e mutevoli forme di dominio.
Nell’analisi leniniana, il capitalismo entra nella sua fase imperialistica a certe condizioni, sinteticamente descritte in 5 punti: 1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica 2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un’oligarchia finanziaria 3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci 4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo 5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.
Bene, noi riteniamo che tutti questi stadi di sviluppo siano stati raggiunti da tempo dal capitalismo europeo, ovviamente in forme asimmetriche, riproducendo a livello continentale centri e periferie in funzione della massimizzazione dei profitti dei cosiddetti “campioni” europei.
Ad esso manca, per essere valorizzato al massimo nel conflitto con le altre potenze, un complesso militare/industriale adeguato al livello di sviluppo delle proprie forze produttive e finanziarie.
Da tempo, la Commissione Europea (CE) sottolinea le inefficienze e la frammentazione del settore militare. Il confronto con gli stati uniti salta agli occhi. L’Europa conta 178 sistemi di armamenti (rispetto a 30 negli USA), 17 tipi di carri armati (uno statunitense), 29 tipi di fregate e di cacciatorpediniere (4 USA), e 20 tipi di caccia (rispetto ai sei delle forze armate americane). Gli investimenti nella difesa dei paesi europei rappresentano 1,34% del prodotto interno lordo, mentre gli usa arrivano al 3,2% del PIL.
Vediamo allora come la UE sta cercando di risolvere questo gap, per rispondere ad un’esigenza non rinviabile, alla luce dell’aumento esponenziale dei fronti di guerra ai propri confini e a livello planetario. Il 13 giugno 2018 la CE ha presentato le sue proposte finanziarie nel campo della difesa e della sicurezza per il prossimo bilancio comunitario 2021-2027. II nuovo fondo europeo per la difesa (EDF), avrà una dotazione settennale di 13 miliardi di euro, che significa un considerevole aumento di spesa rispetto 2,8 miliardi del precedente. Il fondo riserverà 4,1 miliardi per finanziare progetti di ricerca.
Altri 8,9 miliardi andranno a co-finanziare il costo di prototipi, a cui si aggiungono circa 6,5 miliardi per adeguare le infrastrutture europee al transito di assetti militari (military mobility).
L’iniziativa giunge dopo che i ventotto paesi membri UE decisero, alla fine del 2017, di aprire la strada a cooperazioni rafforzate nel delicatissimo campo della difesa (le cosiddette PesCO: politica di sicurezza e di difesa comune), che potranno godere di aiuti ulteriori del 10 per cento da parte del fondo europeo per la difesa e, come sappiamo, senza le restrizioni imposte dal fiscal compact a tutte le spese di carattere sociale.
Sempre il 13 giugno 18, la commissione decise di creare fuori bilancio un nuovo strumento finanziario del valore di 10,5 miliardi di euro, chiamato fondo europeo per la pace, per sostenere le missioni militari all’estero e facilitare la partecipazione europea a tali operazioni.
Finanziato da contributi nazionali, il nuovo strumento «coprirà spese che non possono essere fatte direttamente dal bilancio comunitario a causa delle loro implicazioni militari e di difesa», spiega Bruxelles. Questa precisazione ci induce ad esaminare, seppur per sommi capi, il documento della corte dei conti europea dello scorso 12 settembre 2019.
A differenza degli omonimi organismi nazionali, la Corte dei Conti Europea (CCE) hasolo un potere “consultivo”, quindi non può bloccare le decisioni prese a livello di commissione europea, ma i suoi rilievi evidenziano importanti limiti e contraddizioni, che determinano in ultima istanza quel “nanismo diplomatico” al quale stiamo assistendo in tutti gli attuali scenari di conflitto bellico. Libia docet.
I punti principali di critica della CCE, oltre che di carattere economico, sono di tipo “strategico”, di capacità di mettere a regime ed in sinergia un complesso sistema militare europeo di relazioni istituzionali e di integrazione tra sistemi produttivi e tecnologici.
Sul terreno economico le doglianze dei contabili europei sono le seguenti:
- L’aumento delle spese proposto dalla ce, equivalente a 22 volte il precedente settennato, comportando rischi relativi alla performance complessiva UE.
- L’aumento della spesa rimane comunque modesta (in media circa 3 miliardi di euro all’anno) rispetto alla spesa militare complessiva degli stati membri (311 miliardi di euro annui se includiamo l’Inghilterra, 243 miliardi escludendola).
Si stima che, se l’Europa dovesse difendersi da sola senza assistenza esterna, per sopperire alle carenze sarebbero necessarie parecchie centinaia di miliardi di euro. Solo per conformarsi alla linea guida del 2 % del PIL richiesta dalla NATO, gli stati europei facenti parte dell’alleanza atlantica dovrebbero investire ogni anno altri 90 miliardi di euro, con un incremento del 45 % circa rispetto al loro livello di spesa del 2017.
Ben altre sono invece le problematiche sulle quali la corte dei conti europea invita a riflette:
- La difesa europea si articola sostanzialmente su due livelli fondamentali: la capacità di autodifesa degli stati membri e la difesa collettiva garantita dalla NATO.
Il trattato sull’unione europea (tue) sottolinea la natura peculiare della politica di sicurezza e di difesa comune (PSDC, la quale sancisce il ruolo guida dei singoli stati membri e prevede numerose limitazioni all’azione dell’UE in questo settore. - Tra gli stati membri esistono evidenti differenze strategiche. In particolare essi non condividono una percezione comune delle minacce, né una visione comune del ruolo dell’unione. Hanno regole d’ingaggio diverse e un ampio ventaglio di opinioni sull’uso della forza militare.
- È essenziale la coerenza delle iniziative e delle sinergie con la….NATO…. Evitando così duplicazioni e sovrapposizione di funzioni con quest’ultima.
- Attualmente gli stati membri dell’UE sono ben lontani dal possedere capacità militari corrispondenti ai nuovi livelli di ambizione.
La Brexit aggraverà questa situazione poiché un quarto delle spese totali della difesa è sostenuto dal regno unito. - I precedenti tentativi dell’UE di promuovere l’istituzione di un mercato europeo di materiali per la difesa aperto e competitivo non hanno avuto successo.
- In ultima analisi, il successo e il futuro dell’UE nel settore della difesa dipendono completamente dalla volontà politica degli stati membri, ai quali spetta il ruolo centrale nell’architettura della difesa europea.
Questi in sintesi i rilievi della CCE in merito al progetto della CE di incremento della spesa a favore del potenziamento militare industriale della UE.
Ovviamente questo organismo deve considerare, nella sua analisi, il quadro di insieme nel quale è chiamata ad operare, e cioè una UE a più velocità, con interessi diversificati e talvolta contrapposti tra gli stati che la compongono. La sintesi di questi rilievi porterebbe a pensare ad una paralisi nel settore della difesa comune.
Il non detto sta però nei processi reali innescati dalle sinergie implementate da accordi interstatali, previsti dai trattati stessi, che stanno de facto costruendo il vero sistema militare europeo, dettando le linee guida dello sviluppo industriale e tecnologico che lo supporta e incarna.
Senza citare la miriade di operazioni militari dalla UE, in gran parte ancora in pieno svolgimento, occorre immediatamente parlare della “iniziativa europea d’intervento”, costituita da Macron il 25 giugno 2018, alla quale hanno aderito Germania, Regno Unito, Spagna, Portogallo, Olanda, Belgio, Danimarca, Estonia, Finlandia e dal 21 settembre 2019) anche l’Italia del governo conte bis.
Gli obiettivi di Macron sulla funzione della iniziativa europea d’intervento sono tre:
- Accelerare il processo di integrazione operativa di uno strumento militare UE per far fronte alle crisi
- Mantenere la Gran Bretagna agganciata all’Europa della difesa nella fase in cui la Brexit si sta concretizzando, anche per salvaguardare la stretta cooperazione tra Londra e Parigi nell’industria delle armi
- Costituire un’alternativa alle lentezze della PesCO, creando le basi per la costituzione di “forze armate europee” che Parigi immagina sotto la sua egida. È bene ricordare che la Francia, una volta che la Gran Bretagna è fuori, è l’unica potenza nucleare della UE.
Macron non nasconde l’ambizione di costituire uno strumento d’intervento indipendente dagli USA e dalla NATO, ma autonomo anche rispetto ai meccanismi dell’unione europea — ritenuti troppo lenti e inefficaci — che finora hanno impedito alla UE di ricoprire reali ruoli militari nelle crisi internazionali e di avere una reale autonomia strategica.
L’iniziativa non è ovviamente benvista da Washington e dalla NATO, trovando qualche riluttanza anche in Germania, che pure ha aderito all’iniziativa, notoriamente preoccupata dalle mire di leadership politico/militare europea della Francia ma anche dal tentativo di Parigi di mantenere in qualche modo legata la Gran Bretagna ad una difesa europea.
Ecco quindi una classica dinamica di “superamento reale” delle contraddizioni interne al pachidermico corpo istituzionale e normativo della UE, che non risolve però i problemi di “velocizzazione” imposti dalle dinamiche della competizione globale.
La soluzione a queste contraddizioni si darà in corso d’opera, attraverso salti e passaggi traumatici, che metteranno a dura prova la tenuta stessa dell’unione, almeno per come l’abbiamo conosciuta sino ad oggi.
Il sistema militare industriale europeo.
Il settore europeo della difesa (base tecnologica e industriale della difesa europea — EDTIB) ha un fatturato di circa 100 miliardi di euro e occupa direttamente circa 500.000 addetti. Ha una struttura piramidale, al cui vertice si colloca un limitato numero di grandi imprese. Lungo l’intera catena di approvvigionamento, queste imprese sono coadiuvate da circa 2 500 aziende di livello inferiore — per lo più aziende a media capitalizzazione e PMI — che forniscono agli appaltatori principali sottosistemi o componenti.
Il settore europeo della difesa non è diffuso in maniera uniforme nell’UE. Rispecchiando il livello dei bilanci nazionali, le industrie del settore si concentrano nei sei paesi della lettera di intenti firmata il 20.7.1998 per istituire un quadro cooperativo mirante ad agevolare la ristrutturazione del settore, ossia Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito, i quali generano oltre 1’80 % del fatturato in questa branca dell’industria.
Capacità e competitività del settore differiscono molto tra i vari stati membri e da un sotto settore all’altro. Questa base frammentata è il frutto delle culture geografiche, storiche e militari che hanno contribuito a modellare il panorama industriale dei vari stati membri. Alcuni studi hanno messo in rilievo i punti di forza del settore della difesa in Europa. Nel suo complesso è stata definita competitiva a livello globale, innovativa, a elevato livello tecnologico, in grado di fornire uno spettro completo di capacità di difesa, da piattaforme ampie e complesse fino a prodotti innovativi.
La competitività di questo settore industriale dipende in larga misura dalla domanda degli stati membri.
Tra il 2007 e il 2015 i bilanci nazionali della difesa nell’UE hanno subito cospicui tagli, pari al 15 % circa, in un contesto che ha registrato invece un incremento globale delle spese militari.
Dal 2015, la tendenza delle spese complessive è positiva, benché in termini reali nel 2017 siano state ancora inferiori al livello del 2007.
Il declino della domanda interna nel mercato UE, unito alla domanda crescente che si registra sui mercati internazionali, ha indotto il settore della difesa dell’UE a incrementare le esportazioni verso i mercati dei paesi terzi.
L’UE, benché ancora in ritardo rispetto agli stati uniti e alla Russia, rappresenta una quota significativa delle esportazioni totali di armamenti, a testimonianza della competitività della sua industria militare.
Il sistema industriale/militare UE dipende in misura sempre maggiore dalle esportazioni, circostanza che comporterà alcuni rischi per il futuro.
Il primo dipende dalle differenze tra le politiche di esportazione di armamenti degli stati membri dell’UE e la legislazione.
Dal momento che le catene di approvvigionamento dei più importanti fabbricanti europei di armi sono sempre più integrate, le differenze tra le politiche d’esportazione degli stati membri rendono ancora arduo, per le grandi imprese europee, competere sul mercato internazionale. I bilanci della difesa degli stati membri dell’UE sono caratterizzati da un’elevata percentuale di spese per il personale (49 %) rispetto alle spese per investimenti (21 %). Inoltre, i precedenti tagli ai bilanci della difesa hanno inciso negativamente sulle spese in R&S. Il fatto che gli stati membri, collettivamente, non raggiungano il valore obiettivo del 2 % per la tecnologia e la ricerca nel settore militare pesa sulla loro capacità di introdurre tecnologie innovative nel lungo periodo, mettendo così a repentaglio la competitività del sistema.
Finora la cooperazione tra gli stati membri dell’UE negli investimenti in R&S e in materiali per la difesa è stata limitata e non ha raggiunto gli obiettivi prefìssati in ambito UE.
I precedenti tentativi di promuovere l’istituzione di un mercato europeo di materiali per la difesa aperto e competitivo hanno avuto poco successo. In particolare, la direttiva UE del 2009 sugli appalti nel settore della difesa non è stata attuata in maniera uniforme negli stati membri.
Una percentuale assai rilevante delle spese per approvvigionamenti, in particolare per quanto riguarda i sistemi di difesa strategici e di elevato valore, ha ancora luogo al di fuori delle direttive UE, e di conseguenza gli appalti vengono aggiudicati principalmente a imprese nazionali.
Per adeguarsi alla crescente competizione globale, il sistema militare/ industriale UE ha intrapreso un processo di consolidamento che, attraverso fusioni e acquisizioni, ha condotto allemergere di un ristretto numero di grandi imprese multinazionali come BAE (la Bae Systems Pie società inglese del settore aerospaziale), airbus e thales, gruppo a dominanza francese di elettronica specializzato nell’aerospaziale, nella difesa e nella sicurezza) e l’italiana Leonardo, ex Finmeccanica.
Il consolidamento transfrontaliero è tuttavia ancora limitato ai settori aerospaziale ed elettronico. Il prevalere di considerazioni legate alla sovranità nazionale si è tradotto in un processo di consolidamento avvenuto sostanzialmente a livello nazionale, in particolare nei segmenti navale e terrestre.
La scarsa cooperazione sul lato della domanda, ossia tra gli stati membri, ha impedito di portare avanti l’integrazione e il consolidamento nel mercato europeo dei mezzi militari, producendo duplicazioni, sovraccapacità in alcuni settori e carenza di economie di scala; tutto questo, in ultima analisi, nuoce alla competitività sul mercato globale e, da un punto di vista operativo, ostacola l’interoperabilità tra le forze armate degli stati membri.
Rispetto agli Stati Uniti, che contano 11 sistemi e piattaforme di difesa, nel 2013 la UE ne aveva in produzione 36, benché la spesa militare sia inferiore di 2,5 volte a quella degli Stati Uniti.
La posizione globale dell’industria europea della difesa è rispecchiata dalla sua quota di fatturato tra le prime 100 imprese del settore della difesa. Le principali imprese dell’UE rappresentano una quota significativa del fatturato globale (circa un quarto). La tendenza degli ultimi 20 anni evidenzia però la costante crescita della concorrenza da parte di aziende cinesi e russe.
Per quanto riguarda i legami industriali e commerciali, le importazioni UE da imprese statunitensi si sono avvicinate, nel periodo 2010-2018, agli scambi intra-UE, ammontando al 40 %.
Nello stesso periodo, oltre il 50 % delle importazioni di armamenti negli stati uniti proveniva dagli stati membri dell’UE. Lo squilibrio a favore degli USA che si registra negli scambi transatlantici è dovuto:
- Al predominio tecnologico degli stati uniti
- Alle restrizioni commerciali che limitano l’accesso di concorrenti stranieri al mercato statunitense della difesa
- All’assenza di una preferenza europea tra gli stati membri.
Benché non esista un panorama completo della dipendenza dall’estero nella catena di approvvigionamento, il settore europeo della difesa dipende da tecnologie specifiche oppure da sotto componenti (USA) e materie prime essenziali (Cina).
Attualmente il sistema militare / industriale UE dipende interamente
dalle importazioni provenienti da un ridotto numero di paesi terzi per 19 delle 39 materie prime essenziali per i suoi processi produttivi. Questa dipendenza dagli approvvigionamenti esterni minaccia non solo l’autonomia dazione dei singoli stati, ma anche la competitività dell’industria europea della difesa.
Questo è lo stato dell’arte del sistema militare/industriale UE.
I processi di integrazione tra grandi multinazionali del settore rispondono, più che ai richiami politici nazionali”, alle complesse interconnessioni economiche esistenti su scala globale ed alla competizione tra giganti del settore, in primis gli usa.
Consolidare il sistema militare / industriale europeo sarà quindi una intrapresa complessa e lunga, che passerà per ulteriori strappi e contraddizioni determinate dallo scontro interimperialista in atto. Anche in questo campo però il progetto di integrazione non si è mai fermato, come testimonia la riunione del consiglio della cooperazione strutturata permanente (pesco) in materia di sicurezza e difesa del 12 novembre scorso, che ha portato dai 34 previsti a ben 47 i progetti comuni di integrazione nella politica militare e nell’industria degli armamenti della UE.
I principali progetti militari dell’unione europea.
Il consiglio ha approvato il programma EcoWar (collaborative warfare capabilities), definito anche come “guerra collaborativa”, coordinato dalla Francia e che comprende Belgio, Ungheria, Romania, Spagna e Svezia.
Approvato anche il programma Twister, di allarme tempestivo ed intercettazione con sistema di sorveglianza di teatro basato nello spazio, coordinato dalla Francia e che coinvolge Finlandia, Italia, Paesi Bassi e Spagna.
Altro importante programma approvato è l’acquisizione della capacità d’attacco elettronico dall’aria o airborne electronic attack (AEA). Coordinato dalla Spagna, e che comprende Francia e Svezia.
C’è poi il progetto per il drone militare europeo che coinvolge l’Italia come coordinatore insieme a Francia e Romania.
Ci sono infine i droni sottomarini del programma MUSAS (maritime unmanned anti submarine System), coordinato dal Portogallo con la partecipazione di Francia, Spagna e Svezia, che ha come obiettivo lo sviluppo e la realizzazione di un sistema avanzato di comando, controllo e comunicazione (c3) di mezzi autonomi per la lotta antisommergibile (ASW).
Il “nodo” NATO
Che l’alleanza atlantica stia attraversando una profonda crisi esistenziale è oramai noto a tutti.
Su questo punto abbiamo insistito in anni non sospetti, contro i luoghi comuni di una sinistra radicale e “antagonista” che ancora oggi mantiene una visione unilaterale della realtà storica in svolgimento, a rappresentare l’imperialismo usa come unico ed eternamente dominante su scala globale.
I fatti, come sempre, hanno la testa dura, facendo emergere, oramai ad ogni piè sospinto, contraddizioni insanabili all’interno di una alleanza che rappresenta fasi storiche morte e sepolte, prima quella del confronto est / ovest, poi quella dell’unipolarismo a dominanza usa emerso dopo 1’89 e conclusosi con la crisi finanziaria del 2007. Oggi, in piena fase di competizione globale interimperialistica, solo nostalgiche ingenuità per un mondo che fu o, peggio, una cattiva coscienza può continuare a sostenere la tesi dell’unico imperialismo dominante a livello planetario.
Indubbiamente i condizionamenti della NATO sulla UE sono stati, sono e saranno ancora molto forti, al fine di contrastare un progetto di integrazione continentale che procede oggettivamente in antagonismo con tutti gli altri.
Gli agenti interni filo statunitensi nella UE non mancano, a partire dai paesi dell’est, prigionieri di un debito contratto con le industrie delle armi a stelle e strisce nel momento dell’ingresso nella alleanza stessa e dall’antagonismo storico con la Russia.
Anche i cosiddetti “sovranisti”, a partire dalla lega di Salvini, scimmiottano inutilmente un rapporto privilegiato con gli USA, in funzione anti francese e anti tedesca.
Ma lo scontro in atto dentro la NATO, la miriade di dichiarazioni dei giganti europei contro l’alleanza, le stridenti contraddizioni in ogni scenario bellico, le politiche della Turchia di questi ultimi anni nello scenario siriano, sino alla decisione di inviare 5000 truppe in Libia, testimoniano della crisi di questa “camera di compensazione” che ha determinato le politiche militari dell’occidente dal secondo dopoguerra sino alla prima decade XXI secolo.
Un’epoca è finita e se n’è aperta un’altra ben più pericolosa della precedente, a causa di un “equilibrio delle forze” tra paesi imperialisti e potenze regionali di grande e media grandezza, retto al momento esclusivamente dalla deterrenza nucleare, oramai in possesso di molti paesi centrali e periferici.
È l’epoca nella quale siamo costretti a vivere e lottare, con una sproporzione delle forze, al momento considerevole, tra chi incarna gli interessi del grande capitale e chi, come noi, si batte per l’abbattimento di un sistema economico che sta portando al collasso il pianeta e i suoi abitanti.
I compiti di potere al popolo! In questo scenario
La piattaforma sociale Eurostop ha deciso sin da subito di aderire al progetto politico di potere al popolo, portando, come nel caso di questo convegno, un contributo militante sedimentato in anni di lavoro sul terreno dell’analisi e della mobilitazione contro il polo imperialista europeo in costruzione, nelle forme contraddittorie che, in piccola parte, abbiamo evidenziato in questa relazione.
Il tema della tendenza alla guerra e della lotta contro i suoi effetti mortali è inscindibilmente legato alla denuncia di questa UE.
Tornando alle parole iniziali di questa relazione, la crisi e la guerra sono congenite al capitalismo, e periodicamente si presentano come fenomeni naturali delle sue contraddizioni. Separare la lotta contro la guerra da quella contro il capitalismo o è un esercizio da anime belle, oppure è una delle tante perversioni di classi politiche aduse a gestire politiche e pratiche belliciste chiamandole con altri nomignoli, al fine di imbellettare e nascondere ideologicamente la propria funzione di servi del capitale.
Dovremo essere in grado di superare l’approccio generico e interclassista dei movimenti pacifisti del passato recente. La cosiddetta “seconda potenza mondiale”, come venne definito il grande movimento no war a cavallo tra fine secolo e inizio del presente, ha lasciato ben poche traccia nel nostro paese. Dalle sue fila sono usciti invece ministri di guerra come Mogherini e Pinotti.
Una debolezza proveniente non solo e non tanto dal mancato raggiungimento dei propri difficilissimi scopi, ma dalla sua siderale distanza dal più generale conflitto contro le politiche di guerra economica dell’unione europea verso le nostre classi sociali di riferimento, determinando una assenza pressoché totale di egemonia tra i lavoratori, i pensionati, i precari e tutti quei soggetti colpiti dalla crisi ed oggi in balia di una destra reazionaria e guerrafondaia.
Un radicamento politico ed organizzativo che avrebbe permesso, in questo tornante della storia nel quale i venti di guerra riprendono a soffiare forte, di dare filo da torcere all’imperialismo di casa nostra.
Le mobilitazioni di queste ultime settimane contro le nuove aggressioni imperialiste in medio oriente sono una buona base dalla quale ripartire nella ricostruzione di un movimento contro la guerra nel nostro paese, attraverso campagne politiche, sociali e culturali in grado contrastare efficacemente la costruzione del sistema militare industriale europeo.
Giusto in questo senso il documento prodotto da potere al popolo! Dopo l’attentato terroristico Usa in Iraq dello scorso 2 gennaio, racchiuso in 5 parole d’ordine:
- Chiudere le basi militari USA/NATO in Italia
- Ritirare i contingenti militari impegnati in missioni all’estero
- Impedire il trasferimento delle testate nucleari dalla Turchia all’Italia. Bloccare l’acquisto degli F35.
- Uscire dalla NATO
È mancato un sesto punto, quello contro il processo di integrazione industriale/militare europeo.
Abbiamo tutto il tempo di inserire, nel prossimo futuro, questo ultimo ma fondamentale elemento di lotta nella agenda politica nazionale di Potere al Popolo.
CREDITS
Immagine in evidenza: Vintage globe with Europe in focus;
Autore: Christian Lue, 12 maggio 2020;
Licenza: Free to use under the Unsplash License;
Immagine originale ridimensionata e ritagliata