Alessandro Giannelli (in Il complesso militare industriale Europeo – Atti del convegno Eurostop, Napoli 25 gennaio 2020)
Introduzione
Affrontare il tema dell’aumento delle spese militari e della conseguente riduzione delle spese sociali significa inevitabilmente fare i conti con le ragioni profonde della crisi che si sono manifestate con ancor più virulenza a partire dal 2007 e con quella tendenza alla guerra che costituisce il tratto caratteristico e strutturale del capitalismo mondiale ed in particolare di quello occidentale dopo la caduta dell’Unione Sovietica. E la stragrande maggioranza dei confitti si concentrano proprio intorno al continente europeo determinando una condizione permanente di instabilità che proprio in questi giorni sta conoscendo un’ ulteriore escalation in Medio Oriente e in Libia.
Crisi sistemica del capitalismo e tendenza alla guerra sono in realtà strettamente connesse poiché l’aggressività militarista è alimentata proprio dalla crisi che moltiplica la tendenza alla competizione globale in un mondo ove alla crisi dell’unipolarismo targato USA corrispondono i tentativi da parte degli Stati Uniti di riaffermare un ruolo, in particolare nello scacchiere Medio orientale, anche attraverso vere e proprie operazioni terroristiche come quella che ha determinato l’uccisione del generale iraniano Soleimani.
Se quindi la crisi sistemica all’interno dei singoli paesi produce una vera e propria guerra sociale ed economica nei confronti dei ceti subalterni (la cura somministrata alla popolazione greca ne è la rappresentazione più macroscopica) all’esterno la competizione che si è scatenata tra i diversi attori capitalisti assume la forma dell’intervento militare che, avviato nel 1991, non si è mai arrestato e si è sviluppato ad ampio raggio, disgregando e frantumando Stati.
In questo scenario di contrazione della domanda interna determinato da politiche di riduzione del salario sia nella sua forma diretta che indiretta, la competizione tra imprese ed aree economiche sovranazionali per la conquista dei mercati di sbocco di merci e capitali e per il controllo delle materie prime, si gioca sia sul piano economico che su quello militare rafforzando la capacità di intervento militare all’estero.
Come già accaduto con la crisi del 29, il Keynesismo militare può, almeno nel breve periodo, costituire occasione di rilancio attraverso la conquista di mercati di sbocco per le merci e i capitali in eccesso e il controllo delle risorse.
La corsa alle armi risponde, quindi, a questa logica e non potrà essere combattuta, così come non potrà essere combattuto l’imperialismo europeo, se non si rimuovono le ragioni a fondamento del funzionamento dell’economia capitalista.
Boom di spese militari
La spesa militare mondiale nel 2018 ha registrato un nuovo record.
Come evidenziato da un istituto internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma (SIPRI) per il 2018 sono stati destinati alla difesa 1822 miliardi di dollari, con un incremento del 2,6% rispetto all’anno precedente e con un trend di crescita simile a quello della guerra fredda.
A guidare la classifica degli Stati che spendono di più per la spesa militare sono sempre gli Stati Uniti con un monte spesa di 649 miliardi, ovvero il 36% della spesa globale.
Segue la Cina passata da 228 miliardi del 2017 a 250 miliardi che, se pur assai lontana dagli Stati Uniti, è comunque il paese ad aver maggiormente incrementato la spesa per la difesa nell’ultimo decennio (83%).
Poi vi è l’Arabia Saudita con 68 miliardi pari a11’88% del loro PIL; l’India con 66,52 miliardi (2,4% del Pil) e il primo paese europeo, in quinta posizione, è naturalmente la Francia con una spesa militare di 63,8 miliardi di dollari ovvero, secondo il SIPRI, 6 miliardi in più dell’anno precedente.
La Russia segue la Francia con 61,4 miliardi (4% del Pil) scendendo dal terzo posto del 2016 all’attuale sesto posto. Completano poi la classifica dei primi dieci Paesi che spendono di più il Giappone (46,6 miliardi ovvero il 2,3% del Pil) e la Corea del Sud in decima posizione con 43,1 miliardi di dollari pari al 2,6% del Pil. Con particolare riferimento agli Stati Uniti va poi segnalato che nella proposta di bilancio 2020 Trump ha proposto di aumentare la spesa per la difesa del 4% fino a 750 miliardi di dollari e di tagliare su welfare, trasporti, buoni alimentari ed ambiente.
Sempre con riferimento agli Stati Uniti, un recente studio dell’Istituto statunitense Watson ha rivelato che in nome della guerra al terrorismo dall’11 settembre 2001 ad oggi sono stati spesi circa 5,9 trilioni di dollari.
E l’Italia?
Il nostro si conferma come un paese che destina ingenti risorse alla difesa, continuando ad investire su costosissimi sistemi d’arma (per esempio gli F35 che tra l’altro presentano difetti strutturali importanti) e restando presenti in tante missioni militari all’estero (16 anni di presenza in Afghanistan per un costo pari a 7,8 miliardi e 14 in Iraq per un costo pari a circa 3 miliardi).
Secondo il rapporto Milex 2018 a cura di Piovesana, cofondatore dell’Osservatorio sulle spese militari italiane e di Vignarca della Rete italiana per il disarmo, complessivamente la spesa militare italiana ammonta a 25 miliardi di euro per il 2018 (circa 70 milioni al giorno), l’1,4% del PIL, con un aumento del 4% rispetto al 2017, confermando un inarrestabile trend di crescita avviato dal governo Renzi. Dati confermati anche dal SIPRI.
Ciò nonostante la Nato spinge affinché l’Italia arrivi presto al 2% e come è noto in un recente incontro col segretario di Stato USA Mike Pompeo il governo si sarebbe impegnato ad accrescere di ben 7 miliardi le spese militari a partire dal 2020 che porterebbe la nostra spesa militare alla stratosferica cifra di 32 miliardi! In particolare, il bilancio del Ministero della Difesa schizza a 21 miliardi salendo del 3,4% rispetto al 2017 e i contributi del MISE per l’acquisto di nuovi armamenti salgono a 3,5 miliardi gravando pesantemente sul debito pubblico considerati gli elevati tassi di interesse (427 milioni) che sono pagati per finanziare tali programmi attraverso richieste di prestiti bancari.
La crescente spesa militare per armamenti è quindi sempre più a carico del MISE che destina gran parte del suo budget a sostegno del comparto militare.
In particolare il rapporto Milex evidenzia la forte impennata nella corsa italiana agli armamenti con circa 5,7 miliardi nel 2018 ed una crescita di queste spese nella legislatura 2016-2018 pari al’ 88%.
L’Unione europea e la competizione militare.
In un quadro di permanente tendenza alla guerra, una potenza come l’UE che non disponga di un proprio autonomo strumento militare può essere credibile sullo scacchiere internazionale o ha necessità di attrezzarsi rapidamente al fine di giocare un ruolo nella competizione con gli USA e gli altri paesi emergenti? La risposta a questo interrogativo si può cogliere nelle spinte e nelle accelerazioni impresse negli ultimi anni al fine di dare slancio alla cooperazione dell’Unione europea in materia di difesa.
D’altronde il de profundis della Nato pronunciato da Macron nell’intervista al settimanale britannico “The Economist” lascia poco spazio a fraintendimenti, e punta direttamente all’obbiettivo: la necessità che l’Europa acquisisca autonomia strategica e capacità militare. Non è un mistero che la Francia di Macron spinga da tempo per la creazione di un vero esercito europeo e quindi di fatto per trasformare l’Unione Europea anche in una alleanza militare.
Dall’altro lato il rapporto con la Germania si configura contraddittorio: se il Trattato di Aquisgrana siglato da Francia e Germania stabilisce meccanismi stabili di collaborazione in tema di difesa, sicurezza interna, industria militare e missioni militari all’estero e delinea un Europa core con gli altri Stati ridotti al rango di colonie da tenere in riga, è anche vero che la Germania non vede certamente di buon occhio il protagonismo militare della Francia.
Per quanto concerne il nostro paese, in una recente intervista su Repubblica Paolo Gentiloni, Commissario europeo all’Economia, proprio in merito alla recente escalation militare impressa da Trump, invita l’Europa, al fine di non essere condannata all’ininfluenza, ad assumere un ruolo da protagonista nella competizione che si è aperta a livello globale. In particolare, interrogato sulla nascita di un esercito europeo, risponde testualmente “Certamente nuovi passi in avanti in questo senso sono necessari, molto è stato fatto ma dobbiamo accelerare “.
Un ragionamento assolutamente in linea con la volontà espressa dalla Presidente della Commissione europea Ursula Von der Lyen di attribuire un ruolo ‘geopolitico” alla Commissione.
In realtà i passi in avanti ai quali Gentiloni fa riferimento non riguardano mere enunciazioni, ma iniziative concretamente intraprese negli ultimi tre anni e che tra l’altro comportano una moltiplicazione di voci di spesa e di organizzazioni da finanziare che fanno schizzare verso l’alto la spesa militare in Europa.
Se pur all’interno di un quadro non lineare e in continua evoluzione, occorre, quindi, osservare con attenzione le iniziative intraprese dall’UE, cogliendone la dinamica che indica la volontà di procedere per tappe nella direzione del potenziamento della cooperazione per la difesa.
La Cooperazione strutturata permanente (PESCO) e il Fondo Europeo di Difesa (EDF).
La Pesco e il Fondo Europeo di difesa costituiscono i due principali sviluppi verso l’Europa della difesa al quale nel 2018 si è aggiunto, naturalmente su iniziativa della Francia, l’Iniziativa Europea di Intervento.
La Pesco (Cooperazione strutturata permanente) rientra nell’ambito delle cooperazioni rafforzate ovvero di quello strumento giuridico comunitario che, istituzionalizzato con il Trattato di Amsterdam del 1997, consente ad uno Stato membro, in ossequio ai principi di flessibilità e differenziazione, di derogare al principio dell’unitarietà dell’ordinamento comunitario. La cooperazione rafforzata approda nell’ambito delle politiche di difesa soltanto con il Trattato di Lisbona (2009) che istituisce la cooperazione strutturata permanente (PESCO).
La PESCO, quindi, è da ritenersi l’avanzamento più significativo nel campo della flessibilità istituzionalizzata, applicata alla sfera della sicurezza e della difesa, consentendo la convergenza solo di alcuni Stati su singoli progetti: ciò al fine, appunto, di gestire le diversità esistenti tra paesi membri, puntando su un’avanguardia (appunto gli Stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari come recita l’art 42.6 del Trattato) capace di attrarre gradualmente il resto dei paesi membri all’interno di quella che da più parti viene definita una nuova Eurozona della difesa.
Prevista dagli articoli 42.6 e 46 del nuovo TUE, la Cooperazione strutturata permanente presenta tre caratteristiche fondamentali:
- non è richiesto un numero minimo di partecipanti (come per la cooperazione rafforzata in altri settori)
- l’attivazione avviene attraverso delibera a maggioranza qualificata;
- è presente un sistema flessibile di ingresso/uscita fondato principalmente sul soddisfacimento di alcuni criteri (cooperare per quanto concerne gli obiettivi di difesa, specializzazione al fine di allineare il più possibile i diversi apparati di difesa, armonizzazione delle necessità militari, ecc).
Congelata per 8 anni, la PESCO è stata lanciata da 25 Stati membri dell’Unione, praticamente tutti tranne Malta, Danimarca e Gran Bretagna, al fine di portare avanti progetti di cooperazione a geometria variabile per lo sviluppo di nuovi equipaggiamenti terrestri, aerei, spaziali, cibernetici, nonché per la messa in comune di attività di addestramento, mediche, logistiche o basi militari.
Si tratta di una struttura fortemente integrata con le istituzioni dell’UE esistenti (l’Alto Rappresentante e vice Presidente della Commissione ha a tal proposito una specifica responsabilità per la valutazione annuale dell’andamento della PESCO) proprio al fine di evitare che l’iniziativa si areni qualora dovesse mutare lo scenario politico che l’ha determinato.
Nel 2018 sono stati approvati 34 progetti: se nel marzo 2018 gli Stati membri della PESCO hanno approvato un primo pacchetto di 17 progetti con impieghi di risorse economiche e militari piuttosto limitate (per esempio un comando medico), nel novembre dello stesso anno la previsione di ulteriori 17 progetti ha segnato un significativo passo in avanti sul piano della cooperazione militare con progetti che spaziano dal settore terrestre a quello aereo, dall’ambito spaziale a quello del dominio marittimo.
Si segnala in particolar modo l’inserimento nel pacchetto PESCO dell’Eurodrone (MALE), al quale il nostro paese partecipa attraverso Leonardo, che testimonia sia la volontà di fare del drone europeo un progetto di punta dell’Europa della difesa, sia di ridurre la dipendenza tecnologica ed industriale da fornitori non europei ed in primis dagli Stati Uniti.
Nel campo spaziale sono previsti altri due progetti: uno per lo sviluppo di capacità militari di geolocalizzazioni e navigazione satellitare, l’altro per la protezione degli assetti e servizi spaziali degli stati UE.
Per quanto concerne gli impegni dei singoli Stati, in relazione alla seconda tranche di progetti (quelli partiti a novembre), la Francia ha partecipato a 9 iniziative, Italia e Germania a 6. Ma al di là della diversità in termini qualitativi e quantitativi dei progetti resta il dato rappresentato dalla varietà degli ambiti dei progetti e dalla rilevanza di alcuni di essi dal punto di vista militare.
Infine il Consiglio ha adottato nel novembre 2019 ulteriori 13 progetti (incentrati sulla formazione e sullo sviluppo delle capacità marittime aeree e spaziali) portando così a 47 i progetti attualmente esistenti.
Il Consiglio dell’UE ha espresso una valutazione positiva per quanto riguarda gli impegni assunti nel quadro della cooperazione strutturata permanente (PESCO) evidenziando che gli incrementi dei bilanci aggregati per la difesa sono stati pari al 3,3% nel 2018 e al 4,6% nel 2019.
Parte integrante del quadro della nascente Difesa europea nonché importante tassello per lo sviluppo dei progetti PESCO è il Fondo Europeo per la Difesa (EDF). Quest’ultimo, nato nel 2017 su proposta della Commissione europea, fornisce incentivi finanziari agli Stati membri, anche in ambito PESCO, per promuovere la cooperazione sia nella fase di ricerca che in quella di sviluppo di nuove capacità militari, stante il divieto da parte del bilancio dell’UE (articolo 41 paragrafo 2 del Trattato) di finanziare operazioni militari, le quali sono finanziate direttamente dagli Stati membri.
In un contesto all’interno del quale i 2,8 miliardi di euro assegnati alla difesa nel quadro finanziario pluriennale 2014-2020, schizzerebbero a ben 22,5 miliardi del periodo 2021 – 2027, si segnala, in particolare, il grande balzo in avanti che dovrebbe compiere l’attività di ricerca e sviluppo delle capacità militari.
Infatti si passerebbe dai 590 milioni del triennio 2017-2019 (90 milioni per l’attività di ricerca in ambito militare e 500 milioni per finanziare attività fino al 2020 nel campo del programma europeo di sviluppo del settore industriale della difesa), ad un budget di 13 miliardi di euro (4,1 miliardi per la fase di ricerca e 8,9 miliardi di euro per quella di sviluppo delle capacità) proposti dalla Commissione a giugno 2018 per quanto concerne il periodo 2021 — 2027. Su questo punto a febbraio 2019 la CE, il Consiglio e il Parlamento Europeo hanno raggiunto un accordo e il regolamento dovrà essere formalmente approvato da Consiglio e Parlamento per diventare operativo.
Il Fondo Europeo di Difesa dovrebbe diventare, quindi, parte integrante del prossimo bilancio dell’UE in un quadro all’interno del quale aumentano complessivamente le risorse per la sicurezza, mentre la politica agricola comune (PAC) verrebbe tagliata di circa un 15% e la politica di coesione sociale di circa un 10%. In particolare, si segnala la proposta di dimezzare i fondi da destinare agli indigenti e per aiutare gli Stati UE a fornire cibo e beni di prima necessità: tali risorse dagli attuali 3,8 miliardi di euro scenderebbero, nella proposta di bilancio 2021-2027, a 2 miliardi.
La Coordinated Annual Review of Defence (CARD) e l’Iniziativa Europea di Intervento (IEI)
Se PESCO e EDF costituiscono indubbiamente le maggiori iniziative per rafforzare la cooperazione e l’integrazione nel campo della difesa europea, vanno segnalate altre due iniziative.
La CARD è un processo che risponde all’esigenza di confrontare a livello europeo i piani di spesa militare al fine di avere un quadro completo di cosa stanno acquisendo le forze armate dei singoli Paesi al fine di meglio individuare opportunità di cooperazione ed eventuali gap da colmare.
Ma soprattutto va segnalata l’iniziativa lanciata dalla Francia fuori dal quadro dell’UE, della sua struttura e dei suoi organismi: l’Iniziativa Europea di Intervento (IEI) alla quale hanno aderito la Germania, la Gran Bretagna, interessata a restare un partner politico militare importante nella geopolitica europea, il Belgio, la Danimarca, l’Estonia, l’Olanda, il Portogallo, la Spagna, la Finlandia e da qualche mese anche l’Italia.
L’ obbiettivo dichiarato dell’iniziativa francese è accelerare e snellire i processi decisionali e costituire uno strumento di pronto intervento con capacità di gestire le crisi all’estero effettuando interventi militari congiunti bypassando quelle istituzioni che hanno il loro quartiere generale a Bruxelles (infatti la PESCO è espressione della volontà collegiale di 25 Stati, mentre il Fondo europeo di difesa è un programma di ricerca e industriale comunque programmato dal Parlamento europeo e strutturato dalla Commissione).
Il progetto IEI, quindi, è stato concepito per ricercare soluzioni operative all’esterno della difesa comunitaria, tenuto conto delle difficoltà nel trovare una visione unitaria in fatto di “azione esterna” da parte degli Stati membri dell’UE, in un contesto di profonde divisioni e contrasti. La presenza di Regno Unito e Danimarca (che con Malta non ha aderito alla PESCO) inducono a ritenere che la struttura sia molto meno legata all’Unione Europea.
E come sottolinea Analisi Difesa, sebbene tutti gli stati che ne fanno parte —tranne la Finlandia — aderiscano alla Nato “è difficile vedere nella Iniziativa di Intervento Europea un rafforzamento dell ‘Alleanza Atlantica, tenuto conto che soprattutto quest’ultima dispone già di strutture di proiezione di comandi e forze militari a ogni livello per far fronte a crisi di ogni tipo”
L’ Istituto Affari Internazionali, se pur scettico verso la possibilità di costituire un esercito europeo nel breve — medio periodo, riconosce comunque il mutato quadro politico all’interno del quale tali spinte si collocano: da un lato “1 ‘uscita della Gran Bretagna dall’UE, il Paese che più avversava qualsiasi idea di esercito europeo” dall’altro “l‘ingresso alla Casa Bianca di Donald Trump, il presidente più critico dell ‘Europa da è decenni a questa parte “.
Quindi, tra iniziative che si collocano all’interno del quadro dell’UE e iniziative che provano anche a forzare quel quadro poiché percepito come paralizzante, possiamo cogliere una tendenza che, anche alla luce di uno scenario di competizione interimperialistica, agevola spinte ed accelerazioni verso la costruzione di un esercito europeo.
Il fronte interno della guerra: l’attacco al modello sociale europeo
All’aumento delle spese militari e alle accelerazioni nella direzione della costruzione di un esercito europeo, corrisponde sul versante interno una vera e propria guerra sociale attraverso l’inasprimento di politiche ispirate ad una ferrea disciplina di bilancio.
Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, ha recentemente pubblicato i dati relativi alla protezione sociale nel 2017 certificando che la spesa per la protezione sociale nell’UE si è assestata al 27,9% del PIL, una percentuale inferiore di quasi un punto rispetto al 28,7% del 2012.
Sempre fonti Eurostat riferiscono che negli anni della crisi (2007 — 2010) il debito pubblico nell’Unione europea è mediamente cresciuto di circa 20 punti, mentre la spesa sociale è rimasta sostanzialmente stabile. Ed anche in Italia la spesa per sanità, istruzione, previdenza e protezione sociale, si è mantenuta pressoché costante.
Tali dati smentiscono categoricamente quella narrazione racchiusa nella frase “Abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità” che per anni è stata adoperata, in particolare all’indirizzo dei paesi del Sud Europa, per travisare la realtà e fornire una versione della crisi utile ad imporre e ad esasperare le politiche liberiste: quella secondo la quale il modello sociale europeo sarebbe diventato un gravame insostenibile per i bilanci pubblici.
In realtà, il processo di integrazione europeo con i suoi trattati e le sue regole ispirate agli assurdi vincoli di bilancio ha agevolato ed accentuato un percorso diretto a ridimensionare drasticamente il sistema di protezione sociale europeo, attraendo pensioni, scuola, sanità e servizi pubblici nella sfera del mercato ed attuando una gigantesca redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto. Ciò è avvenuto in tutti i paesi dell’Eurozona, ma con una intensità differente che deve inevitabilmente tener conto delle condizioni di partenza degli Stati membri prima dell’avvio del processo di integrazione ed anche della diversa gradazione delle prestazioni sociali fornite (senza dubbio meno elevate nei paesi del Sud Europa rispetto a quelli del Nord). Ebbene, quelle differenti condizioni di partenza dei diversi Stati aderenti al processo europeista, sono state esasperate all’interno di un dispositivo (quello ordoliberista) che fa della diseguaglianza (tra Stati e tra classi sociali all’interno degli Stati) e dell’asimmetria la sua forma di governo.
Diseguaglianze nel quadro dell’UE
Una ricerca appena pubblicata dal World Inequality Database (WID) documenta che in Europa le disuguaglianze sono aumentate e che l’economia Europea è più disuguale oggi di quanto non lo fosse 40 anni fa. Tra il 1980 e il 2017 ad esempio, se guardiamo al PIL l’l% della popolazione più ricca si è preso per sé quanto il 50% della popolazione più povera guadagnando nell’ultimo anno circa l’ 11% del reddito europeo. Nel 2017 il 10% della popolazione più ricca ha guadagnato il 34% di tutto il reddito europeo mentre nel 1980 ne guadagnava il 29%.
Interessanti anche le differenze tra paesi. Secondo i dati Wid riferiti al 2017, il reddito medio pro capite era sotto i 15mila euro nei Balcani; tra i 15mila e i 30mila nei paesi dell’Europa dell’est e del sud (Grecia, Portogallo, Italia, Spagna, Cipro e Malta); tra i 30mila e i 45mila nei paesi dell’Europa occidentale e del nord, con Lussemburgo e Norvegia che superavano i 60mila euro (redditi calcolati a parità di potere d’acquisto).
Confrontando i redditi in vari gruppi di paesi e la media europea si registra che il blocco nordico resta ampiamente in vetta con un reddito del 50 per cento più alto di quello della media europea (mentre alla metà degli anni novanta la differenza era solo del 25 per cento); quello occidentale segue a distanza, più alto del 25 per cento; quello del sud, sceso sotto la media europea con la grande crisi del 2008, adesso è il 10 per cento in meno; mentre quello dell’est imbocca una direzione opposta, guadagnando gradualmente terreno ma restando del 35 per cento sotto la media.
Se poi guardiamo le differenze all’interno dei paesi, dal 1980 al 2017 la quota del reddito del 10 per cento più ricco è cresciuta ogni anno dell’1,4 per cento nel blocco dell’Europa occidentale, dell’1,3 per cento in quello del sud, del 2,2 per cento nell’Europa del nord e del 2,5 per cento in quella orientale.
Questi dati dimostrano concretamente che il processo di integrazione europeo ha allargato il divario e le differenze tra paesi del nord Europa e quelli del Sud e nel contempo all’interno di tutti gli Stati membri è stata portata avanti un gigantesca operazione di redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto.
E in Italia?
Gli effetti devastanti delle politiche dell’UE nel nostro paese sono freddamente fotografati da questi dati.
Circa 12 milioni di cittadini rinunciano a curarsi mentre la spesa sanitaria privata viaggia intorno ai 38 miliardi (rapporto Censis); circa 6 milioni di pensionati percepiscono meno di 1.000 euro mensili e 1,68 milioni percepiscono un assegno sotto i 500 euro al mese (dati Inps) ed il nostro continua ad essere il paese d’Europa ove si lavora più a lungo; solo il 4% del PIL è la spesa destinata all’istruzione (studio OCSE); si diffonde il lavoro povero con 4,26 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato (esclusi operai agricoli e lavoro domestico) sotto i 10 mila euro annui, di cui 2,4 milioni hanno percepito una retribuzione che non supera i 5.000 euro annui (dati Inps).
Il recente rapporto “Time to care” a cura dell’Ong Oxfam ha poi certificato che nel nostro paese l’l% più ricco possiede lo stesso patrimonio del 70% della restante popolazione, e i tre uomini più ricchi d’Italia hanno una ricchezza pari a tutto ciò che possiedono i sei milioni più poveri.
All’interno di queste diseguaglianze, come rappresentato dal rapporto Svimez, si acuisce il divario tra Nord e Sud Italia in relazione alla qualità dei servizi, al ristagno dei consumi, ai dati sulla disoccupazione, con conseguente ripresa dei flussi migratori dalle regioni meridionali a quelle settentrionali, che configura una vera e propria “emergenza meridionale”. Il federalismo aumentato, che continua ad aleggiare sulle nostre teste e punta proprio ad esasperare tali asimmetrie rappresenta, in fondo, la declinazione sul piano nazionale di quel dualismo economico che le politiche dell’Unione europea hanno già realizzato a livello continentale.
UE: una costruzione palesemente asimmetrica
Quando si afferma che l’Unione europea è stata costruita su misura della Germania, non si tratta di uno slogan.
Rapporto debito/Pil al 60% e deficit entro il 3%: tutti noi oramai conosciamo queste indicatori economici e il cortocircuito che sta generando, anche dal punto di vista capitalista, l’imposizione di tali parametri e in particolar modo del livello del debito quale indice per valutare l’affabilità di un paese. Infatti, le politiche di austerità stanno rallentando la crescita nell’eurozona e nel nostro paese in virtù del circolo vizioso innescato col taglio della spesa pubblica che automaticamente produce una contrazione dei consumi, la chiusura delle attività economiche e conseguentemente blocca la crescita.
Non altrettanto conosciuta è quella regola di Maastricht secondo la quale il surplus commerciale non possa essere più elevato del 6% per tre anni di seguito: ebbene Germania, Danimarca e Paesi Bassi sforano da anni tale valore, incorrendo in uno squilibrio macroeconomico che puntualmente la Commissione Ue registra nei suoi Report annuali.
Le raccomandazioni inviate ai tre Paesi evidentemente cadono nel vuoto, senza che questo determini 1’ avvio di una qualche procedura sanzionatoria, prevista ma mai applicata dalla Commissione che, invece, minaccia il nostro paese, ottenendo ben altri risultati, in prossimità di ogni legge di bilancio, nonostante le manovre varate siano ben al di sotto del fatidico 3% e, dal lontano 1991, il nostro paese realizzi un avanzo primario.
Due pesi, due misure…
Per dimensione dell’economia, quindi, è stato proprio il surplus della Germania, ottenuto con politiche, già nella fase pre crisi, di contenimento salariale e precarizzazione spinta (mini jobs ed estensione massiccia del contratto a tempo determinato) che hanno quindi ridotto l’inflazione e reso più competitive le esportazioni, a determinare seri problemi all’eurozona. Già nel lontano 2014 Krugman affermò che “se si cercasse di trovare dei paesi le cui politiche economiche fossero già scriteriate prima dell’inizio della crisi e che hanno poi successivamente danneggiato l’Europa, e che ora si rifiutano di imparare dalle proprie esperienze, bisognerebbe concludere che la Germania è stata la più colpevole “.
Tale modello tutto orientato all’esportazione ha quindi determinato inevitabili squilibri strutturali per almeno 2 ragioni:
- per un Paese che esporta un altro deve importare perché la domanda esterna di un Paese è la domanda interna di un altro paese;
- in un area monetaria unica, ovvero in un sistema chiuso, nel quale sono precluse in ossequio ai trattati europei politiche espansive (per esempio attraverso sostegno ai redditi, al welfare ecc,) in quanto determinerebbero dinamiche inflattive, le economie dei paesi cicala hanno cominciato a rallentare.
Pertanto, l’unica soluzione per i paesi del Sud Europa è stata indebitarsi rivolgendosi ai mercati e quindi ad investitori stranieri, pagando tassi di interesse molto elevati sui titoli che emettono: il debito pubblico, potenzialmente leva fondamentale della crescita se il finanziamento dello stesso avvenisse tramite banche pubbliche magari per realizzare scuole, ospedali, o mettere in sicurezza il territorio, si è quindi trasformato in debito illegittimo perché gonfiato a dismisura dal c.d servizio sul debito.
Ricapitolando: la Germania esporta, comprime la domanda interna e accumula un surplus che viene accantonato nelle banche tedesche, le quali prestano il denaro ai Paesi in deficit commerciale, che dunque continuano (anche) a importare dalla stessa Germania. È un circolo vizioso oramai giunto al capolinea anche da un punto di vista capitalista.
La recessione travolge anche la Germania.
Un modello così strutturato e decisamente profittevole per la Germania (ma non certamente per la classe lavoratrice tedesca) non poteva durare in eterno e sotto i colpi dell’inasprirsi della competizione tra macro aree economiche, della guerra dei dazi e della crescita del mercato interno della Cina, la locomotiva tedesca rallenta paurosamente.
Ma naturalmente la Germania non sta con le mani in mano e la signoria che sfacciatamente esercita sulla costruzione europeista non conosce tregua ed agisce a vari livelli.
E così in ambienti politici (Scholz) e persino bancari (Weidmann), si levano voci per aumentare la spesa pubblica attraverso massicci investimenti pubblici. Non un ripensamento sulle politiche di austerity da estendere anche agli altri paesi, ma al contrario una opzione che varrebbe solo per i paesi virtuosi.
Nello stesso tempo, l’accoppiata riforma del MES/Unione bancaria con condivisione dei rischi basata sulla ponderazione di rischio sui titoli di Stato, dimostra chiaramente, con buona pace di coloro che continuano a vaneggiare sulla riformabilità dell’UE, che i trattati e le regole si possono modificare solo favorevolmente alla Germania e ai paesi forti.
Risultato: la riforma del MES si risolverà in una fortuna per la Germania che potrà serenamente accedere alla linea di credito precauzionale ricapitalizzando le sue banche oramai sull’orlo del fallimento (le banche tedesche hanno in pancia prodotti derivati per 20 volte superiori al Pil della Germania). Diversamente costituirà una iattura per i paesi come il nostro che, qualora dovessero accedere alle linee di credito rafforzate, dovrebbero subire ex ante una ristrutturazione del debito e poi osservare un piano di aggiustamento economico ispirato, naturalmente, ad una ferrea disciplina di bilancio (do you remember memorandum in Grecia?). La nostra economia ed il nostro sistema bancario che possiede circa 400 miliardi di titoli di Stato ne risulterebbe drammaticamente danneggiato e si scatenerebbe una vera e propria tempesta finanziaria che avvantaggerebbe il sistema bancario tedesco. Ciò spiega perché anche negli ambienti della finanza si è alzato il fuoco nei confronti del c.d fondo salva stati.
Ma al di là degli aspetti tecnici la vicenda Mes e quella dell’unione bancaria ad essa strettamente connessa, dimostra che l’Unione europea è una costruzione mutevole, ma la sua mutevolezza va sempre nella direzione di aggiungere tasselli ulteriori a quella asimmetria e diseguaglianza che caratterizza già ab origine l’architettura dell’ Unione Europea.
There is no alternative?
La narrazione sul processo europeo orientato alla pace e a costituire un anticorpo alla guerra si infrange con la moltiplicazione delle tensioni militari proprio intorno all’Europa, così come la retorica sulla presunta superiorità valoriale dell’UE si scontra, in materia di politiche migratorie, con i respingimenti, i muri, i fili spinati fino ad arrivare agli accordi con Erdogan per bloccare la rotta balcanica o a quelli con clan e trafficanti di persone in Libia. Egualmente la polarizzazione tra Nord e Sud Europa, unitamente all’accrescimento delle diseguaglianze, dimostra la natura profondamente divisiva del processo di integrazione europeo.
I venti di guerra che tornano prepotentemente a soffiare in Medio Oriente e in Libia ripropongono con ancor più forza il tema dell’uscita dalla Nato, della chiusura delle basi militari USA in Italia e del ritiro dei contingenti militari impegnati nelle missioni all’estero, per cominciare a disinnescare quella guerra permanente che oramai si protrae da quasi 30 anni. Ma egualmente va contrastata qualsiasi velleità volta a costruire un esercito europeo concorrenziale e sostituivo dell’Alleanza Atlantica.
Nello stesso tempo, l’irriformabilità dei trattati europei, se non in peius come la vicenda MES dimostra, ripropone l’attualità e la necessità del tema della rottura della gabbia dell’UE, a partire da una ipotesi socialmente avanzata che ribalti i rapporti di forza tra lavoro e capitale, rompa l’eterno ricatto del debito, riaffermando la centralità dei diritti dei lavoratori dopo anni di precarietà, ed avviando la nazionalizzazione degli istituti bancari e in generale degli asset strategici.
A tal proposito la Piattaforma Sociale Eurostop, ha strutturato la proposta politica della costruzione di un’area di integrazione regionale tra quei paesi del Sud Europa che presentano affinità dal punto di vista della struttura produttiva: l’Alba Euromediterranea che, proprio a partire dalla rottura con la gabbia dell’Ue e quindi con la logica del profitto e del mercato che ispira la governance europeista, costruisca relazioni economiche e sociali ispirate non alla competizione ma alla solidarietà e alla cooperazione. Esattamente il contrario rispetto a pericolose ed irrealizzabili opzioni nazionaliste.
Siamo consapevoli che non si tratti di un obbiettivo immediatamente praticabile, ma al contempo riteniamo che sia necessario fornire una prospettiva e formulare una proposta che delinei un’alternativa di sistema capace di sconfiggere quell’ideologia dell’assenza di alternativa che condanna all’impotenza ogni iniziativa politica e seppellisce qualsiasi ipotesi di cambiamento sociale.
CREDITS
Immagine in evidenza: Belgian soldier during Rampant Lion, EU Battlegroup 2014 II exercise in Grafenwoehr, Germany
Autore dell’immagine: Markus Rauchenberger, 26 febbraio 2014
Fointe: http://www.defenseimagery.mil/imageRetrieve.action?guid=20d503b77a0d589759b68c5e51997f3dc0f6305f&t=2
Licenza: public domain
Immagine originale ridimensionata e ritagliata