Roberto Fineschi
Il razzismo non è un fenomeno solo statunitense ma è alla base del pensiero liberale. Aver abolito lo schiavismo non ha intaccato i meccanismi dello sfruttamento dei lavoratori
1. Come spiega efficacemente Domenico Losurdo in vari suoi studi, la tradizione liberale da sempre ha combinato astratta uguaglianza e libertà con una teoria della classe dominante, secondo la quale esse valgono solo per un circolo di eletti. Credo efficace riportare qualche passo documentario della sua Controstoria del liberalismo dove la crudezza, la ferocia, la “banalità del male” ante litteram, appaiono in tutta la loro drammaticità:
“Proprio in questo ambito il processo di de-umanizzazione ha raggiunto punte difficilmente eguagliabili. In Giamaica, nel britannico impero liberale di metà Settecento, vediamo all’opera un tipo di punizione di per sé eloquente: «uno schiavo era obbligato a defecare nella bocca dello schiavo colpevole, che poi era cucita per quattro o cinque ore»”
Roba per stomaci forti, come la “cronaca” statunitense di inizio novecento che segue:
“Notizie dei linciaggi erano pubblicate sui fogli locali e carrozze supplementari erano aggiunte ai treni per spettatori, talvolta migliaia, provenienti da località a chilometri di distanza. Per assistere al linciaggio, i bambini delle scuole potevano avere un giorno libero.
Lo spettacolo poteva includere la castrazione, lo scuoiamento, l’arrostimento, l’impiccagione, i colpi d’arma da fuoco. I souvenirs per acquirenti potevano includere le dita delle mani e dei piedi, i denti, le ossa e persino i genitali della vittima, così come cartoline illustrate dell’evento” (D. Losurdo, Controstoria del liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 333 s.).
Basta cercare su internet “razzismo” e “Congo belga”, per es., per trovare testimonianze più fresche che arrivano quasi fino ai nostri giorni, con tanto di villaggi musealizzati – veri e propri zoo – nello stesso Belgio, dove i visitatori potevano vedere i selvaggi rappresentare il proprio sottomondo nel cuore dell’occidente stesso. Nessun paese colonialista fa eccezione e chiunque potrebbe aggiungere altre drammatiche testimonianze, incluse quelle italiche (il “liberale” Indro Montanelli e la sua dodicenne etiope per fare un esempio che più di altri possa toccare il cuore dei liberi borghesi nostrani). Del resto, la tratta di esseri umani per usarne il corpo, dalla prostituzione all’espianto di organi, o per farli lavorare in condizioni semi servili è, tristemente, cronaca.
Basterebbe poi ricordare che non un poliziotto americano, ma un italianissimo figlio del bel paese un paio di anni fa è sceso per strada a sparare ai “negri”, parente stretto di altri che come vedono un negro d’istinto gli tirano le noccioline. Forse non c’è bisogno di andare fin negli Stati Uniti per trovare personaggi di tal forgia che, stigmatizzati all’estero, vengono ignorati, tollerati, giustificati sul patrio suolo da forze politiche note, difesi da sedicenti giornalisti “liberali”, che nascondono dietro il diritto di opinione la legittimazione di forze che sono contro il diritto non solo di opinione, ma di esistenza di una diversità basata su criteri razziali (“ma questi giornalisti liberali… non saranno mica dei fascisti?” taluni con sorpresa finiscono per pensare).
Per non dire ovviamente della violenza delle forze dell’ordine che causa morti e feriti, un tema di una qualche attualità in Italia? Anche qui ovviamente il problema non è solo l’abuso dei singoli, ma il fatto che le persone coinvolte in questi crimini (quando vengono effettivamente incriminate), invece di essere stigmatizzate dai loro capi, colleghi, dalle istituzioni – salvo pur lodevoli ma rare eccezioni – trovano solidarietà, raramente vengono licenziate, in certi casi fanno pure carriera.
Insomma, per farla breve, la drammatica vicenda di Floyd punta il riflettore su di un male che non è solo statunitense, che non è meramente geografico, ma è “storico” e “sociale”, vale a dire risultato di dinamiche complesse che trovano una ragion d’essere nel contesto del capitalismo crepuscolare, con tutte le sue contraddizioni.
2. Come già veniva ricordato, la teoria liberale, almeno nella formulazione di uno dei suoi fondatori, non è affatto contro la schiavitù. Purtroppo quasi mai i manuali di filosofia, di storia del pensiero politico, ecc. spiegano agli studenti che la filosofia politica di Locke prevede e legittima la schiavitù addirittura nello stato di natura, in piena armonia con i principi di eguaglianza, libertà e, ab omnibus laudetur nunc et semper [ora e sempre da tutti lodata], proprietà. Proprio in virtù del rispetto del principio di integrità personale e di proprietà e della sua violazione è legittimo ridurre in schiavitù il violatore addirittura prima che la società costituita sia formata. Ciò significa che la riduzione in schiavitù è un diritto individuale di natura, che lo Stato non deve illegittimamente violare.
La teoria classica aristotelica della schiavitù, quella vigente prima della lockiana, era basata sull’idea di una gerarchia di fini. Che alcune attività abbiamo più dignità di altre implica che gli attori sociali, essendo per natura in grado di realizzare l’una o l’altra, si collochino in una determinata posizione della gerarchia sociale. Chi è in grado di realizzare attività meramente “necessarie” rientra nell’ordine meccanico delle cose che non possono essere diverse da quello che sono e quindi non è libero. L’evoluzione cristiana di questa teoria mantiene la gerarchia dei fini tendendo a includere anche quelli più bassi nel computo dell’umanità, con la conseguenze che c’è un dovere di “umanità” verso costoro, fratelli dai talenti diversi, che comunque restano in posizione subordinata.Mentre nel mondo classico erano i barbari, qui sono i non cristiani quelli di problematica catalogazione “umana”, oppure i “selvaggi” dei quali si dubita addirittura che abbiano un’anima.
Senza proseguire per questa lunghissima strada, il punto che resta è quello di una gerarchia che rifiuta l’universale uguaglianza e libertà dell’ uomo in generale, che, vale la pena ricordarlo, in questi mondi non esiste, almeno nel senso in cui lo intendiamo noi. Infatti, l’uomo in generale è un prodotto storico, portato ideologico del modo di produzione capitalistico, allo stesso modo dell’altra categoria alla quale esso si combina, il lavoro in generale. La persona universale, l’astratta uguaglianza di tutti gli individui liberi e proprietari, ben lungi dall’essere un qualcosa di naturale, è un concetto generato dalla circolazione semplice di merci ed universalizzato dall’espansione del modo di produzione capitalistico che fa della merce la forma universale del prodotto. Un concetto borghese, o meglio della borghesia progressista.
Tuttavia, questo concetto nasce, si sviluppa, prospera e si diffonde in un mondo che già esisteva e che già aveva delle ideologie molto ben radicate. La filosofia di Locke, come si è visto, lascia la porta aperta al passaggio da una concezione della schiavitù vecchia a una nuova, possibilmente compatibile con il mondo delle persone libere. Il liberalismo moderato pro-schiavista farà gran tesoro delle idee di Locke. La borghesia più radicale lotterà invece per l’estensione universale dell’idea di persona e, pur tra mille contraddizioni, cercherà di imporla di legge e di fatto.
Il successo dell’universalismo della persona tuttavia, pur nella sua forma più progressista ed universale, lascia non una porta ma un portone spalancato allo sfruttamento capitalistico, come Marx mostra nella sua teoria dell’accumulazione e del lavoro salariato: esso è perfettamente compatibile con il pieno rispetto di uguaglianza, libertà e proprietà e del “giusto salario”, tutte cose che il capitalismo “giusto” non viola affatto. Ciononostante c’è sfruttamento. Lo sappiamo grazie a Marx e non resta che studiarlo.
Però qui si tratta adesso di vedere come il liberalismo moderato, incline allo schiavismo, ed il revival di un neoschiavismo esplicito basato sull’idea premoderna della gerarchia dei fini su base “naturale”, siano tornati prepotentemente alla ribalta come ideologie egemoni. Essi non erano mica morti o scomparsi, continuavano ad esistere, ma nella lotta per il predominio egemonico avevano subito una battuta d’arresto grazie alla prospettiva di classe che si era andata affermando.
Si badi bene di intendere che egemonia, di nuovo, non significa meramente che certe idee prevalgono su altre, o certe posizioni riscuotono genericamente maggiore consenso. Egemonia significa che una certa visione del mondo, già implicita in una prassi sociale, trova una formulazione teorica o di senso comune che fa sì che determinate prassi si raccordino tra sé e vengano guidate da blocchi sociali con finalità politiche definite. Non è la mera propaganda o addirittura il marketing politico (quanta ingenuità nel credere che Berlusconi avesse consenso solo perché lavava il cervello alla “gente” con la televisione). Si tratta, dunque, di capire quali trasformazioni epocali abbiano di fatto prodotto le condizioni per cui, nella prassi e poi nella rappresentazione, idee razziste o discriminatorie siano divenute elementi di una nuova egemonia. Questa fase la chiamo “capitalismo crepuscolare” [1] .
Per concludere, la lotta al razzismo basata sull’indignazione antiegalitarista e indirizzata a ristabilire pari diritti universali è benvenuta e sicuramente, in questa fase, progressista. Essa tuttavia non può essere l’orizzonte finale, ma solo una fase di passaggio perché: 1) stabilire o ripristinare la uguale dignità umana e i pari diritti formali non cancellerebbe lo sfruttamento capitalistico; 2) affermare l’astratto universalismo “idealistico” non intacca le dinamiche obiettive che producono la possibilità reale e l’egemonia possibile di una prassi razzista diffusa. Senza cambiare quelle dinamiche, vale a dire superare il modo di produzione capitalistico oramai incapace di qualsiasi ulteriore sviluppo progressivo, il conseguente razzismo continuerà a sussistere.
dal sito: lacittafutura.it