Giacomo Marchetti – Rete dei Comunisti
A quaranta anni dai 35 giorni di lotta dei lavoratori della FIAT a Torino del 1980, il cui esito caratterizzerà il lungo Autunno Freddo della classe operaia in Italia fino ad oggi – dopo un ciclo di lotte più che decennale – occorre fare alcune riflessioni che vadano oltre la ricostruzione storica dei fatti in sé che i singoli protagonisti, diretti ed indiretti, stanno facendo con esiti più o meno apprezzabili.
Per passare dalla testimonianza ragionata alla sintesi politica occorre riflettere sul cuore del problema di quelle vicende a loro modo “periodizzanti” : oggi come allora la questione che si pone è quella una alternativa sistemica che faccia perno sulla necessità di un rappresentanza politica autonoma e di una organizzazione sindacale indipendente, così come di una strategia rivoluzionaria che sappia cogliere i passaggi che vengano maturano a livello globale.
È chiaro che la Storia non è mai scritta in anticipo e che le vicende di quell’Autunno alla FIAT avrebbero potuto anche avere un altro sbocco soprattutto grazie alla combattività dimostrata dagli operai e dal notevole livello di organizzazione presente ancora dentro e fuori i cancelli di tutto il movimento operaio, ma la dirigenza politica e sindacale aveva già deciso quali sarebbero dovute essere l’ epilogo: non tradì, fu conseguente ai suoi orientamenti e alle sue scelte pregresse. D’altro canto nonostante l’infame accordo venne bocciato a larga maggioranza non venne trovato uno sbocco su come trasformare la bocciatura nella sua opposizione concreta.
Dall’altra parte il movimento rivoluzionario rivelò trasversalmente la sua debolezza e la classe dirigenza la sua forza, iniziando un processo di restaurazione attraverso la lotta di classe dall’alto che perdura tutt’oggi: Bonomi, in questo senso, è un buon allievo di Romiti. La marcia dei 40.000 – in realtà circa un terzo di meno – fu una messa in scena della FIAT che soprattutto tolse le castagne dal fuoco alla dirigenza sindacale per una resa senza condizioni, ed un innegabile successo nell’ essere riuscita ad agglutinare un blocco anti-operaio sulla scia degli esperimenti di una “maggioranza silenziosa” ma con una immagine più costruttiva: il lavoro si difende lavorando, recitava uno degli “striscioni” principali.
Detto molto seccamente le premesse per la sconfitta alla FIAT di Torino erano poste da tempo non solo per ciò che concerne i piani padronali di ristrutturazione vecchi almeno di un quinquennio, la cui applicazione era necessaria per la congiuntura di maggior competizione internazionale che imponeva di far fare un salto di produttività che si concretizzasse in un “balzo tecnologico” e per cui era necessario un notevole indebitamento, riprendendo “il governo delle fabbriche” come affermò ex post Romiti con una diversa organizzazione produttiva e non semplicemente con meno operai ed impiegati.
Era un contesto in cui il mercato dell’auto – cui la FIAT era stato il maggior produttore europeo nel 1974 prima del suo declino – in Italia era ristagnante da 10 anni. Si vendevano nel ‘79 a differenza di Germania, Francia, Gran Bretagna i principali mercati europei prima dell’Italia – le stesse medesime vetture più o meno vendute nel ’70 e vi era una previsione di “drastico calo” per gli anni a venire – con una maggiore concorrenza nord-americana e giapponese – con un eccesso di capacità produttive.
Si affacciava una crisi di sovra-produzione per una delle delle merci simbolo del ciclo di accumulazione iniziato dal Dopoguerra, ma non solo nel comparto auto, con un sovra-stock previsto di più di 400 mila vetture per la FIAT. Bisognava produrre più auto con meno operai, perché la politica di alzare il costo di una automobile in una proporzione maggiore di quanto si aumentassero gli stipendi non bastava più, ed il taglio della forza-lavoro come stava avvenendo in altri Paesi era la via obbligata. Per fare questo era necessario stroncare l’accumulo di forza operaia espressasi in più di un decennio di lotte, e azzerare il potere di contrattazione complessivo dei lavoratori a cominciare dalle fabbriche sulle condizioni di lavoro stesse.
Ma soprattutto le premesse per la sconfitta alla FIAT di Torino erano poste da tempo dalle precise scelte di subalternità del Partito Comunista Italiano dall’elezione come proprio segretario di Enrico Berlinguer succeduto a Luigi Longo nel 1972, dalla formalizzazione del nuovo ruolo che avrebbe dovuto svolgere il sindacato con la “svolta dell’EUR” nel febbraio del 1978 dopo due anni di scelte e dichiarazioni sancite poi a Roma a favore di austerità, contenimento salariale e libertà di licenziamento. Per la dirigenza del PCI e del sindacato si trattava di co-gestire la crisi del capitalismo e non uscire dal capitalismo in crisi.
Ultima premessa ma non meno importante, dal livello repressivo degli apparati dello Stato in quella in Italia fu a tutti gli effetti una “guerra civile a bassa intensità”.
I 61 licenziamenti nell’ottobre del 1979 – avvallati dal PCI e dalla dirigenza della triplice sindacale – e gli arresti nella colonna torinese delle Brigate Rosse con la delazione di Fabrizio Peci, “sguarnirono” per così dire il campo rivoluzionario sia dentro che fuori i cancelli.
Bisogna ricordare comunque che per varie ragioni dopo le ultime ondate di assunzioni di giovani – di cui ben più della metà donne – e le lotte del contratto 1979, per vari motivi 6-7000 operai lasciarono lo stabilimento su pressione della FIAT, sintomo di una offensiva padronale tutt’altro che nascosta e latente, segnale di un graduale cambiamento dei rapporti di forza all’interno, testimonianza di come la FIAT stesse solo attendendo il momento in cui le condizioni sarebbero state più proficue per sferrare il suo affondo finale.
Le BR insieme a Prima Linea avevano avuto un ruolo rilevante dall’inizio degli anni Settanta e nelle lotte alla FIAT, il loro intervento si concretizzò per la prima volta in una azione con il sequestro del sindacalista fascista Bruno Labate nel febbraio del 1973 mentre PL – nata successivamente – intervenne per la prima volta tre anni dopo nel novembre con una azione contro i dirigenti della FIAT.
Uno dei due arrestati delle BR nel febbraio del 1980, Rocco Micaletto: «è uno dei dirigenti più vecchi e sperimentati dell’organizzazione, ex operaio della Fiat-Rivalta, da anni nell’Esecutivo, ha la direzione politica delle situazioni di fabbrica rimaste in piedi a Torino e Genova» scrive Prospero Gallinari nella sua autobiografia “Un Contadino nella metropoli. Ricordi di un militante delle Brigate Rosse”.
La controrivoluzione preventiva, è sempre bene ricordarlo, aveva assunto strutturalmente almeno un doppio profilo in Italia: da una parte la pratica stragista inaugurata con la “Strage di Piazza Fontana” del 12 dicembre 1969 e dall’altra la repressione delle avanguardie politiche, cioè sia le avanguardie di lotta nel proprio posto di lavoro – come i 61 licenziati del 1979 – che le organizzazioni rivoluzionarie e le aeree politiche sorte “a sinistra del PCI” in particolare quelle combattenti, ma non solo.
Il 2 agosto 1980 si consumò la strage fascista nella stazione ferroviaria di Bologna, alla vigilia di quella che non era una semplice vertenza sindacale – la FIAT passò nel corso della vertenza dopo la caduta del governo Cossiga dalla proposta secca di poco meno di 15 mila licenziamenti formulati all’inizio alla cassa integrazione a zero ore per 24 mila lavoratori – che fece 85 morti e più di 200 feriti.
Una carneficina avvenuta in una delle amministrazioni simbolo del PCI, un avvertimento preciso.
La strategia di “annientamento” delle organizzazioni combattenti e del più largo movimento rivoluzionario si stava caratterizzando con l’uso sistematico della tortura, le esecuzioni dei suoi militanti a cominciare dalla strage del 28 marzo 1980 in via Fracchia a Genova, e soprattutto con la carcerazione politica e l’apertura dei carceri speciali.
Proprio nel 1980 la lunga battaglia contro le carceri speciali avrà un successo di rilievo con la chiusura a fine anno del carcere dell’Asinara, una delle battaglie che catalizzavano le energie non solo delle organizzazioni combattenti, e del movimento dei detenuti, ma di un vasto movimento che trovava nella “Cajenna italiana” – così come nei carceri a Trani e Palmi per esempio – una delle espressioni più brutali del dominio della borghesia ed allo stesso tempo, delle più alte risposte da parte delle forze rivoluzionarie.
Bisogna ricordare che Il movimento del ’77 segna il punto di non ritorno della rottura tra la sinistra storica – politica e sindacale – ed una generazione di militanti che è probabilmente l’ultimo fattore di propulsione del Lungo Sessantotto che non ha termini di paragone come capacità di tenuta e livello dello scontro in nessuno Stato a Capitalismo Maturo dell’Occidente, se si escludono le esperienze che sono caratterizzate da processi di liberazione nel cuore dell’Europa come i Paesi Baschi o l’Irlanda.
Alla mancata messa a sintesi politica di quello che fu quel variegato e contradditorio movimento contribuì non poco la controrivoluzione preventiva che andava dalla destra del PCI allo Stato Profondo, strutturatosi senza marcare una vera “discontinuità” con il Ventennio Fascista e ricollocatosi ben presto dentro le trame atlantiche nella continuità di governo “a geometria variabile” con la Democrazia Cristiana come perno irrinunciabile.
Uno Stato Profondo partecipe sia della repressione nella Fiat di Valletta negli anni ’50 che in quella di Agnelli che ha paura e paga la questura, come recita il titolo di una importante inchiesta di Lotta Continua.
All’interno di questo quadro, con un padronato in offensiva ed una sinistra politica e sindacale subalterna si registra un impasse strategico che attraversa trasversalmente tutte le soggettività della sinistra extra-parlamentare. Allo stesso tempo cominciano ad essere poste le basi – al di là dei passaggi di fase significativi a venire – che ancora oggi ci permettono di traguardare quella che è stata definita “la madre di tutte le sconfitte” ed i nostri orizzonti immediati in una situazione di conflitto sociale ridotto ai minimi termini, come emerge con forza da “La Storia Anomala – Dall’Organizzazione Proletaria Romana alla Rete dei Comunisti”
Certo quella vertenza sindacale ebbe un significato politico complessivo che solo con il tempo si sarebbe compreso e che pesò come una spada di Damocle su tutte le altre vertenze riguardo alle ristrutturazioni aziendali, ma la sua sconfitta piena di tragiche conseguenze – furono circa 200 i lavoratori che si suicidarono – ci insegna ancora oggi la necessità di disfarsi dell’eredità politica di una sinistra sindacale e politica che ha portato il movimento operaio italiano “di sconfitta in sconfitta” e riafferma la permanente necessità dell’Assalto al Cielo.