di Angelo D’Arcangeli
L’aumento dei contrasti con gli imperialisti USA e il ruolo svolto nella lotta contro la pandemia ha accresciuto in molti compagni l’interesse verso la Repubblica Popolare Cinese (RPC). Questo interesse è molto positivo poiché è, nella sostanza, interesse verso il socialismo, riflessione su un sistema alternativo a quello capitalista.
Personalmente ritengo che per riflettere sulla RPC di oggi sia utile vedere anche come era la RPC ieri, nel periodo della Rivoluzione culturale diretta da Mao Tse Tung, e confrontare le due situazioni, la continuità e la discontinuità, gli sviluppi e i cambi di direzione, i salti e le regressioni. Senza schematismi e dogmatismi di sorta, con la massima apertura mentale e senza paura di “sporcarsi le mani”. In particolare considero che sia fondamentale analizzare il ruolo svolto degli operai e dei contadini nel processo decisionale, oltre che in quello esecutivo.
Socialismo infatti non è solo esistenza e direzione della società da parte del partito comunista, pianificazione economica e proprietà pubblica delle principali aziende. Non bisogna assolutizzare il ruolo della pianificazione, in particolare, e prenderlo come aspetto principale della transizione. L’esperienza dell’URSS lo dimostra bene: anche i revisionisti moderni capeggiati da Kruscev e Breznev facevano piani!
Il nucleo politico fondamentale del processo di transazione e il suo principale criterio di verifica è costituito, ritengo, dalla trasformazione delle classi che erano subalterne nel precedente sistema, nella promozione della loro emancipazione, nello sviluppo della loro capacità di analizzare e decidere.
Ovviamente parliamo di un processo molto articolato, contraddittorio, lungo e complesso, una “rivoluzione nella rivoluzione” a tutti gli effetti, di cui fin qui abbiamo visto solo dei primi passi e che, inoltre, in questa fase si colloca in un contesto di grande debolezza del movimento comunista internazionale e di crisi generale del sistema capitalista.
Riporto un utile estratto del libro di Maria Antonietta Macciocchi “Dalla Cina dopo la rivoluzione culturale”, libro ormai sconosciuto ai giovani militanti e rintracciabile solo nelle bancarelle dell’usato o in quelle virtuali, che tratta, senza retorica e dovizia di particolari raccolti sul campo, della RPC nella Rivoluzione culturale.
L’estratto che qui propongo affronta esattamente la questione su cui richiamo l’attenzione per lo sviluppo della riflessione sulla RPC di oggi, ossia la situazione nelle fabbriche cinesi nel 1970, il ruolo degli operai e il loro processo di trasformazione, le differenze dalle fabbriche sovietiche in mano ai revisionisti moderni.
Buona lettura!
“Capitolo – La filosofia in fabbrica
L’ipotesi cinese
Nelle fabbriche la rivoluzione culturale costituisce l’attacco durissimo a tutta la scala dei valori insiti nella divisione tradizionale del lavoro, allo schema organizzativo della vita produttiva, ereditato dall’industrializzazione capitalistica.
La lotta tra Mao e Liu Shao-chi si è svolta, forse piú aspramente di tutto, sul fronte dello sviluppo industriale, come una lotta che investiva il futuro stesso della Cina.
Liu Shao-chi sosteneva lo schema classico dell’accumulazione capitalistica. Egli reputava assurdo sottrarsi alle leggi della rivoluzione industriale, che comportano un certo tipo di divisione del lavoro, la separazione delle qualifiche e dei compiti, la specializzazione come molla del progresso, la scala delle responsabilità direzionali e della gerarchia nella vita produttiva e in quella sociale. Al vertice di questa piramide manageriale” stavano ovviamente i quadri, i tecnocrati e gli altri specialisti, contraddistinti socialmente dagli alti redditi, e quindi da un livello di vita superiore (case, vacanze, automobili, e magari in futuro negozi particolari dove acquistare il vitto e gli oggetti di consumo). Alla sua base vi era una massa operaia da cui occorreva ottenere il massimo sforzo produttivo, da raggiungersi interessando gli operai alla produzione attraverso aumenti salariali, incentivi materiali, premi, con ritmi e cadenze lavorative sempre piú accentuati.
Mao Tse-tung, fin dal 1960, allorché scrisse La carta del complesso siderurgico di Anshan, opponeva a tutte le esperienze precedenti di industrializzazione una nuova audace strada rivoluzionaria: spezzare fin dall’inizio della società di transizione “non solo l’assetto giuridico dei rapporti di proprietà del vecchio ordine sociale, ma anche iniziare fin dalla prima fase di costruzione socialista la ricerca di rapporti di produzione alternativi rispetto a quelli dominanti nella produzione capitalistica” (Lisa Foa, Al ritorno da un viaggio in Cina). I comunisti cinesi sapevano bene che non è la proprietà statale dei mezzi di produzione che garantisce la loro gestione socialista, ma che è il sistema di rapporti che si instaurano all’interno della struttura a diventare decisivo per gli uomini.
Essi erano particolarmente colpiti dalla nascita, derivante da quel tipo di divisione del lavoro, di una casta di tecnocrati specialisti e competenti, che si sovrapponeva alle masse, umiliandone il ruolo e l’inventiva, e che finiva per essere loro estranea, come se trattasse di nuovi padroni.
Per Mao si era posto invece il problema di scatenare al massimo la fantasia creatrice degli uomini, il loro senso di fierezza per la capacità produttiva, non contrapponendoli al tecnico, ma lavorando sulla stessa linea del fronte, unendo alle capacità specialistiche e teoriche del quadro la capacità pratica dell’operaio, e sollecitando la sua proverbiale ingegnosità. A tale proposito va ricordata una bella riflessione che Che Guevara aveva fatto dopo un viaggio in Cina: «L’operaio cinese può fare quello che fa qualsiasi operaio nel mondo, e in piú quello che può fare soltanto un operaio cinese.” Anche lo studio della filosofia e lo studio delle opere politiche, immesso dentro le fabbriche, che dà luogo a un dibattito ininterrotto sul piano teorico e politico, rappresenta il segno distintivo della fine di una differenziazione tra trust dei cervelli e lavoratori semplici.
Un rapporto di produzione alternativo a quello dell’accumulazione capitalistica
Nel 1958, all’epoca del grande balzo in avanti, allorché lo stesso Mao aveva elaborato la linea di collettivizzazione nelle campagne, egli aveva formulato la linea generale per l’industria: “Edificare il socialismo secondo i princípi, dispiegare tutti gli sforzi; andare sempre avanti; quantità, rapidità, qualità ed economia”. “Gli umili sono i piú intelligenti, la gente nobile la piú sciocca,” aveva scritto, in una lettera alla fabbrica meccanica agricola di Tantung, con la coscienza che la Cina poteva contare su un torrente di energia creativa, se avesse liberato le masse dalla riverenza e dalla sottomissione ai quadri, alla nuova nobiltà” tecnica. Nel 1960, alla Carta della società siderurgica di Magnitogorsk – vale a dire al modello di sviluppo industriale sovietico – Mao opponeva la sua Carta del complesso siderurgico di Anshan, i cui princípi conduttori erano i seguenti: “Mettere sempre la politica al posto di comando; rafforzare il ruolo dirigente del partito; lanciare vigorosamente dei movimenti di massa; applicare il sistema della partecipazione dei quadri al lavoro produttivo e degli operai alla gestione, riformare i regolamenti in ciò che hanno di irrazionale e assicurare una stretta collaborazione tra quadri, operai e tecnici; compiere energicamente la rivoluzione tecnica.”
Egli aggiunge che “l’economia è la base, la politica è l’espressione concentrata dell’economia.” Pertanto nella società di classe non esiste alcuna “organizzazione economica” al disopra delle classi, la produzione non è mai separata dalla politica, cosí che Mao conclude: “Il lavoro politico è vitale per ogni nostro lavoro nel campo economico.”
Nel 1966 – all’atto dello scatenarsi della rivoluzione culturale – i comunisti cinesi rimettono concretamente in discussione, a partire dall’unità produttiva di base, il ruolo dei dirigenti e dei quadri, rifiutano la stessa funzione dei tecnici come funzione autonoma privilegiata e negano ogni separazione tra pratica produttiva e lavoro manuale. “Uno degli architravi su cui poggia la rivoluzione culturale è quello che figura nei sedici punti dell’agosto 1966: “Fare la rivoluzione e stimolare la produzione”, direttiva che è sulla bocca, ormai da anni, di ogni operaio o quadro cinese. Essa consente di capire perché – malgrado la stasi che per qualche tempo colpi gangli notevoli dell’industria cinese nel corso della rivoluzione culturale – in Cina non vi è stato il disastro economico previsto dall’Occidente; anzi, man mano che vinceva la rivoluzione politica, vinceva insieme la rivoluzione nell’industria, e quindi l’incremento produttivo. Il piano statale del 1970, dovunque siamo andati, era stato in generale superato o realizzato in anticipo, e la produzione nel 1968-69 era aumentata del 25-30 per cento. Tuttavia, nel corso della lotta, si era verificata una spaccatura in due, su opposte linee, degli stessi operai e non solo dei quadri, una battaglia aspramente combattuta, all’interno delle industrie come nelle grandi fabbriche di Shanghai e in quelle di Tientsin, prime due città industriali della Cina. Via via, però, il revisionismo di Liu Shao-chi e dei suoi seguaci (Kao Kang e Jao Shu-shih) veniva sempre piú chiaramente individuato in questa serie di definizioni e di parole d’ordine: il revisionismo era “il potere di decisione del direttore”, “la teoria dell’onnipotenza delle forze produttive”, “il profitto al posto di comando”, “il lavoro professionale al posto di comando”, “la tecnica al posto di direzione”, “i premi al posto di comando”, “la sottomissione degli operai ad un regno indipendente, quello dei tecnici.” Il revisionismo, servendosi delle imprese industriali, cercava di farne la propria posizione di forza per reintrodurre il capitalismo: questo il senso della battaglia svoltasi dal 1960 al 1970 sul fronte dell’industria cinese.
L’altra componente della linea di Liu Shao-chi era quella del servilismo all’estero, l’attendismo per l’aiuto tecnico e le macchine straniere, la cooperazione e l’intervento di altri paesi, e quindi l’ingresso del capitale straniero che avrebbe fatto arretrare l’econorrìia cinese, e l’avrebbe subordinata al capitalismo all’imperialismo. Anche questi sono stati temi larghissimamente dibattuti. Mao anche qui opponeva l’altra linea, quella di distruggere in germe ogni dipendenza industriale dall’estero, chiamando i cinesi a “contare sulle proprie forze”, spingendo avanti “l’ardore e l’iniziativa delle masse”.
Lo scontro sul fronte industriale cinese, condotto avanti per dodici anni all’incirca, vede infine vittoriosa, con la rivoluzione culturale, la scelta alternativa che rimette in discussione, in modo drastico, tutte le leggi che hanno regolato la vita delle società industriali.
L’avversione verso la rivoluzione culturale che si è riscontrata in questi anni in Occidente appare tanto piú decisa ed estrema in quanto l’ipotesi industriale cinese la rimette in discussione, non solo, come è ovvio, nel rapporto giuridico di proprietà dell’antico ordine sociale, ma capovolge la piramide su cui queste stesse società si reggono.
Lo spettacolo che offrono le fabbriche cinesi è per noi, abituati al ritmo delle industrie capitalistiche, del tutto stupefacente, e in un primo momento improntata a un certo disordine: grandi capannoni appaiono tutti pieni di manifesti a colori, che li tappezzano da un capo all’altro, pendenti dai fili, oppure affissi alle pareti, o alle macchine stesse. Sono i dazibao, l’arma tagliente della rivoluzione” con cui gli operai si esprimono e su cui scrivono per elaborare questioni politiche, filosofiche, per fare la campagna contro gli sprechi e gli errori in fabbrica, i piccoli furti, o le disattenzioni. Dazibao collettivi e dazibao personali. A fianco della macchina, qualche operaio appoggia il “Renmin Ribao” cui dà ogni tanto uno sguardo; un ritratto di attore dell’Opera rivoluzionaria occhieggia sotto il suo vetro, o un foglio su cui prende appunti per un discorsetto che ha in mente. In Cina appare un nuovo tipo di protagonista: l’operaio che dà peso soprattutto alla politica, e dal primato di questa fa scaturire l’energia creatrice, questa base costruisce un rapporto di collaborazione con lo specialista, rapporto che non lo castiga mai ad ruolo inferiore.
L’operaia tessile studia filosofia nel lanificio n. 2 di Tientsin (duemila operai) e come lei studiano 127 brigate filosofiche della fabbrica; ella mi ha spiegato, con rigore, il senso della dialettica e quello delle contraddizioni nelle opere teoriche di Mao. Mi ha detto: “Con la linea di Liu Shao-chi, si diceva che noi operai siamo babbei a pensare di poter studiare filosofia, che è una scienza per grandi intellettuali; con la linea di Mao invece ora noi studiamo tutti, ne traiamo grandi vantaggi applicando la teoria alla pratica nella fabbrica”.
Gli operai dei cantieri di Tientsin varano navi da 10 mila tonnellate, là dove i cantieri erano attrezzati per navi da 5 mila tonnellate al massimo. A Shanghai, le casalinghe, ex sottoproletarie, costruiscono transistor (circuiti integrati), in una fabbrichetta di un quartiere periferico. La fabbrica delle macchine utensili di Shanghai – celebre per la sua università operaia – ha creato macchine di precisione che raggiungono e superano i piú elevati livelli mondiali. Quantità, rapidità, qualità, economia. Come calcolare tutto ciò in statistiche sulla produttività, con una cifra unica? I cinesi stessi, d’altra parte, ci hanno messo molte volte in guardia sul valore delle statistiche, che possono essere “manipolate come si vuole.”
L’importante è quello che si può constatare di persona, entrando nelle fabbriche. In queste, gli operai non fanno che ripeterci: “Si diceva che non fossimo capaci, che si fosse degli stupidi senza livello di conoscenza tecnica sufficiente, e invece guardate quale problema tec nico abbiamo risolto, che cosa abbiamo fabbricato o inventato, contando sulle nostre forze, facendo macchine che costano la metà di quelle straniere, e perfette e forse piú di quelle straniere talvolta…”
Davanti a un fenomeno come questo del tentativo organizzare fin dall’inizio della società di transizione un rapporto di produzione alternativo a quello capitalista – in una Cina che non è passata per la rivoluzione industriale capitalistica, abolendo le piramidi gerarchiche ben note che s’incentrano su un solo uomo responsabile, dal direttore unico dell’azienda al rettore universitario, rifiutando la scala a pioli delle competenze e delle mansioni, per realizzare l’unità tra teoria e pratica, tra capacità tecniche e capacità produttiva – è sbagliato dire che si tratta di un fenomeno di volontarismo egualitario, o di spirito fideistico, di nuova religiosità, come si sostiene dalla nostra parte del mondo.
Dal rovesciamento dei criteri precedenti, nascono gli organismi collettivi di gestione nelle fabbriche – i comitati rivoluzionari – formati sulla base della triplice unione (rappresentanti delle masse rivoluzionarie, dei quadri rivoluzionari e dell’esercito popolare) alla quale si intreccia l’altra triplice (quadri giovani, quadri medi, quadri anziani). I nuovi organismi, definiti del potere rosso, alleggeriscono l’apparato dirigente “manageriale” in tutto l’arco delle aziende, cosí come viene alleggerito tutto l’apparato amministrativo dello stato, dal centro alla periferia. Questa riduzione risulta, dai nostri incontri, del 75 per cento. Nel fuoco della critica, sono stati inghiottiti gli organismi sindacali, definiti strumento dell’economicismo di Liu Shao-chi, e con caratteristiche non politiche ma rivendicative. In qualche luogo sono stati rimpiazzati dai consigli di fabbrica, organismi di massa.
Gli alti salari sono stati uno dei bersagli della rivoluzione culturale, a causa delle disparità che si erano create: “All’inizio degli anni Sessanta, non era raro trovare dirigenti, segretari di partito nelle fabbriche con salari da 300 e piú yuan, e le prime attrici dell’Opera di Pechino fino a 3000 yuan”. Nelle dieci fabbriche da me visitate i salari vanno da un minimo di 46 yuan ad un massimo di 110-120 yuan. In generale, la differenza fra un operaio e un tecnico qualificato appare per ora di 1-2,5 al massimo.
Scrive Mao: “Le distanze fra i redditi del personale del partito, del governo, delle aziende, delle comuni popolari, da una parte, e i redditi delle masse popolari dall’altra, devono essere razionalmente e gradualmente diminuite e non aumentate. Il personale non deve essere indotto ad abusare del suo potere e a godere speciali privilegi”.
Questo fatto è tipico del processo rivoluzionario in atto in Cina, dove si vuole scartare ogni precipitazione, onde evitare, per esempio, che l’egualitarismo, anziché essere una struttura portante, consapevolmente e politicamente vissuta da tutti, si risolva in un demagogismo egualitario calato dall’alto. Perciò la discussione è affrontata coinvolgendo tutti i protagonisti.
Intanto, sono stati totalmente eliminati i premi e gli incentivi materiali. In Cina, la produzione non solo non ne ha sofferto, ma è anzi aumentata. Il piano statale, i cui obiettivi sono fissati dagli organismi superiori, si applica dopo una discussione dal basso, in cui nessuno esagera, ma ognuno si mantiene piuttosto prudente. In genere, l’obiettivo fissato viene poi superato, grazie all’intervento creativo delle masse.
Contro la nuova “barbarie”
La Cina, dal punto di vista industriale, si presenta come la faccia alternativa delle società tecnologiche da noi conosciute.
E a chi replica che ciò avviene perché la Cina non ha ancora raggiunto il grado di alta industrializzazione di queste, è facile ritorcere che, proprio nel momento in cui la Cina si avvia verso conquiste sempre piú decisive nel campo della tecnica – basti citare il satellite – essa sceglie la strada della socializzazione della scienza e della tecnica, della collaborazione tra scienziati d’ogni tipo con lavoratori forniti di esperienza pratica, non come fattore caratterizzante di una “società di poveri”, ma al contrario come molla di accelerazione dello sviluppo produttivo e dell’ascesa economica.
Nell’intraprendere la propria era industriale, abbordando il futuro, la Cina rovescia lo schema dell’accumulazione capitalistica nota, con la divisione del lavoro che ne discende, oltre che la differenziazione tra industria e agricoltura, con la rapina della prima sulla seconda, o comunque con la subordinazione delle campagne allo sviluppo industriale. Rifiutare l’adorazione del “vitello d’oro” della tecnica ultrasviluppata significa anche, per la Cina, rifiutare il modello americano che continua ad essere il piú possente e attraente del mondo industrializzato. Le specializzazioni “tecnologiche” hanno per i cinesi non il fascino del “frutto proibito”, ma, al contrario, quello del timore di una nuova barbarie, che pieghi gli uomini alla macchina industriale, e li renda di questa schiavi, che reintroduca la divisione specialistica di competenze come divisione di classe, che faccia di alcuni dei privilegiati e degli altri degli sfruttati, anche col sistema degli altissimi, dei medi e dei bassi salari, che in definitiva distrugga negli uomini ii piú grande degli imperativi, quello del primato della politica. Questa è la sfida della Cina. E non quella dell’aggressione e della guerra”.