“Una Storia anomala. Secondo volume”
Chiusa la fase del decennio precedente, segnato dal conflitto ideologico frontale, politico e di classe con una sostanziale sconfitta e disgregazione della sinistra rivoluzionaria, cioè dei vari gruppi extraparlamentari e della lotta armata che avevano segnato la seconda metà di quel decennio, e con una accentuata repressione che riguardava direttamente anche le fabbriche, vedi la marcia dei 40.000 organizzata direttamente dalla FIAT e non dai “capi” come raccontano i giornali, all’OPR si pose molto direttamente il problema di come sostenere questa nuova condizione partendo da una base politica e organizzativa limitata anche geograficamente.
Si imponeva la necessità di misurarsi sul piano direttamente politico e non solo ideologico/di classe come era stato fatto fino a quel momento, producendo un ruolo più avanzato in quel tipo di conflitto. Il primo passaggio, come è già stato scritto, è stato quello della partecipazione alle elezioni regionali del 1980 mettendo al centro la questione della repressione, che vedeva il tentativo degli apparati dello Stato di sovrapporre la lotta armata, ormai in fase calante e sconfitta, al conflitto sociale che comunque era presente in modo diffuso in tutto il paese e che a Roma era ben rappresentato anche dall’OPR/Lista di Lotta.
Questa scelta segnava un passaggio importante, collegare cioè il conflitto sociale, sindacale e politico (internazionalismo, lotta per le agibilità democratiche e sindacali, etc.) ad un nostro progetto più definito che richiedeva la fondazione di un soggetto politico compiuto. Il punto di partenza era la Lista di Lotta che voleva preludere ad uno strumento più ampio che all’epoca era ancora da definire e costruire. Questo obiettivo strategico ha segnato il lavoro per tutti gli anni ’80, fino alla crisi dell’organizzazione nel ’91, assumendo forme, sigle e tattiche diverse determinate dagli sviluppi della situazione internazionale e nazionale.
I primi anni ’80 erano segnati dalla resistenza operaia e proletaria nelle fabbriche e nei quartieri a difesa del lavoro, del salario e delle condizioni di vita; per misurarsi con questi problemi si doveva tenere conto del peso del PCI ancora importante nei settori popolari. E si doveva tenere conto anche della sua crisi con il fallimento del governo di unità nazionale, con la nascita del pentapartito ed infine con lo schiaffo dato alla CGIL dalla FIAT con il licenziamento di 26.000 operai e con l’avvio dei processi di ristrutturazione industriale che ben presto riguardarono tutto il paese. In quel contesto di offensiva padronale e governativa va registrata anche l’espulsione del PCI dalle giunte locali, escluse le tre regioni rosse Emilia, Toscana e Umbria, che misero in difficoltà ulteriormente quel partito, che ormai aveva mutato il proprio essere ed agire, e viveva anche lui, come gli altri apparati, grazie al sottogoverno dei centri di potere locale.
Successivamente, con l’esplosione della crisi degli euromissili e della ripresa del conflitto USA/URSS con la seconda guerra fredda, si fece un ulteriore passaggio nella costruzione del soggetto politico con la nascita del “Movimento per la Pace ed il Socialismo”, che aveva come presidente il generale Nino Pasti ex comandante della NATO ed ex senatore del PCI, prendendo le mosse dal punto più avanzato della contraddizione, che era appunto rappresentato dai pericoli di guerra nucleare, prodotto dalla rinnovata aggressività statunitense.
Questa nuova condizione portò a sviluppare anche la dimensione nazionale del MPS sul piano politico cosa che con la romana Lista di Lotta non era evidentemente possibile fare. L’operazione puntava anche a far emergere la contraddizione dentro il PCI, che con la dichiarazione di Berlinguer a favore “dell’ombrello della NATO” per l’Italia subì una prima frattura interna, non scissione, con la costituzione della componente rappresentata dalla rivista Interstampa che faceva capo a Cossutta ed ai filosovietici del partito.
Dopo l’87, con l’accordo tra Reagan e Gorbaciov sugli euromissili firmato a Reykjavik, cambiarono nuovamente le condizioni politiche e ciò portò ad una ulteriore evoluzione nella politica del MPS in quanto ripresero “quota” le questioni nazionali, l’accentuazione della svolta a destra del PCI ma anche una crisi del pentapartito che nell’87 portò alla caduta del Governo Craxi. In particolare per quanto ci riguardava direttamente emerse la crisi di Democrazia Proletaria, ormai in stallo politico da diverso tempo, e la nascita del movimento Verde che ebbe dopo Chernobyl un’ affermazione elettorale prima a livello locale e poi nazionale con le politiche del 1987.
Funzione politica e obiettivo strategico
I passaggi descritti in precedenza per noi non sono stati mai semplicemente politici ma si sono poggiati sempre su un lavoro di sedimentazione delle forze operata a 360°, dal sociale al movimento, che è stata la base materiale su cui poggiare le evoluzioni politiche. Ciò è stato possibile sia per la scelta della “proletarizzazione” dei militanti sia perché il movimento del decennio precedente era di fatto scomparso e non “produceva” più alcuna nuova militanza politica. Esso, infatti, era rifluito nell’orbita del PCI e nelle sue articolazioni sociali, a cominciare dalla CGIL, o si era rifugiato nella logica elettoralistica di Democrazia Proletaria, o, semplicemente, era tornato a casa oppure, come ultima variante, aveva scelto la strada della rappresentazione antagonista fine a se stessa caratteristica dell’Autonomia Operaia, non solo dell’epoca.
L’intervento complessivo dell’organizzazione, dalla costruzione del soggetto fino alle sue articolazioni sociali, era un prodotto organico di una struttura centralizzata che non aveva la velleità di definirsi partito, c’era ancora il PCI ed ogni paragone sarebbe stato quantomeno ridicolo, ma manteneva una “funzione di partito” centralizzando tutta la sua azione. Mancavano a quell’impianto alcuni pezzi pure importanti quali la formazione politico-teorica, che di fatto era delegata al solo dibattito interno e alle diverse forme di conflitto materiale mentre anche la progettazione complessiva partiva dall’individuazione dell’evoluzione dei diversi momenti politici e dalla funzione che si poteva svolgere in quei momenti, cioè dal basso delle dinamiche concrete. C’era di fatto un limite teorico che impediva di oggettivare il processo di cui volevamo essere protagonisti; ma va detto che questo era un limite dato dalla situazione storica contingente, che produceva competizione tra soggetti che rivendicavano il possesso della “giusta” linea, dando per acquisita la crisi irreversibile dell’occidente capitalista, convinzione diffusa che non spingeva a riflessioni più strategiche e storiche.
Come dicevamo, i piani di intervento erano molto articolati oltre che strettamente coordinati. L’intervento internazionalista era tra quelli prioritari tra le nostre scelte dell’epoca anche per contrastare l’equidistanza tra USA e URSS predicata dal PCI, da DP ma anche da una parte della sinistra di movimento. Poi c’era la mobilitazione a sostegno delle rivoluzioni nell’America centrale, Nicaragua e San Salvador, ma anche la solidarietà con le altre lotte di liberazione del continente dell’America centrale e meridionale.
Un altro punto importante di mobilitazione era la Palestina e la lotta contro il sionismo israeliano, che a metà di quel decennio ebbe una spinta in avanti con l’insorgere dell’Intifada, fu promossa anche una campagna di boicottaggio nazionale delle merci di Israele, che fu associata al Sud Africa ancora stretto nella morsa dell’apartheid razziale verso i popoli non bianchi. Fu un momento importante che vide numerose manifestazioni molto riuscite e clamorosi boicottaggi, ad esempio contro i pompelmi israeliani, iniziativa che fu rilevata da tutti i giornali nazionali.
Fu prodotto anche un Bollettino Internazionale a firma di Radio Proletaria contenente informazioni sistematiche sulle lotte di liberazione e sulle guerriglie nel mondo. In quel contesto fu importantissimo il ruolo della Radio, che in un momento di riflusso politico della sinistra di classe, svolse un ruolo di tenuta e di rilancio sia sul piano politico generale che nello specifico sociale della città di Roma.
Anche sull’intervento sovietico in Afghanistan la Casa della Pace e Radio Proletaria furono, in controtendenza, le uniche a prendere posizione non ritenendolo un errore, seppure fosse un chiaro sintomo di perdita di capacità strategica da parte del PCUS. La provocazione degli USA infatti riuscì a pieno, con esiti alla fine degli anni ’80 inaspettati anche per i nord americani. Non fu un posizionamento facile dentro la sinistra di movimento di quel periodo ma poi la storia ha fatto giustizia dell’antisovietismo alla “Partito Radicale” con altri 30 anni di guerra e un brutale asservimento delle donne che non esisteva sotto i precedenti governi di quel paese né con l’intervento sovietico. In questa fase di mobilitazioni internazionaliste si innestò, all’inizio degli anni ’80, la lotta contro gli euromissili che si protrasse per diversi anni e fu un terreno di intervento nazionale che condusse alla crescita dell’organizzazione oltre la dimensione romana.
A Roma ci furono numerose iniziative, diverse manifestazioni nazionali, promosse in maggioranza dal PCI e strutture collaterali, a Comiso diversi campeggi e blocchi preso la base che videro la nostra partecipazione attiva anche nel resto del paese di fronte a basi militari italiane e NATO, una delle quali presso la base del lago di Vico nel Lazio; in Veneto dove si sviluppò un forte e radicato movimento a caratteristica spiccatamente popolare contro la guerra attorno a “Radio Gamma 5” di Padova. Anche in quell’occasione un’organizzazione non certo numerosa come la nostra, riuscì ad agire sulle contraddizioni interne al movimento per la pace, accentuando i contenuti (per esempio l’uscita dalla Nato o il ritiro del contingente militare italiano dal Libano), valorizzando l’azione diretta e dando vita alla rete “Imac ‘83” -prendendo spunto dall’esperienza reale del campeggio International Meeting Against Cruise e dei blocchi alla base di Comiso che aggregò tutte le componenti più genuine e combattive del movimento per la pace, sia in Italia che a livello europeo.
Moltissime furono insomma le occasioni di mobilitazione e lotta che diedero impulso alla nostra crescita a livello nazionale ma il dato politico rilevante in quel momento furono le scelte del PCI. La politica collaborazionista di quel partito, nella ripresa del conflitto bipolare, diede un ulteriore colpo alla strategia berlingueriana, dopo l’espulsione dal governo che dimostrava il fallimento della ipotesi politica del “Compromesso Storico”. Il partito in quel contesto era costretto a prendere le distanze dall’URSS per le scelte fatte in precedenza ma allo stresso tempo non poteva “traslocare” armi e bagagli nell’area filoamericana in quanto sapeva benissimo che la sua base non lo avrebbe seguito su questo strappo, che comunque avvenne alla fine del decennio con Occhetto.
La linea scelta fu quella dell’equidistanza pacifista e delle mobilitazioni di massa “democratiche”, questo creò le condizioni necessarie per un nostro intervento lavorando su quella contraddizione insanabile. Fu costituito un coordinamento nazionale unitario in particolare tra noi ed i veneti che diede vita all’IMAC 83 che gestì quella fase di scontro con il PCI, la CGIL, l’ARCI etc. Anche durante le manifestazioni nazionali a Roma promosse dall’area del PCI ci furono scontri fisici veri e propri poiché si cercava di impedire la nostra partecipazione ai cortei. Su questo aspetto la contraddizione infatti era troppo grande per poterci concedere spazi di visibilità politica alternativa. Negli anni Ottanta, anche l’organizzazione deve fare i conti con un’ escalation repressiva che ormai agiva a tutto campo, colpendo i militanti e simpatizzanti dei gruppi armati ma anche dei collettivi o delle organizzazioni di movimento. Gli arrestati furono centinaia. Secondo il Progetto Memoria, almeno cinquemila militanti o simpatizzanti delle organizzazioni della sinistra finirono in carcere per periodi più o meno lunghi e per reati più o meno gravi.
Il meccanismo repressivo viene affinato nei primissimi anni Ottanta introducendo nuove leggi speciali repressive e soprattutto la Legge sui pentiti che consentiva sconti di pena a chi collaborava con gli apparati repressivi dello Stato.
Nei primi anni Ottanta anche lo scontro sul piano militare, si fa più duro. Sotto i colpi dei gruppi armati cadono magistrati, poliziotti, imprenditori. Muoiono sotto i colpi di polizia e carabinieri anche militanti delle Br come in via Fracchia a Genova e in altre città. Nelle carceri speciali la situazione per i detenuti politici si fa pesante. Anche il Pci agisce per far sentire “tutti nel mirino” riducendo il consenso nelle fabbriche ai gruppi armati ma anche cercando di fare il vuoto intorno ai delegati sindacali più combattivi o ai comitati operai.
È in questo clima che si produrranno i blitz e gli arresti di massa (soprattutto a Torino) operati dalla divisione dei carabinieri “Pastrengo” guidata dal generale Dalla Chiesa, e vengono testate le reazioni ai “61 licenziamenti politici alla Fiat” dell’ottobre 1979, come segnale anticipatore, intimidatorio e depotenziatore per i 23mila licenziamenti che saranno l’oggetto dello scontro alla Fiat del 1980 decisivo per le sorti – e l’inizio della sconfitta – della classe operaia italiana dopo le conquiste del decennio precedente.
Come abbiamo già sottolineato nel precedente volume, l’organizzazione non ha mai condiviso la posizione “né con lo Stato né con le Br” comune ad altre organizzazioni della sinistra, ritenendola inaccettabile. Se lo Stato è il nemico da abbattere non può esserci equidistanza. Ma pur accettando il ricorso alla forza – ad esempio contro i fascisti o nelle manifestazioni di piazza – l’organizzazione non ha condiviso la scelta della lotta armata che pure ha investito centinaia di militanti della sinistra rivoluzionaria.
Anche nei momenti più difficili l’organizzazione ha riaffermato queste posizioni senza concedere niente sul piano politico. Lo Stato resta il nemico da abbattere ma la strategia armata nell’Italia degli anni Settanta non aveva possibilità di successo, soprattutto perché dentro la classe non erano affatto visibili una spinta o una coscienza insurrezionale, al contrario si intravvedevano i sintomi della destrutturazione capitalista e gli effetti della collaborazione del Pci e del sindacato alla logica di sacrifici. Il rischio indicato dall’organizzazione in quei momenti fu quello dell’avventurismo armato.
Nonostante un clima sempre più pesante sul piano dell’agibilità politica, l’organizzazione non ha mai rinunciato alla sua attività contro la repressione e le strategie di accanimento contro i prigionieri politici nelle carceri. I compagni in carcere o attaccati dalla repressione vanno difesi indipendentemente dalla loro storia o posizione politica. Questa sarà una regola di comportamento alla quale l’OPR non verrà mai meno, anche quando lo scontro politico con i gruppi che praticavano la lotta armata sarà netto e manifestato pubblicamente.
Nel 1980 Radio Proletaria, per conto dell’organizzazione, aderisce e partecipa all’attività del Coordinamento nazionale dei Comitati contro la Repressione e del “Il Bollettino”.
Le prime iniziative elettorali della Lista di Lotta nel 1980 e nel 1981 furono proprio dedicate alla battaglia contro le leggi e le carceri speciali.
Nel 1982, vengono denunciati numerosi episodi di tortura contro gli arrestati (in gran parte militanti Br ma non solo), Radio Proletaria, insieme ad altre realtà diede vita al Comitato contro l’uso della tortura (che pubblicò un libro bianco di denuncia) affrontando apertamente sia le reazioni degli apparati repressivi che della “politica”, la quale negava spudoratamente l’uso della tortura.
Nei primi anni Ottanta, sebbene su questo si producesse una spaccatura tra i prigionieri politici, sostenemmo con una campagna pubblica gli scioperi della fame nelle carceri contro l’art. 90 (una restrizione odiosa nella detenzione), anche affrontando un duro scontro con coloro che erano contrari a quella forma di lotta.
Nel 1984 con una delegazione di familiari di prigionieri politici, riuscimmo a portare la questione dell’art.90 e dello sciopero della fame al Parlamento e alla Commissione diritti umani di Strasburgo rompendo finalmente il muro di silenzio, anche in Italia.
Per tutto un periodo Radio Proletaria produrrà un proprio Bollettino dedicato alla questione delle carceri e delle legislazione d’emergenza, e sarà attiva per conto dell’organizzazione nel Coordinamento nazionale dei Comitati contro la repressione, un organismo al quale aderivano decine di comitati e collettivi in tutto il paese, anche con posizioni estremamente diverse tra loro. Un’esperienza tutta in controtendenza rispetto alla crescente desolidarizzazione che doveva produrre isolamento intorno ai prigionieri politici.
La desolidarizzazione non agiva solo attraverso la paura della repressione: ad esempio un reato lieve come il favoreggiamento, nelle inchieste “politiche” era diventato partecipazione a banda armata tanto per intendersi, ma anche attraverso un progetto più politico ed ideologico che giudiziario: la dissociazione.
L’obiettivo di magistrati, carabinieri, ma soprattutto di esponenti politici del Pci o della “sinistra” non era più o non solo i nomi dei militanti da arrestare utilizzando la Legge sui pentiti, ma era quello di prendere le distanze, politicamente e pubblicamente, dalla violenza e dalla propria storia. Nelle carceri questo progetto creerà fratture, tensioni, scontri e divisioni devastanti. Su questo forse il libro “militante” più onesto è quello di Pasquale Abatangelo “Correvo pensando ad Anna”.
Questo progetto avrà i suoi effetti politicamente letali anche all’esterno delle carceri, alimentando il trasformismo che ha visto tanti “ex” passare ideologicamente armi e bagagli al nemico di classe e seminare a piene mani l’anticomunismo “di sinistra”. La lotta contro la dissociazione, fu dunque una battaglia politica e ideologica anticipatrice contro la devastazione ideologica intervenuta dagli anni Ottanta in poi dentro i movimenti, i sindacati e la sinistra nel nostro paese e che ha creato quel buco nero – politico, culturale e temporale nella storia e nella memoria del movimento di classe nel nostro paese.
L’organizzazione negli anni Ottanta ha sostenuto convintamente la proposta dell’amnistia per i detenuti politici come unica soluzione politica accettabile e percorribile, ossia un atto e un riconoscimento politico del conflitto di classe e dei suoi soggetti. Una posizione questa che è stata però ampiamente minoritaria, sia per il velleitarismo di molti prigionieri politici e settori di movimento, sia perché la sola soluzione politica che veniva veicolata “a sinistra” (e dallo Stato) era quella, inaccettabile, della dissociazione.
La lotta contro la repressione e la dissociazione è stata una parte decisiva della storia e della visione politica dell’organizzazione che anche su questo terreno sviluppa i primi contatti sul piano nazionale con altri compagni.
La sedimentazione delle forze di classe
Intenso fu anche l’intervento proletario a Roma con un tentativo di sviluppo nella città di Napoli. Sul piano di classe si stavano sviluppando anche le RdB mostrando una “propensione” allo sviluppo nazionale più accentuata che tra i settori popolari ma su questo torneremo con un capitolo a parte.
La Lista di Lotta, dunque, produsse un radicamento sociale a Roma forte ed allargato. Partendo dalle posizioni conquistate negli anni ’70 si procedeva verso un rilancio complessivo del conflitto nelle periferie romane. Dall’occupazione di via Cortina d’Ampezzo di quasi 300 appartamenti di lusso sequestrati dai magistrati si passa all’occupazione dei 720 appartamenti della Bastogi (in due complessi di 120 e 600 appartamenti) che diverrà una base di massa per le mobilitazioni sociali ma anche più direttamente politiche o internazionaliste.
Contemporaneamente i primi nuclei familiari che con la lotta avevano cominciato ad aver assegnate le case popolari, avendo mantenuto vivo il rapporto costruito precedentemente, furono i promotori dei comitati nei nuovi quartieri. Questi alloggi infatti venivano assegnati in un deserto di servizi sociali che diventava automaticamente terreno di conflitto e di organizzazione nelle periferie. Il nesso tra la lotta per la casa e lo sviluppo dei comitati territoriali è stato molto stretto poiché in questi passaggi la nostra logica di organizzazione cercava di capire come mantenere la relazione organizzata, cioè la sedimentazione delle forze, con i settori proletari. Questa è stata la base anche per uno sviluppo ulteriore e più articolato nella seconda metà degli anni ’80.
Sulla scia della costituzione delle Rappresentanze di Base nel tentativo di dare stabilità organizzativa al settore dei disoccupati in continua crescita, fu costituita la Rappresentanza di Base dei Disoccupati che avviò una vertenza con il comune di Roma che portò anche a risultati concreti negli anni successivi con il varo di un piano giovani per circa 500 posti di lavoro. In questo settore d’intervento si dava continuità alla lotta per l’occupazione femminile, anche questa a partire dai quartieri “conquistati”, con la battaglia per le mense autogestite nelle scuole. In quel periodo questa esperienza di effettiva “autorganizzazione” lavorativa oltre che politica arrivò a dare occupazione a centinaia di donne in un servizio essenziale per la scuola e per le famiglie che rafforzò enormemente il tessuto di classe che stavamo costruendo nelle periferie romane. Presero inoltre quota da quella realtà conflittuale anche i “Comitati di Lotta delle Donne” che cominciarono a dialettizzarsi con il movimento femminista da una posizione di classe in parte estranea a quella cultura politica.
Sempre nell’ambito della Lista di Lotta, dopo la vicenda del terremoto del 1980 in Campania, si è tentato di sviluppare il movimento popolare oltre Roma ed in particolare al Sud visto il livello delle contraddizioni sociali che lì si manifestavano. Successivamente con l’insorgere del bradisismo nella zona Flegrea si è rafforzato il rapporto con strutture di lotta per la casa, dell’Italsider di Bagnoli e dei disoccupati organizzati che in buona parte erano stati assunti nelle amministrazioni pubbliche. Con l’obiettivo dello sviluppo si è dato vita nel 1984 ad una rivista chiamata “Oltre il Muro” che puntava a consolidare l’intervento nel meridione; in realtà quel tentativo andato avanti per circa due/tre anni è naufragato sull’organizzazione nei settori popolari ma ha dato vita ed ha consolidato l’intervento sindacale delle RdB, divenuto poi in quella città un punto di forza di tutto il sindacato.
La Lista di Lotta e le elezioni politiche del 1983
Il passaggio a cavallo del decennio ha coinciso con un forte sviluppo della presenza organizzata e dell’articolazione dell’intervento. Dalla solidarietà internazionalista, alla lotta contro gli euromissili, dalla lotta contro la repressione e la tortura alla crescita di una nuova esperienza sindacale come le RdB, dal radicamento nelle periferie romane della Lista di Lotta oltre le occupazioni delle case al tentativo di riprodurre le lotte proletarie in altre città, sono stati questi i caratteri di un’organizzazione non semplicemente militante ma organica e complessiva, nei limiti oggettivi dati, che ha portato a sintesi organizzata momenti conflittuali molto diversi acquisendo a Roma una caratteristica di massa, almeno sul piano della mobilitazione.
Con questo abbrivio politico e organizzativo, che veniva dal consolidamento della Lista di Lotta e delle sue articolazioni, è coinciso e si è aggiunto il nuovo contesto internazionale legato alla ripresa del conflitto USA/URSS. Questo, infatti, stava producendo una contraddizione inedita dentro lo stesso PCI. Infatti lo scontro tra Cossutta, il suo ambito di Interstampa, e la direzione del PCI fu radicale, almeno così veniva rappresentato dalla stampa dell’epoca. Lo spazio politico che si veniva aprendo e la presenza articolata dell’organizzazione, anche rispetto alla lotta contro gli euromissili, avviò una relazione positiva con i settori dissidenti del PCI tanto da poter entrare in rapporto organico con il settore di interstampa e da lì stabilire rapporti con il senatore Nino Pasti, persona qualificata e di rilievo dentro il partito e nel movimento pacifista. Il nostro obiettivo politico era di collegarci alla componente filosovietica del PCI in previsione di una possibile scissione del partito, avvenuta comunque successivamente e in condizioni ben diverse nel ’91, per rilanciare un progetto comunista unitario nel paese. In realtà ci furono elementi di ambiguità nelle relazioni che impedirono un serio confronto di prospettiva ma si riuscì comunque ad avere buoni ed interessanti rapporti a Padova, a Trieste (gente seria con la presenza di alcuni portuali), in Emilia, a Milano, anche con una componente legata a Manlio Dinucci, ed in particolare a Torino (la famosa sezione 19) con i quali il rapporto durò più a lungo e sembrava potesse sfociare in un rapporto organico, cosa che avvenne successivamente con la formazione della Rete dei Comunisti nel 1998.
L’esperienza con Interstampa portò a consolidare il rapporto con Nino Pasti creando nuove prospettive per l’organizzazione. In quel periodo Pasti provò ad aprirci rapporti a livello internazionale e ci fu anche un invito in URSS come componente del movimento pacifista. Nel febbraio del 1983 Pasti si impegnò anche sul piano della legislazione sulle libertà sindacali e in rapporto diretto con le RdB venne presentato un disegno di legge sui diritti sindacali che conteneva una forte critica a CGIL,CISL, UIL in un parlamento dove si parlava di libertà sindacali solo ed esclusivamente se riferite alla Polonia. Questa iniziativa fu la conferma della solidità del rapporto politico che si era costruito nella lotta contro gli euromissili, che fu la premessa per un ulteriore passaggio.
Si arrivò così alla decisione di presentarsi alle elezioni politiche del 1983 nel solo collegio senatoriale laziale, scelta sulla quale comunque la Lista di Lotta era già orientata, potendo candidare Pasti in un momento politico significativo della battaglia contro gli euromissili e contro l’imperialismo. Il risultato fu molto deludente, nonostante la partecipatissima manifestazione finale tenuta a Piazza Navona, e mostrò che il PCI rappresentava bene i suoi elettori inclusi quelli “filosovietici”, che non avevano incoraggiato un’iniziativa che era comunque di rottura e di indipendenza rispetto alla svolta internazionale del partito. Anche DP riuscì a dimostrare la tenuta del suo pur limitato insediamento elettorale arrivando a eleggere 7 deputati. Senza riportare il complesso e difficile dibattito interno dell’epoca di fronte a quella sconfitta e preso atto delle scarse possibilità elettorali, tutto il nostro agire e impianto politico-organizzativo fu sottoposto a critica ed analisi, cosa che portò nell’arco di due anni al superamento della Lista di Lotta, che rimase però come strumento sociale, e aprì la strada ad un rilancio e all’ipotesi politica di costruire un movimento nazionale che fu poi chiamato “Movimento per la Pace ed il Socialismo”.
Dalle elezioni dell’ 83 alle comunali del 1985
La sconfitta obbligò ad una fase di riflessione su come rilanciare l’iniziativa complessiva. Il dato strettamente elettorale spinse a prendere atto che sarebbe stato velleitario competere con il PCI, e con DP, visto che la base elettorale alla quale in qualche modo puntavamo per raccogliere consensi rimaneva legata ai loro partiti di riferimento. Anche il dato elettorale diretto della LdL indicava il nesso forte tra le strutture organizzate ed i voti alla lista, ma non si andava molto oltre quella dimensione. Insomma il balzo elettorale non c’era stato ma si era confermata la tenuta organizzativa e politica nei settori di classe dove eravamo radicati, cosa che ci permetteva di ipotizzare il rilancio nonostante l’esito elettorale sfavorevole.
Nelle condizioni per il rilancio si andavano a sommare anche altri fattori politici generali che portavano ad un adeguamento di linea. Quello più rilevante fu il cambiamento di condizione del PCI; l’espulsione dal governo e la competizione con il PSI Craxiano cominciavano ad avere effetti sui comportamenti tenuti nelle amministrazioni locali, in particolare a Roma si modificò l’atteggiamento del sindaco Vetere e della sua giunta che aprirono il confronto con la Lista di Lotta sul piano dell’esistenza di una diffusa conflittualità sociale.
Tale cambiamento fu determinato dalla presa d’atto che la politica sostenuta negli anni precedenti dal PCI a livello nazionale e dalla logica della “buona amministrazione” a livello locale, aveva aperto una divaricazione tra il partito ed i settori popolari, parte dei quali furono attratti dalle politiche clientelari della DC e del PSI; dunque fu registrata la necessità di modificare le relazioni con il conflitto sociale aprendo nuovi spazi che prima delle elezioni politiche non potevano mostrarsi.
Questo diede forza al lavoro di classe a Roma. Si aprirono diversi piani di confronto che portarono anche a consistenti risultati concreti, dalle occupazioni abitative alle diverse vertenze territoriali sulla casa e sull’autoriduzione delle tariffe elettriche praticata nei quartieri da oltre dieci anni, dai disoccupati all’autogestione delle mense scolastiche fino ad una articolata vertenzialità territoriale, dai tickets scolastici ai trasporti, che ci misero in condizione di non rimanere “sotto botta” del mero risultato elettorale e di avere in poco tempo una ripresa dell’iniziativa a tutto campo.
Sul piano direttamente sindacale gli effetti furono ancora minori e in quella metà del decennio si iniziò un processo di sviluppo dei rapporti nazionali per tentare di generalizzare la proposta RdB al Sud come al Nord. Dall’Italsider di Bagnoli a Napoli, da Brescia a Milano, Torino, al Veneto: sono stati questi punti di confronto con gruppi di operai o con strutture politiche interessate all’intervento operaio. Contemporaneamente si andava sviluppando un’idea ed una pratica più puntuale di intervento nel Pubblico Impiego, tramite gli assunti in diversi comparti a seguito delle lotte e della legge per l’occupazione giovanile 285; va detto che non sempre quest’attività relazionale portò a risultati organizzativi ma certamente si era ormai usciti dai confini della sola città di Roma.
Paradossalmente la sconfitta elettorale non si risolse in un ripiegamento ma in un rilancio politico complessivo; intanto il nostro “candidato” Nino Pasti non si chiamò fuori ma decise, coraggiosamente vista l’età ed il ruolo militare e politico ricoperto, di continuare e di aprire una nuova prospettiva. Sulla base di questa sintonia si è puntato al rilancio dell’iniziativa sulla pace varando la rivista “Lotta per la Pace ed il Disarmo” cercando di trovare una sintesi politica tra le diverse componenti del movimento pacifista più coerente e rinnovando la nostra relazione con i veneti di Radio Gamma 5 dando protagonismo alla struttura unitaria dell’IMAC 83. Si riprese anche la lotta contro la repressione nelle carceri ripartendo con le iniziative e varando il Bollettino contro la legislazione speciale ad opera di Radio Proletaria.
La necessità del rilancio complessivo veniva anche imposto per motivi oggettivi dall’avvicinarsi delle elezioni comunali del 1985 che erano una scadenza “naturale” per la Lista di Lotta, vista la dimensione dell’impianto politico raggiunto a livello cittadino. Probabilmente si sarebbe andato ad un cambio di giunta, come poi è avvenuto, con la riedizione dell’alleanza nazionale del pentapartito che avrebbe certamente ridotto gli spazi politici che erano stati conquistati nella crisi delle giunte di sinistra e con il sindaco Vetere.
La ripresa ipotizzata si andava concretizzando su diversi piani, portando ad un’ulteriore crescita del ventaglio di interventi dell’organizzazione, con un ulteriore passaggio di verifica elettorale che sarebbero state le elezioni comunali del 1985. Intanto si rilanciò l’iniziativa sulla pace con l’IMAC ‘83 e con l’apporto qualificato di Nino Pasti; accanto alla mobilitazione di massa si rafforzò il lavoro internazionalista mantenendo e rafforzando le relazioni fin li tenute con i diversi movimenti di liberazione del sud del mondo ma tentando, spesso inutilmente, di allacciare i rapporti con i partiti dei paesi socialisti. Nel 1983 in contemporanea alle elezioni politiche una nostra delegazione fu invitata al “Consiglio Mondiale della Pace” a Praga organismo internazionale legato ai partiti comunisti.
In questo contesto di rilancio, nell’84 si occuparono dei locali al Foro Boario di Roma, da tempo lasciato inutilizzato dando vita alla “Casa della Pace” come punto di aggregazione del movimento pacifista in alternativa esplicita all’”Associazione per la Pace” gestita dal PCI. Da questa nuova “postazione” nell’ampio spazio del Foro Boario iniziarono in quell’anno i “Meetings per la Pace e la Solidarietà tra i Popoli” con un’ iniziativa di solidarietà con il Nicaragua sottoposto all’aggressione dei Contras armati dagli USA. I Meeting furono un momento importante nella nostra pratica dell’internazionalismo e per la tenuta dell’organizzazione nella crisi di fine decennio e durarono fino al 1996 permettendoci di allacciare relazioni molto ampie a livello mondiale.
Mentre nel lavoro sindacale si andava aprendo la fase della “nazionalizzazione” della proposta RdB e di rafforzamento politico delle strutture sindacali di direzione, molte forze furono investite nel progetto cittadino della LdL. L’impegno militante fu indirizzato in vari ambiti, dalle lotte sociali in generale (casa, disoccupazione, etc.) alla costruzione dei centri sociali, che erano una nuova modalità di intervento giovanile, fino al movimento delle donne. Si decise anche di dare vita ad un giornale diretto della Lista di Lotta, con questo stesso nome, come strumento di diffusione e di crescita di relazione nei quartieri e nelle periferie romane. Un ruolo sempre più rilevante veniva ad averlo Radio Proletaria non solo sul piano del movimento, anche in competizione con la radio dell’autonomia romana di Onda Rossa, ma nella relazione sempre più diffusa con il territorio e con comitati di vario tipo che andavano oltre il nostro specifico ambito organizzato.
Il 12 e 13 Maggio del 1985 si tennero le elezioni comunali a Roma in contemporanea con le regionali e provinciali, furono di fatto elezioni a carattere politico dopo la svolta dell’83, con la vittoria del pentapartito e con la conferma della tenuta di Craxi alla presidenza del consiglio. Per la LdL, che confermò e aumentò di poco i voti già ottenuti nelle politiche, fu la verifica che il piano direttamente elettorale era impraticabile. La causa stava in una sostanziale tenuta dell’elettorato del PCI e di DP, nell’inadeguatezza della “rappresentanza politica” proposta dalla LdL ed anche in un cambiamento più profondo che cominciava a manifestarsi. Ciò sia a livello dei settori sociali, in seguito ai disgreganti processi di ristrutturazione che procedevano da anni in tutto il paese, ma anche per l’emergere di un’indefinita richiesta di rappresentanza che andava oltre il quadro delle presenti forze parlamentari, cosa non compresa dalla LdL.
Il risultato del pentapartito era il prodotto di un rilancio massiccio della spesa pubblica e delle politiche clientelari in particolare del PSI e della DC, i cui effetti si vedranno nei primi anni ’90 con Tangentopoli, che metteva in difficoltà il PCI che vedendo così sbarrata la strada di un rapido ritorno al governo. Tali difficoltà incisero dentro la stessa unità del partito, in particolare dopo la morte di Berlinguer nell’84, portando al prevalere della tendenza della destra migliorista di Napolitano fino ad Occhetto che porterà alla liquidazione il partito.
Sulla rappresentanza emersero fenomeni nuovi, infatti dopo Chernobyl prese quota anche in Italia la lista Verde che fu un elemento di discontinuità anche rispetto alla sinistra extraparlamentare ma che aveva trovato comunque un suo spazio istituzionale nell’83 con l’elezione di deputati di DP. In quell’occasione emerse anche un altro fenomeno di segno politico opposto che era la nascita delle “Leghe” al Nord in modo ancora differenziato. Insomma a metà del decennio si manifestarono cambiamenti seri delle dinamiche politiche generali di scomposizione della rappresentanza, rispetto alle quali arrivammo impreparati anche se con una strutturazione politica e di classe decisamente più forte che alla fine del decennio precedente.
In conclusione si rendeva necessaria una valutazione sull’obiettivo propostoci di costruzione del soggetto politico.
Quell’ evoluzione condusse l’organizzazione, che nella sua essenza era ancora OPR, ad una riflessione critica in cui si prese atto dell’assenza di spazi elettorali, della tenuta e della crescita comunque del progetto complessivo ed anche della crisi del PCI che poteva aprire spazi politici,e della sostanziale stagnazione di quello che rimaneva della sinistra extraparlamentare con DP.
Insomma si trattava di capire quali spazi generali potenziali si aprivano per noi, quali modifiche strutturali dovevamo apportare al nostro lavoro e tutto questo dentro un contesto caratterizzato dall’installazione degli euromissili, dal varo delle guerre stellari reaganiane e da uno scontro frontale politico-militare, dall’Afghanistan all’Africa meridionale, tra L’URSS e gli USA.
La svolta dell’MPS
Partendo dal fatto che la LdL non poteva aspirare in quelle condizioni ad un risultato elettorale e che comunque grandi contraddizioni politiche e sociali caratterizzavano quel periodo si decise di rilanciare a tutto campo la funzione sociale dell’intervento costruendo un’organicità dei diversi momenti di lotta ed organizzazione. Di fatto la LdL fu l’unica struttura in grado di gestire una presenza cittadina che andava dalla critica complessiva alle politiche comunali della nuova giunta pentapartito del sindaco Signorello, vecchio arnese DC, alle lotte per la casa, contro la disoccupazione, nei quartieri per i servizi sociali, per la sanità e avviando l’attività di Centri Sociali popolari.
Questo rilancio non fu un atto “volontaristico” come reazione al risultato elettorale negativo ma si basava su un’analisi della situazione. Il PCI era stato storicamente il punto di organizzazione dei settori popolari della città: strutture sindacali di zona, case del popolo, comitati di quartiere, forme associative popolari sportive e ricreative, erano il tessuto connettivo che caratterizzava il partito fino agli anni ’70. La sua crisi non portò solo agli esiti politici ed elettorali negativi manifestatisi in quel decennio ma anche allo “sfarinamento” delle strutture di massa che in quel momento venivano sostituite dagli spazi clientelari offerti dal governo degli enti locali. Con le sconfitte elettorali non si tornò perciò ad una logica di organizzazione di classe ma l’ideologia revisionista che si era imposta portava al rifiuto di fatto di una concezione dell’organizzazione proletaria di massa e di una storia, pure gloriosa, come quella del PCI.
Questo cambiamento ci aveva fatto intuire che si sarebbero aperti spazi più sociali che elettorali nella base di quel partito, cosa che avvenne puntualmente verso la fine del decennio e che fu utilizzato per lo sviluppo dell’organizzazione. Furono promosse manifestazioni popolari nella periferia con migliaia di persone, e si aprì una finestra anche sul piano elettorale nella alleanza coi Verdi. Finestra che poi si richiuse alcuni anni dopo anche a causa della crisi del movimento comunista e la fine dell’URSS.
Ma la vera scelta politica di fondo che cambiava l’impostazione generale e che portava al superamento della strutturazione nella forma dell’OPR è stata la scelta di dare vita al “Movimento per la Pace ed il Socialismo” con la presidenza di Nino Pasti collocandosi direttamente su un piano politico generale sia nello schieramento internazionale che in quello nazionale in conflitto diretto con il PCI che si apprestava al cambio di “pelle”.
Riportiamo alcuni stralci significativi del documento dell’assemblea di fondazione tenuta a Roma il 30 novembre 1986, nell’introduzione del documento e sul programma:
Il M.P.S. e il movimento comunista internazionale
Il dato di partenza di questa discussione sono le difficoltà e i problemi che nel movimento comunista mondiale si sono andati accumulando verso la fine degli anni ‘50. La svolta socialdemocratica del PCI si inserisce in questo contesto e le sue cause non sono quindi un fatto solo italiano. Alla fine degli anni ‘50, successivamente alla morte di Stalin, il movimento comunista mondiale è entrato in una fase nuova, a v e n d o retto positivamente alla prova della rivoluzione d’Ottobre, alla costruzione del primo stato a base socialista, alla guerra contro il nazismo, alla costruzione di una rete di stati socialisti, allo sviluppo politico e organizzativo in tutto il mondo.
Le caratteristiche di questa fase nuova possono essere ricondotte a questi aspetti essenziali:
1. l’erompere di una serie di contraddizioni nell’area degli stati socialisti in cui si sono andati evidenziando problemi di gestione delle strutture economiche, di funzionamento degli organi di potere socialista, di differenziazione tra gli stessi stati socialisti sulle strategie da seguire nella costruzione del socialismo e sulla politica internazionale;
2. lo sviluppo, dentro i partiti comunisti europei, di forti tendenze socialdemocratiche in rapporto sia all’allentarsi dei legami nel movimento comunista, sia rispetto allo sviluppo economico del dopoguerra che ha fornito una base oggettiva al revisionismo;
3. l’aprirsi di una fase nuova del movimento rivoluzionario antimperialista nel terzo mondo con caratteristiche diverse da quelle tradizionali. Centro-America, Africa, Asia, Medio Oriente sono divenute basi di nuove rivoluzioni antimperialiste a carattere socialista dove le tradizioni locali e i livelli sociali precedenti hanno influenzato le strutture del nuovo potere, e le stesse caratteristiche del movimento comunista mondiale che fino agli anni ‘50 aveva basi essenzialmente europee.
Ciascuno di questi tre aspetti, ha posto problemi vecchi e nuovi al movimento comunista: di bilancio di anni di edificazione di strutture socialiste in una serie di paesi, di lotta politica tra posizioni comuniste e nuovo revisionismo, di difesa e di appoggio, ma anche di interpretazione, delle nuove situazioni rivoluzionarie che si sono andate determinando nel mondo. La fase che il movimento comunista mondiale sta attraversando è ancora tutta interna a questi problemi e lo scontro politico che è in atto non ha ancora portato, sul piano politico e teorico, ad una nuova sintesi che sia di riferimento per tutto il movimento.
In questo contesto, la borghesia e il revisionismo cercano di accreditare l’idea del fallimento storico dell’ipotesi comunista, sia nei paesi del socialismo reale che in quelli dove i comunisti hanno impostato una strategia di potere basata sulla lotta di classe e sulla realizzazione del socialismo. Se è vero che la borghesia insegue una speranza che è al tempo stesso una illusione, l’indebolimento delle posizioni comuniste in alcuni settori, è reale. In modo particolare si sente la mancanza di un forte riferimento teorico e organizzativo mondiale che in altre epoche, con la Prima Internazionale, con Lenin e con Stalin, c’è stato.
Il paradosso che viviamo oggi, difatti, è basato su un massimo di divaricazione tra lo sviluppo drammatico delle contraddizioni prodotte dal capitalismo e dall’imperialismo e la capacità di iniziativa strategica del movimento comunista. Ricomporre questa divaricazione, a livello internazionale e in ogni singolo paese è oggi il compito storico dei comunisti.
Il programma dell’MPS
L’asse centrale su cui si svilupperà la strategia dell’MPS sarà quello di riproporre ai lavoratori, alle classi sfruttate, ai giovani, a coloro che aspirano ad una società diversa, la prospettiva del socialismo.
Per questo si sono battute generazioni di militanti, dietro questa parola d’ordine in Italia si sono mobilitate milioni di persone. Raccogliere ed arricchire questa eredità, dopo anni di degenerazioni tattiche, rappresenta una grossa opera politica e culturale, di cui non ci nascondiamo le difficoltà.
Né, d’altro canto, la disgregazione del tessuto di classe che fino agli anni ‘70 ha tenuto, permette una rapida riaggregazione delle “ forze motrici” di un processo rivoluzionario.
Le fughe in avanti, gli ideologismi, i radicalismi sessantotteschi, non hanno certamente favorito una ripresa.Per questo le basi teoriche e materiali del movimento comunista in Italia, possono essere poste solo a condizione che una nuova generazione di comunisti si misuri sul piano organizzativo e teorico con questi problemi.Noi indichiamo, come obiettivi prioritari di questo processo, due questioni:
1. la ricostruzione organizzativa del movimento proletario su basi di classe e lo sviluppo nella sua coscienza antagonistica rispetto al sistema capitalistico;
2. la capacità di muovere questa forza in un contesto che tenga conto dei rapporti di forza e dell’articolazione sociale di un paese come l’Italia.
Sul piano dell’iniziativa politica e di classe, l’MPS sarà impegnato:
- a combattere la politica antipopolare dei governi che fanno capo alla DC e al PSI, creando una serie di opposizioni nel paese a questa politica e contribuendo ad impedire che la spinta al cambiamento sia indirizzata verso alternative socialdemocratiche che manterrebbero inalterati i caratteri della situazione attuale e i meccanismi di controllo e di sfruttamento.
- organizzare il movimento di classe in tutti i settori della società in cui si esercitane sfruttamento e la speculazione. Sviluppando la tradizione largamente presente nel nostro paese e tra gli stessi compagni che hanno dato vita all’MPS, sarà compito della nostra organizzazione organizzare i disoccupati, le famiglie dei quartieri proletari, i lavoratori, i giovani, le donne, nella difesa degli interessi immediati e quotidiani.
Nell’ambito di questi obiettivi principali, l’MPS opererà in modo che su tutti i momenti concreti, compresi quelli relativi alla situazione internazionale, si stabiliscano le più ampie alleanze tra movimenti, gruppi, organizzazioni, in modo da rafforzare il fronte di lotta. Ciò vale soprattutto all’interno della sinistra, dove, aldilà delle differenze anche profonde di carattere strategico, l’MPS cercherà di portare avanti una politica unitaria, senza perdere di vista gli obiettivi da raggiungere.
Nei posti di lavoro l’MPS dovrà essere impegnato in una dura battaglia contro la politica filopadronale delle confederazioni CGIL CISL UIL. Date le condizioni di impossibilita espressione effettiva dei lavoratori in quelle organizzazioni sindacali, come è dimostrato dall’esperienza di questi anni, l’MPS sarà impegnato a promuovere organizzazioni sindacali indipendenti, a rivendicare i diritti di organizzazione nei posti di lavoro oggi negati da una legislazione che favorisce i confederali, a difendere il diritto di sciopero, soprattutto nel settore pubblico dove si vogliono introdurre leggi liberticide.
La costruzione di un movimento sindacale indipendente è un passaggio obbligato per combattere il collaborazionismo delle organizzazioni confederali e arrivare alla rifondazione del sindacato rappresentativo e di classe dei lavoratori italiani, obiettivo per il quale l’MPS si batte.
Con la nascita dell’MPS in qualche modo si concretizzava l’obiettivo politico che si era dato all’inizio del decennio per la costruzione del soggetto politico generale e con il primo tentativo di partecipazione elettorale alle elezioni del 1980; insomma sulla base del conflitto internazionale che si era andato a configurare e della rinnovata aggressività dell’imperialismo USA era stato individuato il punto di sintesi complessiva che sembrava creasse le condizioni per farci svolgere una funzione generale.
In parallelo a questa definizione dello strumento strategico marciava in modo sempre più definito la costruzione del rapporto di massa con i settori di lavoratori organizzati nelle RdB e con quelli di classe soprattutto nella città di Roma con la Lista di Lotta. Su questo specifico aspetto la generalizzazione che si cominciava a produrre sul piano sociale con la proposta RdB che su quello metropolitano non si mostrava; ci furono tentativi con Napoli, Torino, Milano, Bologna, Lecce ed altre situazioni, ma non riprodussero il modello del conflitto sociale e la stabilità che la Lista di Lotta/OPR aveva saputo generare nella città di Roma.
Sul piano più direttamente politico, mentre la dimensione sindacale si sviluppava in base alle condizioni di quell’ambito, le “direttive” di marcia furono sostanzialmente due:
- La prima e principale il processo di costruzione dell’MPS nella sua dimensione nazionale ed internazionale che, grazie alla presidenza di Pasti, ebbe un rilievo importante e diede credibilità al progetto politico proposto.
- L’altra direzione era quella della Lista di Lotta che non si poneva più come rappresentanza politica, come era avvenuto nelle elezioni del 1983, ma come struttura con forti caratteri di classe che si muoveva sul piano del conflitto sociale e della sua potenziale evoluzione elettorale solo a livello cittadino.
La battaglia dell’MPS si sviluppò, dunque, sul terreno della difesa della pace sia con iniziative dirette sia con la partecipazione alle mobilitazioni generali che venivano convocate, in rapporto con il PCI dall’Associazione della Pace e dalla FGCI. In quella fase ci fu anche un intervento massiccio delle organizzazioni cattoliche che di fatto limitarono anche l’obiettivo che il PCI si era dato, di essere la “punta” avanzata della lotta per la pace. Fu un terreno di lotta politica importante perché sia il PCI che le organizzazioni cattoliche spingevano sull’equidistanza da URSS e USA, cosa che ci forniva un terreno indipendente forte per manifestare il ruolo che voleva svolgere il MPS.
Su queste basi ebbe luogo la partecipazione dell’MPS, ad esempio, alla marcia Piacenza/Caorso convocata nell’anniversario del disastro di Chernobyl con una catena umana di 50.000 persone che si snodò fino a San Damiano, dove stavano per essere installati i Tornado. Nell’86, dopo il bombardamento USA a Tripoli sulla casa di Gheddafi, l’MPS promosse una grande e partecipatissima assemblea cittadina introdotta dal presidente dell’MPS e con la partecipazione dell’ambasciatore libico.
Molte furono le iniziative intraprese direttamente, ad esempio con la Casa della Pace si diede vita ad una campagna contro la collaborazione dell’Università della Sapienza con le imprese belliche in funzione della produzioni di armi per le cosiddette guerre stellari. Questo permise anche l’apertura di un intervento tra gli studenti universitari che partiva dalle posizioni dell’MPS.
Si trasformò la rivista da “Lotta per la Pace ed il Disarmo” in ”Lotta per la Pace e il Socialismo” per caratterizzare la svolta fatta con l’assemblea di fondazione del movimento. Ci fu anche una crescita dell’organizzazione con la costituzione a Padova della struttura locale, con un’assemblea pubblica nel novembre dell’88 in rapporto con “Radio Gamma 5” una radio radicata nel tessuto popolare che aveva dato con noi vita all’IMAC ’83, formatosi nella lotta contro la base di Comiso. A Padova si tenne anche un’iniziativa sull’Afghanistan con un membro dell’ambasciata e con un rappresentante di Interstampa del PCI.
Infine il 28 Febbraio dell’88 si svolse la seconda Assemblea Nazionale dell’MPS in cui si diede rilievo allo sviluppo dei rapporti con gli altri partiti e organizzazioni comuniste Europee e dove si sviluppò una piattaforma politica organica come proposta del movimento.
Inseriamo un breve stralcio dell’introduzione del documento di convocazione:
I punti di riferimento essenziali della scelta politica dell’M.P.S.
Quando abbiamo deciso la costituzione dell’MPS come proseguimento di una battaglia politica già iniziata negli anni precedenti, in varie forme, sul terreno di classe e internazionalista, i motivi di fondo che ci spingevano a tentare una sintesi più complessiva di queste esperienze scaturivano dall’evolversi della situazione internazionale caratterizzata dalle minacce di guerra dell’imperialismo USA e dalle repentine svolte in senso socialdemocratico del PCI di cui il congresso di Firenze è stata una tappa decisiva. La scomparsa, anche formale dell’identità comunista e la definizione del PCI come partito della sinistra europea, imponevano una risposta anche in condizioni difficili come quelle in cui si trova la sinistra di classe e comunista in Italia.
Proprio in ragione di queste difficoltà e avendo presente il complesso processo politico che può portare alla ricostituzione di una valida e solida posizione comunista nel movimento di classe italiano, abbiamo definito la funzione dell’MPS non come un progetto di partito, ma un contributo organizzato al dibattito che si sta sviluppando in Italia su queste questioni e al movimento delle lotte sul terreno della pace e delle esigenze materiali dei lavoratori. Con la prima assemblea nazionale dell’MPS abbiamo fissato quattro punti di riferimento essenziali per la nostra azione politica:
1. la necessità di una battaglia chiara contro la liquidazione definitiva della identità comunista e la riproposizione di una ipotesi di trasformazione socialista dell’Italia;
2. la difesa del patrimonio storico del movimento comunista internazionale e della esperienza dei paesi socialisti, combattendo le tendenze liquidatone che all’interno della sinistra italiana vengono portate avanti, utilizzando il dibattito in corso e la denuncia degli errori e delle difficoltà che in questi paesi si sono determinati.
3. l’identificazione nella politica imperialista degli Usa del punto più alto delle contraddizioni prodotte dal capitalismo nell’attuale fase e dello scontro di classe a livello internazionale.
4. la ripresa dell’iniziativa di classe e comunista nell’Europa capitalistica dove la politica socialdemocratica serve nella sostanza solo a rafforzare le tendenze aggressive delle grandi concentrazioni economiche e finanziarie.
Gli avvenimenti che si sono determinati in questi mesi che ci separano dalla prima assemblea nazionale del nostro movimento dimostrano che alcune valutazioni di fondo che in quella sede abbiamo sostenuto, si sono dimostrate quanto mai valide.
In primo luogo rispetto agli esiti elettorali del 14 giugno e alla nostra valutazione della posizione del PCI. Difatti, la sconfitta elettorale del partito comunista ha messo in evidenza che l’ipotesi del partito della “sinistra europea”, alla prova dei fatti, si è andata dimostrando non solo un ulteriore passo di avvicinamento alla socialdemocrazia, ma anche e soprattutto un asse strategico perdente.
Il disastroso calo elettorale del PCI dipende chiaramente dalla linea di cedimento verso le forze di governo e i settori industriali e finanziari rampanti del nostro paese. Dalla politica di unità nazionale al progetto di governo e di alternativa democratica, la sostanza della politica del PCI è stata quella di una rinuncia ad avere un effettivo ruolo di opposizione e di trasformazione sociale, proprio in un momento in cui questa esigenza si faceva più acuta e pressante a livello di massa in rapporto alla politica padronale nella crisi.
Sul numero di maggio-giugno 1996 della rivista Lotta per la Pace e il Disarmo viene individuata“la divaricazione sempre più profonda tra le origini storiche terzointernazionaliste del PCI e una pratica quotidiana che collocava questo partito in un ambito di azione prettamente socialdemocratico… c’è stato un susseguirsi di scelte politiche che, motivate in senso tattico, hanno prodotto una mutazione genetica del partito comunista”.
Ed è per questo che ampi strati di lavoratori e di giovani hanno smesso di votare PCI e questa tendenza non è più un fattore congiunturale ma un dato di fondo. Purtroppo, in mancanza di una alternativa adeguata, la crisi del rapporto tra PCI ed elettori non produce com’è ovvio, una possibilità immediata, ma spesso dà luogo a fenomeni di sbandamento e di qualunquismo politico di cui si avvalgono settori diversi da quelli della sinistra per riproporre politiche clientelari, logiche localistiche, deviazioni verso sigle elettorali di moda che non nascono sul terreno di classe e che anzi sono fortemente sostenute dai mass-media.
Il nostro schieramento internazionale si manifestò anche con le iniziative sulle libertà sindacali promosse dalla Federazione delle RdB; in quel periodo si parlava molto di libertà sindacali ma solo per la Polonia. In Italia contro il monopolio della rappresentanza di CGIL, CISL, UIL nessuno diceva, nulla nemmeno dalle pagine del Manifesto o dalle fila della cosiddetta quarta componente CGIL, egemonizzata da DP. Nel gennaio dell’87 venne in Italia una delegazione del governo Polacco ed il suo presidente Jaruzelski ricevette una delegazione delle confederazioni che voleva “denunciare” la mancanza delle libertà per Solidarnosc, Le RdB diedero vita ad un’iniziativa in cui si denunciava la mancanza di libertà sindacali nel nostro paese e si chiedeva al governo polacco di ricevere una propria delegazione. L’evento ebbe luogo contemporaneamente all’altro incontro. Nello stesso anno le RdB parteciparono come osservatori all’incontro internazionale della FSM che si teneva a Berlino.
Anche la Lista di Lotta, dopo l’assemblea nazionale dell’86, conobbe un rilancio a tutto campo nella città. Mentre si mantenevano e crescevano i punti conflittuali in particolare sui tradizionali terreni della casa e della disoccupazione ebbe così un forte impulso la crescita dell’intervento territoriale e associativo. La scelta era quella di avvicinare ambiti sociali che non fossero solo quelli pronti al conflitto diretto ma anche quelli che avevano bisogno di organizzazione nella loro vita quotidiana nei quartieri e nelle cento sfaccettature delle relazioni sociali.
La questione del traffico e dei trasporti pubblici, il verde nelle periferie, l’equo canone per gli affitti, mobilitazioni di intere zone contro il degrado, organizzazione di cooperative di lavoro, organizzazione delle donne per i servizi sociali, costruzione dei Servizi Legali Popolari, intervento studentesco, costruzione dei centri sociali furono le innumerevoli forme adottate per creare il radicamento nei quartieri della LdL, ma a questo punto all’interno della prospettiva politica rappresentata dal MPS.
Importante fu il ruolo di radio Proletaria che fu gestita politicamente come radio popolare cittadina, già dalla fine dell’88, dando voce ai molteplici conflitti e forme di organizzazione territoriale. Questa funzione fu rafforzata dalla conquista, raggiunta con iniziative di lotta, di gestire in diretta le sedute del consiglio comunale prima e poi quello regionale,sull’onda di radio Radicale per il parlamento, incrementando così notevolmente l’ascolto presso i settori popolari della città oltre che quello storico dell’ambito politico e di movimento.
Tutta questa attività produsse una capacità di egemonia nei settori popolari, orfani della rappresentanza del PCI, che portò alla costruzione della “Consulta della Città” composta da forze sociali che andavano oltre la LdL ed i suoi comitati e che poteva accedere ad una dimensione politica cittadina, cosa che poi si confermò successivamente con l’elezione a consigliere comunale nel gruppo dei Verdi di Luigi Nieri, all’epoca dirigente della LdL.
Gli ultimi anni del decennio furono interamente dedicati a questa importante attività rafforzata da due elementi di carattere politico. Il primo, la crisi del rapporto di massa del PCI nel territorio romano che moltiplicò le relazioni che la Lista di Lotta andava tessendo nei quadranti cittadini. L’altro l’affermazione delle liste Verdi che avevano la necessità di un radicamento di carattere popolare che solo la LdL aveva costruito a Roma con determinazione. Questi elementi di carattere politico portarono l’iniziativa e l’organizzazione popolare su un altro livello, che produceva un cambiamento del ruolo della LdL, per altro in un momento di crisi strategica del movimento comunista che metteva in difficoltà la proposta politica dell’MPS per il venire meno di una prospettiva verso la quale ci si era orientati negli anni precedenti.
Nel contesto che si andava determinando e con l’obiettivo di incrementare il ruolo dell’organizzazione a livello politico cittadino si scelse di cambiare nome a Radio Proletaria in Radio Città Aperta. Questa scelta non rappresentava certo una marcia indietro del carattere popolare e proletario dell’intervento, era un adeguamento che teneva conto degli sviluppi politici generali ma anche dei cambiamenti strutturali e culturali della classe, per come si era caratterizzata nei decenni precedenti.
Nella lettera pubblica diffusa dalla radio, è scritto che: “Il cambiamento di nome di Radio Proletaria in Radio Città Aperta non è affatto, come qualcuno ha già insinuato, un omaggio al trasformismo politico ma l’inizio di una fase di rinnovamento tesa a favorire dei nuovi rapporti nella sinistra e tra le forze alternative. Per questo riteniamo necessaria una svolta nei rapporti a sinistra su una nuova capacità programmatica e di protagonismo nella vita politica e nei conflitti sociali. Ciò fino ad oggi è mancato ed è stata causa non secondaria dell’empasse in cui ci si dibatte da tempo”.
Nelle enormi difficoltà politiche che si stavano manifestando,si imponeva la necessità di attestarsi su un livello più arretrato per non disperdere il grande patrimonio di classe e di organizzazione prodotto dalla sedimentazione delle forze sociali che avevamo determinato.
Dentro una discontinuità storica, fino al collo
L’89 è l’anno in cui la crisi del movimento comunista internazionale subisce un’accelerazione. Negli anni precedenti si erano già sentiti gli scricchiolii nei vari paesi socialisti e l’accordo di Reykjavik sugli euromissili e le guerre stellari tra Reagan e Gorbaciov era un forte segnale di arretramento del ruolo internazionale dell’URSS, anche se sul momento gli esiti di quell’incontro non apparvero affatto chiari. Il MPS prese infatti una posizione sostanzialmente a favore dell’accordo anche se all’interno i primi dubbi su Gorbaciov cominciarono a serpeggiare. Tali perplessità furono ampiamente confermate dalle scelte successive del PCUS alla XIX° conferenza in cui il suo segretario produsse una rottura irreversibile e formale con la storia dell’Unione Sovietica e del Partito, tanto che la definimmo sulla rivista la “Bad Godesberg” del socialismo facendo un parallelo con la svolta dell’SPD tedesca che nel ’59 aveva formalmente rifiutato il marxismo.
A giugno poi arrivò la crisi della Cina, cui abbiamo già accennato, che fu bloccata dall’intervento dell’esercito e questo pesò anche nell’accelerazione del cambiamento di linea del paese, che poi si sviluppò negli anni successivi. Infine cadde il primo pezzo del “risico”: la Polonia su cui il Vaticano e gli USA avevano lavorato e finanziato, peraltro con i soldi prestati dalla banda della Magliana, e che nel Giugno portò alle elezioni con la partecipazione di Solidarnosc, ormai partito politico, elezioni stravinte da Walesa.
Nei mesi autunnali gli altri paesi socialisti vennero “giù” uno a uno, con il benestare di Gorbaciov che spinse anche i paesi riluttanti verso quella prospettiva, in particolare Germania dell’est e Cecoslovacchia, portando fino in fondo il proprio cosciente tradimento storico assieme a tutto il gruppo dirigente del PCUS che mostrava chiaramente la propria crisi strategica.
Ancora non c’era stata la fine dell’URSS ma quella situazione creatasi nell’arco di pochi mesi ebbe un impatto forte sull’organizzazione ponendo problemi irrisolvibili in quelle condizioni. Al di là anche dell’incredulità che questa situazione creava, il problema politico che si presentava era la fine di una prospettiva strategica ed il superamento politico dello strumento sul quale avevamo lavorato fino a quel momento.
Il MPS, che era stato la “punta” del rilancio politico, veniva meno nella sua funzione generale lasciandoci scoperti ma, va detto, noi ed anche tutte le varianti del movimento comunista e antagonista parte del quale, come i trotzkisti e per certi versi anche DP, pensavano di potersi smarcare dalla sconfitta interpretando quegli eventi reazionari come eventi positivi che avrebbero permesso alle “giuste” spinte rivoluzionarie di prevalere sullo stalinismo e sull’avversario di classe. Inutile soffermarci su questo aspetto in quanto gli eventi successivi si sono dimostrati più pesanti delle pietre.
Naturalmente questi eventi portarono ad una riflessione critica dell’azione dei Partiti Comunisti, ad est come ad ovest, nel percorso storico che avevano avuto ed in particolare nell’ultima fase prima della crisi. Questi mostravano evidenti caratteri di burocratizzazione degli apparati ma anche una perdita di coscienza dei fini e della strada da seguire verso il mantenimento di quella egemonia che il movimento operaio e gli Stati Socialisti avevano comunque avuto fino agli anni ‘70.
Sul piano dell’intervento concreto del MPS, ovviamente, si ridusse la spinta alla mobilitazione per la pace e si sviluppò l’intervento di solidarietà internazionale di cui i Meeting estivi iniziati nel 1984 furono un importante momento di visibilità delle posizioni dell’organizzazione. Si sviluppò inoltre, su nostra spinta, il movimento per il boicottaggio delle merci di Israele e Sud Africa, ancora razzista, che ebbe eco nazionale trascinando settori di sinistra e di movimento su un piano unitario, che si manifestava necessario in quel frangente. Gran parte dell’attività fu orientata sulle relazioni nazionali per garantire la tenuta di una struttura che veniva direttamente colpita dagli sviluppi di quel periodo.
Mentre si offuscava la prospettiva strategica, la struttura di classe sulla quale avevamo puntato non solo cresceva ma veniva ad assumere a Roma anche un rilievo politico inaspettato. Questo avveniva anche per le RdB, ma per questo rinviamo ad un successivo capitolo specifico. I due elementi congiunti della crescita organizzata della LdL e della crisi della sinistra, inclusa quella del PCI, stavano fornendo ulteriori possibilità di crescita sociale. Tale evoluzione, avvenuta in parallelo alla crisi strategica del MPS, sembrava potesse fornire una via d’uscita tattica ma importante in quanto manteneva le forze ed il nostro ruolo politico.
Cominciammo infatti ad intessere rapporti in parte con il PCI che mostrava crepe ben più consistenti delle nostre, tenendo anche nel 1987 iniziative pubbliche con l’ex sindaco di Roma Vetere, ma soprattutto con DP, con il “Movimento per l’Alternativa” di Lidia Menapace, con i Trotzkisti dell’LCR con i quali ci furono anche momenti esilaranti, durante un’assemblea dove per la prima volta avveniva un incontro pubblico con gli “stalinisti” dell’OPR.
Il Movimento per la Pace e il Socialismo apre una fase di confronto a tutto campo con il resto delle forze della sinistra alternativa. Sul numero di Lotta per la Pace e il Socialismo di novembre-dicembre 1988 si sottolinea come “il filo conduttore del nostro lavoro è stato quello programmatico, la necessità di costruire un polo politico della sinistra e l’urgenza di procedere sulla convocazione della “convenzione della sinistra per l’alternativa”.
Su questo percorso, il Movimento per la Pace e il Socialismo nell’aprile del 1989, in una “Proposta politica per un nuovo rapporto nella sinistra di classe e tra le forze alternative”, valuta positivamente la proposta allora avanzata da Democrazia Proletaria per la costituzione di un Movimento Politico e Sociale per l’Alternativa (Mpsa). Nel documento pubblicato sulla nostra rivista Lotta per la Pace e il Socialismo del marzo-aprile 1989, è scritto che: “Tra l’intuizione del Mpsa e una diffusa esigenza presente nell’area democratica, alternativa, di sinistra e di classe, vi è una sintonia che ha necessità di essere definita più chiaramente. Ma il “pragmatismo” della minoranza demoproletaria che spinge per il polo arcobaleno è diventato credibile in presenza di un immobilismo politico della maggioranza (….) Non ci nascondiamo le difficoltà esistenti sia sul piano degli strumenti che sul piano oggettivo nella realtà italiana emersa dagli anni ’80, siamo però convinti che la costruzione di “un polo politico anticapitalista”, variamente articolato ma definito negli obiettivi e nelle forme politiche, sia la prospettiva da seguire e su cui incalzare tutte le forze reali, a partire da DP, che hanno svolto un ruolo nello scontro sociale e politico in questa fase storica”.
Questi tentativi di definire alleanze a sinistra, che ci permettessero di tenere sul piano più squisitamente politico,non durarono molto ed entrarono in crisi già all’inizio del 1989 perché non si trovò un accordo con DP e la LCR che poi, prima della fondazione del PRC, entrò direttamente a sua volta dentro Democrazia Proletaria.Cosa questa per noi obiettivamente improponibile a partire dalla questione sindacale essendo loro del tutto interni alla CGIL. Ma la situazione comunque era in movimento e quella sinistra già all’epoca fu presa da una coazione a ripetere che si è protratta fino ai nostri giorni.
Negli anni precedenti, dal 1985, si andavano ad affermare elettoralmente i Verdi che in Italia avevano i loro più rilevanti fondatori in alcuni ex esponenti del ’68, Gianni Mattioli e Massimo Scalia docenti alla facoltà di Fisica alla Sapienza. Questi esponenti del movimento ambientalista erano sensibili alle tematiche popolari della città per cui si stabilì gradualmente un rapporto positivo che permise alla fine del 1989 di partecipare con nostri candidati alle elezioni comunali e circoscrizionali nella lista dei verdi. Questo portò all’elezione di diversi consiglieri circoscrizionale della LdL e ad avere il primo dei non eletti che nell’anno successivo entrò nel consiglio comunale. L’esperienza si ripeté nel 1990 con le Regionali anche lì avendo prodotto un buon risultato in termini di voti.
Ancora una volta, insomma, eravamo stretti in un paradosso, da una parte la prospettiva politica comunista veniva meno con la crisi dell’URSS e dall’altra la tenuta del rapporto di massa a Roma ci faceva ritrovare inaspettatamente un ruolo politico anche dentro la sinistra. Certamente la crisi politica ci aveva costretto a cercare alleanze già dagli anni precedenti, ma lo strappo che i Verdi avevano provocato in quel periodo nella Rappresentanza Politica del paese aveva creato le condizioni per la politicizzazione delle nostre lotte ma che, da sole, non avrebbero portato ad esiti politici ed elettorali. Ciò fece balenare la possibilità che la vicenda dei Verdi potesse fornire uno strumento politico alla sopravvivenza dell’organizzazione in attesa dei futuri sviluppi della realtà.
Quella che sembrava una possibilità di nostra collocazione dentro un’alleanza tra sinistra e verdi, obiettivo che ci eravamo esplicitamente dati, appariva come un’ipotesi credibile anche in relazione alla crescita del movimento ambientalista a livello europeo, questa possibilità però venne interrotta da un fatto nuovo, anche se probabilmente prevedibile e inevitabile. Infatti la crisi che aveva colpito duramente il PCI portò ad una netta svolta a destra del partito che nel 1988 elesse a segretario Achille Occhetto per andare ad un superamento di quella formazione politica in coerenza con la crisi del movimento comunista internazionale. Ciò provocò una reazione interna al partito per cui al congresso del 1991 si formò la mozione del NO, composta da una parte importante dell’apparato del PCI a cominciare da Cossutta, che avrebbe poi portato alla nascita di Rifondazione Comunista.
Su questa possibilità di rottura in realtà ci fu nel MPS molto scetticismo, in quanto avendo già conosciuto e “praticato” Cossutta ed Interstampa al tempo di Comiso e del movimento contro gli Euromissili, la loro credibilità tra di noi era inesistente. Questa convinzione era rafforzata anche dal fatto che Nino Pasti, divenuto presidente dell’MPS, ruppe con quell’area perché anche ai suoi occhi, pur non essendo evidentemente un “militante” dell’OPR, l’affidabilità politica di quell’ambito era molto scarsa. Che poi nel merito questa valutazione fosse corretta lo si è visto nel ’99 con la partecipazione di Cossutta al governo che bombardava Belgrado, ma nel congresso del ’91prevalse la scelta di non entrare nel PDS cosa che a nostro modo di vedere, evidentemente errato, non sembrava fosse possibile.
Se la scelta di Cossutta di non aderire al Pds di Occhetto risulta una sorpresa, l’organizzazione però continua a non vedere chiaro dove il “leader” del dissenso nel Pci intende portare i comunisti che rifiutano la svolta socialdemocratica.
In un articolo di Lotta per la Pace e il Socialismo del dicembre 1990 (“Verso un nuovo Pdup?”) il giudizio su Cossutta è ancora una volta molto severo. “Con esito assai diverso dal copione, a provocare la scissione non è stato Cossutta ma Occhetto, il quale con una forzatura anche spettacolare ha presentato davanti ai giornalisti e alle telecamere il nuovo nome e il simbolo del partito “PDS”, nato sulle ceneri del Partito Comunista Italiano” (….) Cossutta si è trovato così di fronte ad un fatto compiuto che ha ridotto visibilmente adesioni, consensi e alleati interni ad un progetto di rifondazione comunista che, mantenendo in vita il PCI, avrebbe dovuto sancire la separazione dalla nuova forza politica costituita da Occhetto (….) La rifondazione comunista in un nuovo Pdup non risolverebbe il problema dello “spazio politico oggettivo” dei comunisti in una società come quella italiana né, tantomeno, quello della rappresentanza sociale del nuovo partito”.
Questa nuova ipotesi si rivelò indubbiamente più attrattiva e immediatamente più convincente di quella di un’alleanza sinistra/verdi in quanto sembrava riaffermare la prospettiva e l’identità comunista per di più avendo una base sociale ed elettorale affatto irrilevante. Mentre cercavamo, dunque, di salvaguardare una tenuta dell’organizzazione di classe, costruita nel tempo, dentro alleanze non più necessariamente comuniste la rottura del PCI portava a riproporre l’organizzazione classica del partito di massa dei comunisti puntando tutto sul dato elettorale senza strategia e senza alcuna riflessione teorica imposta dagli stravolgimenti mondiali in atto.
Possiamo, perciò, dire che nell’arco di un paio d’anni si manifestarono modifiche profonde, veloci e contraddittorie che hanno messo sotto stress i militanti dell’organizzazione, che venivano “strattonati” in malo modo da una situazione di crisi politica generale del tutto inedita e con un bagaglio di responsabilità collettive, dettato dal concreto rapporto di massa costruito a Roma con la LdL e a livello nazionale con le RdB, che non permetteva di rifugiarsi in soluzioni solo “politiche”.