“Una Storia anomala. Secondo volume”
L’inizio degli anni 80 segna una inversione di marcia nella storia del conflitto di classe internazionale; l’offensiva rivoluzionaria dei decenni precedenti rallenta anche se in modo non evidente per le forze comuniste e di classe di quel periodo. Alla fine degli anni 70, infatti, la vittoria della rivoluzione islamica in Iran spodestò lo Scià Reza Pahlavi, potente alleato degli USA in un’area strategica del mondo, segnando così una sconfitta cocente per l’imperialismo a pochi anni da quella del Vietnam nel 1975. Ma soprattutto in Nicaragua dove la guerriglia sandinista va al potere esattamente venti anni dopo la Rivoluzione Cubana; sembrava si potesse rinverdire la strategia guevarista della campagna che circonda la città e della liberazione del continente latino americano dallo Yankee. In Salvador, inoltre, si stava profilando, anche qui grazie alla guerriglia del Frente Farabundo Martì, una nuova sconfitta imperialista nel suo cortile di casa.
In realtà in parallelo e ‘sottopelle’ stavano maturando eventi che avrebbero rimesso in discussione quel rapporto di forze che avrebbe portato in seguito alla sconfitta dell’URSS ed alla trasformazione economica e sociale di quello che all’epoca era definito il blocco del socialismo reale. L’elezione di Reagan nel 1980 e la sua “rivoluzione” conservatrice, la sincronia con l’analogo processo avviato dalla Thatcher in Gran Bretagna, l’impantanamento dell’URSS in Afghanistan, invaso dalle truppe sovietiche nel natale 1979 per contenere le contraddizioni di un paese alleato governato da un partito fratello, la modifica della strategia economico-finanziaria dell’Occidente sono stati i segnali, sottovalutati da tutto il movimento rivoluzionario, che l’aria stava cambiando e in modo molto più radicale di quanto si potesse effettivamente immaginare.
Quello che però caratterizzò in modo decisivo quella svolta furono le scelte industriali e finanziarie operate in occidente in funzione del superamento della profonda crisi economica e produttiva da sovrapproduzione di merci che aveva caratterizzato tutti gli anni ’70.
La controffensiva del capitale contro le lotte degli anni ’70, sia sul piano interno ai paesi a capitalismo avanzato sia per il cosiddetto terzo mondo, si mosse su più piani. L’incubatore della controrivoluzione fu la “Trilateral Commission” dove cominciò a riunirsi dal 1974 il gotha del capitalismo mondiale insieme ad alcuni selezionatissimi capi e rappresentanti dei governi di Usa, Giappone ed Europa.
La ristrutturazione produttiva in occidente
Il primo piano fu rappresentato dalla ristrutturazione produttiva che all’epoca si concretizzò con i primi processi di razionalizzazione e automazione e con l’esternalizzazione delle attività produttive che miravano ad indebolire la resistenza degli operai. Alla FIAT nel 1979 i primi 61 licenziamenti politici delle avanguardie di lotta e nell’anno successivo l’espulsione di 24.000 operai, che furono allo stesso tempo il presupposto politico, tramite la sconfitta sindacale, ed economico per avviare un processo di cambiamento radicale in tutte le imprese del paese, con l’obiettivo di rimuovere il ruolo determinante nella produzione di quell’operaio massa fordista divenuto ormai un ostacolo insostenibile per lo sviluppo capitalista.
Ovviamente la ristrutturazione produttiva non riguardò solo l’ Italia ma tutto l’occidente capitalistico. In Inghilterra nel 1984 la Thatcher avviò uno scontro frontale con i minatori, la più forte e combattiva categoria di lavoratori, che portò alla chiusura di fatto dell’attività mineraria e al licenziamento di decine di migliaia di lavoratori. Stessa cosa negli USA dove il presidente Reagan scelse lo scontro con i controllori di volo, dopo uno sciopero di questi dipendenti pubblici licenziandone quasi 13.000, cioè quasi la totalità dei controllori.
Gli anni a cavallo dei 70/80 furono gli anni in cui i processi di ristrutturazione e competizione tra imprese multinazionali portarono al superamento dei rapporti di forza tra le classi vigenti nei decenni precedenti e misero sulla difensiva il movimento operaio nelle fabbriche senza che da parte di quest’ultimo ci fosse la necessaria chiarezza sul piano che il capitale stava adottando a livello mondiale.
La maggiore competitività dell’industria giapponese basata sulla nuova produzione flessibile (il Toyotismo) infatti mise seriamente in difficoltà le imprese di auto, negli USA e in tutto l’occidente, tanto da essere costrette a seguire il modello Toyotista che aumentava produttività e profitti e abbassava i costi ed i salari, rendendo più competitivi i prezzi. Modello che fu poi gradualmente adattato alle industrie in tutti i comparti produttivi.
La finanziarizzazione degli anni ‘80
A fianco della ristrutturazione produttiva, qui tracciata sommariamente ma che ha radicalmente cambiato le condizioni dei paesi industriali del tempo, si è generalizzato un altro modo di incrementare i profitti che ha interessato le economie a capitalismo avanzato ed i paesi dell’allora definito terzo mondo ad esse collegati.
Si mise in moto infatti un gigantesco processo di finanziarizzazione, che liberava il capitale dalla “schiavitù” della valorizzazione attraverso la produzione di merci e cominciava a creare profitto liberato da condizionamenti “materiali”. Nei centri capitalisti ciò produsse le privatizzazioni, che si svilupperanno enormemente negli anni ’90, i processi di indebitamento dei privati e degli Stati, la nascita della cosiddetta economia “fittizia” soggetta a periodiche crisi finanziarie. La prima fu il crollo della borsa di Tokio nel 1988 che sembrava portasse verso una crisi con i caratteri di quella del ’29, trascinandosi dietro le borse di tutto il mondo.
La finanziarizzazione, che ha i suoi prodromi nella fine degli accordi di Bretton Woods nel 1971 con lo sganciamento del dollaro dall’oro deciso dal presidente USA Nixon, se nei centri capitalisti ridisegnava le relazioni interne ed i rapporti di forza tra i diversi centri finanziari internazionali, verso il terzo mondo produceva effetti ben più devastanti. Il FMI infatti fu lo strumento usato per indebitare prima i diversi paesi, soprattutto per finanziare l’acquisto delle armi occidentali, per poi depredarli nella fase della restituzione del debito con tassi di interesse da strozzinaggio.
Questo approccio fu usato con particolare ferocia nei confronti dell’America Latina: gli USA prima promossero i colpi di Stato degli anni 70, dal Cile all’Argentina all’Uruguay, per contrastare il movimento comunista e popolare, e poi utilizzarono la subordinazione dei governi golpisti imponendo interessi fortissimi sui prestiti forniti per l’acquisto di armi proprio dagli USA. È da questo pregresso storico che possiamo capire perché oggi il conflitto di classe politico ha le sue forme più avanzate in America Latina.
L’operazione fu anche politicamente lungimirante poiché in questa trappola del debito furono presi anche alcuni paesi socialisti, quali la Polonia, la Jugoslavia, la Romania e l’Ungheria, che poi furono anche i primi a passare armi e bagagli nel campo nemico alla fine di quel decennio.
Questa politica di rapina internazionale produsse anche dei superprofitti che permisero ai paesi imperialisti di gestire la crisi sociale prodotta dai processi di ristrutturazione. Gli anni 80, infatti, furono anche anni di disoccupazione, cassa integrazione e licenziamenti, con il trasferimento della ricchezza sociale verso i ceti dominanti e con la riduzione dei salari reali tramite inflazione che non riprodussero però il conflitto sociale del decennio precedente.
Tutto ciò poté avvenire anche perché in varie forme, indirette, fu messa in opera una sorta di redistribuzione politicamente orientata. Dal diffuso clientelismo agli alti rendimenti dei BOT, posseduti all’epoca anche da settori non propriamente benestanti, per l’aumento dei salari avvenuto nel decennio precedente, fino all’uso diffuso del credito bancario, esempio i mutui per l’acquisto delle case, si istaurò una pace sociale che certo poteva essere lacerata ma solo in alcuni punti di crisi, non generalizzabili.
Tale condizione riguardava tutto l’occidente che, nonostante gli arretramenti sociali, manteneva livelli di qualità della vita accettabili, e grazie anche al welfare ciò permise anche lo sviluppo della politica collaborazionista dei sindacati che, in modalità diverse paese per paese, abbandonarono definitivamente il conflitto come strumento di emancipazione e liberazione delle classi subalterne, facilitando la frammentazione politica e materiale della classe.
Contemporaneamente all’affermarsi di tali relazioni economiche e sociali si modificò, in forme diversificate, il ruolo degli Stati che vennero gradualmente subordinati alla crescita dell’interesse privato. In Italia il passaggio in questo senso avvenne nel 1981 quando il ministro del Tesoro, il DC Andreatta, in sintonia con i tempi e con la FED degli USA, operò il famoso divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia, privatizzando la gestione finanziaria e neutralizzando le influenze della politica sulle scelte economiche generali. Questa decisione, presa con una semplice lettera del ministero del Tesoro e senza passare per il parlamento, fu talmente pesante che portò allo scontro con il ministro socialista Formica e alla caduta del governo Spadolini.
La seconda guerra fredda e la corsa agli armamenti
Se la ristrutturazione dell’apparato produttivo e la finanziarizzazione sono stati gli elementi caratterizzanti le trasformazioni interne all’occidente, l’elezione del presidente Reagan segnò un salto di qualità anche nelle relazioni politico militari internazionali e di quelle con l’URSS ed il campo socialista.
Intanto dopo lo smacco subito da Carter in Iran, con il fallimento del tentativo di liberare gli ostaggi dell’ambasciata USA a Teheran, gli USA ripresero una politica aggressiva a tutto campo che andava dall’invasione militare dell’isola di Grenada, alleata di Cuba, al sostegno ai Contras in Nicaragua contro il governo rivoluzionario di Ortega, fino al sostegno agli integralisti islamici che si opponevano all’occupazione militare sovietica in Afghanistan. Si decise insomma di rispondere militarmente sul campo ai processi di liberazione nazionale che si erano sviluppati precedentemente.
Il confronto non avveniva solo nelle “faglie” conflittuali e periferiche tra i due sistemi politici; la nuova presidenza decise di portare a fondo anche quello, diretto, con l’URSS con la vicenda dell’installazione degli Euromissili e con l’avvio del programma, successivamente sospeso a seguito dell’accordo Reagan-Gorbaciov, anche perché poco realistico, delle guerre Stellari ovvero di un sistema spaziale antimissile per acquisire una predominante posizione strategica da parte dell’imperialismo.
I calcoli dell’establishment USA in realtà non erano solo prettamente militaristi su questo specifico campo l’URSS non era affatto indietro sul piano scientifico e tecnologico mentre su quello spaziale era addirittura all’avanguardia ma puntavano sullo sfiancamento economico dei paesi socialisti. Sia la guerra in Afghanistan sia l’impegno su nuove armi strategiche avrebbero messo alle corde l’URSS facendo emergere i punti deboli sia della struttura economica che di quella politico-militare del campo socialista, che poi si palesò con il ritiro dall’Afghanistan.
Nell’immediato questa inversione di marcia bellicista degli USA, in rottura con la linea della cosiddetta “convivenza pacifica”, rivitalizzò un forte movimento pacifista in tutti i paesi occidentali. Ci furono potenti mobilitazioni per la pace contro i pericoli di guerra e, in particolare in Europa, contro gli Euromissili che furono contrastati dall’installazione degli SS 20 a medio raggio nell’Europa Orientale. Si manifestò così il rischio di una nuova devastante guerra che si sarebbe combattuta, anche questa volta, sul territorio europeo e non su quello americano, almeno nelle intenzioni degli USA.
Questi eventi legati al conflitto di classe nei centri imperialisti, dal contrasto USA alle lotte di liberazione ai processi di finanziarizzazione, al confronto militare USA-URSS, si sono protratti per tutti gli anni 80 segnando un punto di svolta e di caduta con l’elezione a segretario del PCUS di Michail Gorbaciov nel 1985. Il nuovo segretario che dopo una prima fase in cui appariva addirittura di “sinistra” in quanto sembrava voler contrastare l’elefantiaco apparato burocratico del partito e fu addirittura accusato di essere “maoista” virò rapidamente di 180° rompendo con la storia sovietica e tradendo, fino alla stessa distruzione dell’URSS. In questa prospettiva fu decisivo e significativo l’accordo raggiunto nel 1987 a Reykjavík in Islanda con Reagan per l’eliminazione degli euromissili, che palesava il disarmo sovietico di fronte all’occidente e una debolezza strutturale accentuata proprio dalle politiche di riforma economica e politica inaugurate dal segretario generale del PCUS.
Un altro elemento di crisi, intanto, veniva emergendo in Cina che, pur essendo un paese a guida comunista, dalla morte di Mao nel ’75 aveva accelerato l’avvicinamento agli Stati Uniti in funzione antisovietica e, dopo un aspro scontro all’interno del Partito Comunista, aveva avviato profondi cambiamenti nella struttura economico/sociale del paese.
La rivolta esplosa in Cina nel giugno del 1989, che oggi conosciamo con il nome di Piazza Tien An Men, dove si mischiavano istanze filo maoiste e filo occidentali, sembrava aggiungere un altro tassello alla crisi dei partiti comunisti, rendendo il quadro internazionale sempre più problematico per quelle forze che si richiamavano al movimento operaio e comunista per le quali sembrava doversi chiudere ogni prospettiva.
Il quadro politico nazionale fino al 1990
Come è sempre avvenuto dalla fine della seconda guerra mondiale, nello spirito degli accordi di Yalta, il quadro nazionale si andava sviluppando in sintonia con la dinamica internazionale di ripresa della conflittualità tra occidente capitalistico ed oriente socialista. Nel 1980 questa portò all’elezione di Reagan a presidente degli USA, lasciando intravedere già da prima la crisi del “cedevole” presidente Carter che aveva accettato la sconfitta in Iran e Nicaragua. In Italia prevalse l’antagonismo nei confronti del PCI che fu espulso dalla maggioranza di governo nonostante il partito si sforzasse di accreditare, con il suo “farsi Stato”, l’abbandono di ogni ipotesi rivoluzionaria. In realtà la partita, come abbiamo visto, non era attorno a quanto il PCI fosse ancora o meno rivoluzionario (tutti ben sapevano che non lo era più da tempo) ma alla necessità strategica dei paesi capitalisti di arrivare ad una resa dei conti con la resistenza della Classe Operaia che non poteva essere certo raggiunta con il PCI e la CGIL nell’area di governo.
La crisi della cosiddetta “unità nazionale”, formula riproposta in seguito periodicamente nei momenti di difficile governabilità, palesatasi nel 1979 porta all’elezioni anticipate di due anni e produce un quadro istituzionale completamente nuovo ed in sintonia con le tendenze prevalenti in questa fase. Il PCI viene espulso dall’area di governo avendo subito una sconfitta elettorale ed il governo che si ricostituisce, dopo una serie di tentativi falliti, è composto da cinque partiti che ha i suoi soci di maggioranza nella DC e nel PSI. Il nuovo governo si poggia sul principio della pari dignità tra le diverse forze portando alla prima elezione di un capo di governo non democristiano, ovvero di Giovanni Spadolini del partito repubblicano.
La formula del Pentapartito diventa lo strumento per cominciare a rendere più organica l’offensiva antioperaia mettendo in campo non solo i vecchi arnesi della DC, PLI, PSDI, PRI ma anche un Partito Socialista “rinnovato” dalla segreteria Craxi che veniva da una riverniciatura di sinistra e democratica in quanto schierato contro la politica della fermezza DC/PCI durante il rapimento Moro. Sul piano politico lo scontro con il PCI fu senza mezzi termini, cercando di minare la tenuta di quel partito dalla rottura nel governo centrale fino ad una guerra sistematica nelle elezioni locali, riproducendo dovunque, meno che nelle regioni rosse dove l’alleanza con il PCI era d’obbligo, le alleanze pentapartito.
Non solo, ma il nuovo PSI aggressivo ed anticomunista si apprestava a condizionare fortemente la politica sindacale schierando CISL e UIL contro la CGIL di Lama, che a sua volta era non poco collaborazionista. Lo fece spaccando la stessa CGIL e mobilitando la componente socialista con a capo il segretario aggiunto Ottaviano del Turco, in particolare in vista del referendum sulla scala mobile del 1985. Lo stesso pentapartito subisce una rapida evoluzione portando lo stesso Craxi a diventare presidente del consiglio con le elezioni del 1983, evento particolarmente di rilievo nel quadro istituzionale del nostro paese.
Sul piano di classe i passaggi effettuati furono due, il primo con l’accordo “triangolare” Governo/Imprese/Sindacati, il cosiddetto Patto sociale del 14 febbraio 1984, detto anche “accordo di S. Valentino” che non venne firmato dalla sola CGIL nonostante avesse partecipato precedentemente alla trattativa, fino all’ultimo. L’accordo tagliò di netto tre punti della scala mobile e provocò una reazione fortissima con scioperi e iniziative sindacali culminata nel marzo in un’enorme manifestazione a Roma dalla quale CISL e UIL si dissociarono immediatamente, così come la componente socialista della CGIL.
L’accordo fu sottoposto a Referendum l’anno successivo e vinse il NO craxiano segnando una pesante sconfitta del PCI e di tutto il movimento sindacale e di classe che si era battuto per l’abrogazione del taglio dei tre punti. In quell’occasione si mostrò per la prima volta un paradosso politico destinato a ripetersi. Infatti i NO all’abrogazione infatti ebbero il risultato più importante nel nord industriale mentre i SI vinsero nel meridione socialmente e produttivamente più indeterminato. Ciò si ripeté di nuovo alle politiche del ’94 quando nelle città operaie, in particolare a Torino e a Mirafiori, vinse clamorosamente Berlusconi.
Nella politica internazionale il Pentapartito seguì le indicazioni della NATO e degli USA, a cominciare dalla messa in opera dei missili a media gittata Cruise e Pershing nell’Europa occidentale. Il governo italiano decise nel 1981 che, in accordo con la NATO, i missili Cruise fossero collocati nella base militare di Comiso in Sicilia, partecipando così direttamente alla “seconda Guerra Fredda” di cui abbiamo parlato prima. La scelta della base di Comiso generò una fortissima mobilitazione sia del PCI che della sinistra in cui l’OPR, assieme alle proprie articolazioni, fu presente in prima linea.
Questo allineamento totale di copertura del governo verso la NATO e gli USA, che si manifestò anche per l’abbattimento del volo civile di Itavia sull’isola di Ustica provocato dagli americani con l’uccisione di circa ottanta persone, conobbe un’incrinatura forte con l’incidente di Sigonella dove si rischiò un conflitto a fuoco tra i carabinieri italiani ed i militari statunitensi. Il presidente USA Reagan in occasione di un dirottamento navale operato nel Mediterraneo tentò di fare una forzatura sulla sovranità del territorio italiano interno alla base per catturare militanti palestinesi reduci dall’azione armata e dirottati dall’aviazione USA su Sigonella. Ci fu però una reazione inaspettata, sovranista diremmo oggi, di Craxi e di Andreotti che erano stati mediatori e garanti della trattativa con l’OLP ed i governi arabi per trovare una soluzione ad una pericolosa impasse internazionale. Questo momento di “orgoglio” nazionale, che costrinse Reagan a fare clamorosamente marcia indietro, fu valutato positivamente da tutta la sinistra ma ovviamente non cambiò nulla nella politica del Pentapartito.
È su questa lunghezza d’onda che procede il decennio, che vede con le elezioni dell’87 la crisi del governo Craxi ed il ritorno dei capi di governo democristiani. A Craxi successe per pochi giorni il sempreverde dirigente democristiano Fanfani, subito dopo un giovane economista sempre democristiano, Goria ed infine un boss della Democrazia Cristiana, Ciriaco De Mita, salutato positivamente anche dal direttore de La Repubblica, Eugenio Scalfari.
Questo andamento politico “lento” è durato fino al 1990, ma già dall’89 si cominciarono a sentire i venti di cambiamento con l’emergere delle prime crisi nei paesi dell’est e più precisamente in Polonia. Gli effetti politici non si videro subito ma il PCI cominciava a sentirsi messo all’angolo, senza riuscire a produrre una strategia credibile dopo il compromesso storico e la morte di Berlinguer avvenuta nel 1984, poco prima delle elezioni europee in cui, per l’unica volta, il PCI sorpassò la DC.
Sugli anni ’80 va fatto un ultimo rilievo che riguarda la sinistra ed il movimento. A metà di quel decennio in un momento in cui l’iniziativa della sinistra più radicale ristagnava sul piano politico e del conflitto sociale né la nostra iniziativa era tale da poter dare un diverso segno politico a quel periodo esplose il movimento ambientalista che successivamente diede vita alla lista Verde. Esso aveva, soprattutto nella sua prima fase, un’impronta chiaramente di sinistra in quanto i suoi dirigenti provenivano dal movimento del 68. Buona parte dell’Autonomia Operaia, ormai esaurita la spinta del ’77, in quegli anni si riversò su questo filone di intervento un po’ in tutta Italia. Queste nuove espressioni politiche ambientaliste in realtà erano già presenti in tutta Europa ed in particolare in Germania, dove riuscirono a sedimentare una propria base sociale anche se nel tempo accentuarono sempre più il carattere moderato del loro agire, riuscendo negli anni ’90 anche ad andare al governo con i Socialdemocratici.
Quello che fece però esplodere il movimento portandolo fin dentro le istituzioni, con risultati elettorali significativi nelle elezioni del 1987 dove attennero con il 2,5% di voti 13 deputati, fu il disastro alla centrale nucleare di Černobyl in Unione Sovietica che avvenne il 26 Aprile 1986 nell’Ucraina settentrionale. Sull’onda dell’evento drammatico ma anche su quella della paura dell’inquinamento nucleare per tutta l’Europa si produsse un movimento di massa democratico e sostanzialmente antisovietico che scombussolò la sinistra rimasta. In particolare Democrazia Proletaria che dopo il buon risultato delle politiche dell’83 con 7 deputati, in contemporanea con la forte mobilitazione antimilitarista di quel periodo, di fatto si limitava a seguire essenzialmente il piano elettorale, a fare il “paracarro” del PCI (come ebbe a dire Mario Capanna, uno dei suoi leader più noti),e a fare opposizione nella CGIL rifiutando ogni possibile rottura ed alternativa.
Insomma prima della tempesta che prese l’avvio in Polonia nell’estate dell’89, proseguita con la caduta del muro di Berlino e conclusasi con l’ammainamento della bandiera Rossa sul Cremlino il 25 dicembre 1991, la situazione internazionale e nazionale sembrava arenata in una stagnazione politica che pareva non avere sbocco.