“Una Storia anomala. Secondo volume”
Gli anni Novanta segnano la rottura con i decenni precedenti e in qualche modo consegnano l’intero pianeta e l’umanità all’egemonia del capitalismo. La controrivoluzione rafforzatasi negli anni Ottanta raggiunge il suo obiettivo, per molti aspetti più velocemente di quanto le stesse classi dominanti avessero previsto.
È sufficiente pensare che solo nei primi due anni del decennio si dissolve l’Unione Sovietica, c’è la riunificazione formale della Germania, viene firmato il Trattato di Maastricht e nasce l’Unione Europea, viene scatenato il primo massiccio intervento militare strategico da parte degli Usa in Iraq. In Italia viene sciolto ufficialmente il PCI dopo settanta anni di storia.
Inevitabile che tutto questo avesse ripercussioni profonde sul movimento comunista a livello mondiale e anche sulla nostra organizzazione.
In Italia il decennio vede l’ennesimo governo Andreotti. Il ministro del Tesoro è l’ultraliberista Carli (ex Confindustria, ex Banca d’Italia) che è anche il teorico del “vincolo esterno”, cioè del fatto che l’economia italiana andasse resa subalterna a diktat sovranazionali. Sarà colui che a dicembre del 1991 firmerà il Trattato di Maastricht, materializzando così il vincolo esterno.
Già nel 1990 si comprende che la Guerra Fredda, ossia il conflitto globale con l’URSS è finita. Le ripercussioni di quel conflitto hanno visto in Italia la lunga stagione delle stragi di Stato in funzione anticomunista e stabilizzatrice di un sistema politico non sempre all’altezza della situazione. Andreotti, clamorosamente, consegna alla commissione parlamentare di inchiesta sulle stragi i documenti relativi all’esistenza di Gladio, una struttura clandestina della Nato, attiva anche in Italia, ma non più utile nella nuova fase storica. Un modo astuto di gettare cenere negli occhi (che il Pci accettò molto volenterosamente) e di tenere al coperto gli apparati che hanno fatto effettivamente il lavoro sporco nei decenni precedenti. I comunisti e l’Urss non sono più una preoccupazione per le classi dominanti, anche in Italia, e dunque si può procedere alla piena restaurazione del capitalismo e all’avvento di una classe dirigente adeguata alla nuova fase storica.
La firma del Trattato di Maastricht da parte dell’Italia e l’introduzione del vincolo esterno europeo, creano le condizioni per la svolta che dal 1992 inaugurerà nel nostro paese la stagione dell’austerity, delle Leggi Finanziarie “lacrime e sangue”, delle privatizzazioni, dei tagli ai salari e ai diritti dei lavoratori di cui tutt’oggi si pagano le conseguenze. Questo processo di rafforzamento del dominio capitalista marcerà parallelamente alla crisi e alla dissoluzione della classe politica italiana attraverso “Tangentopoli”. I vecchi partiti verranno spazzati via dalle inchieste sulla corruzione, verrà decretata fattualmente la fine della Prima Repubblica – quella nata dal patto costituzionale del dopoguerra – e l’avvento della cosiddetta Seconda Repubblica attraverso una serie di controriforme istituzionali, elettorali ed economico/sociali (tra queste, prime fra tutti, le privatizzazioni di banche, servizi strategici e industrie pubbliche).
Una rottura della storia e del mondo del dopoguerra
Ma i fatti più pesanti sono quelli determinatisi sul piano internazionale. Nel 1990 appare evidente che il progetto gorbacioviano non sia il rinnovamento del socialismo ma il suo affossamento. Mentre in campo economico i membri degli apparati del partito e dello Stato – ormai senza vincoli si apprestano ad appropriarsi delle imprese, il PCUS viene ormai martellato dall’alto (Gorbaciov e i suoi dirigenti) e dal basso (Eltsin e gli oppositori interni) e i militanti più coerenti sono completamente disorientati, emarginati o subordinati.
In Europa, nell’ottobre del 1990 avveniva la riunificazione formale della Germania con una gigantesca annessione economica della ex Germania Est, un’operazione di restaurazione del capitalismo che Berlino riuscirà però a far pagare anche ai suoi partner della nascente Unione europea. Dal 1991 alla fine del ’98 affluirono verso la Germania investimenti esteri per 1.247 miliardi di euro, di cui 371 miliardi provenienti dai Paesi che avrebbero poi costituito l’Eurozona. L’Italia, in quegli otto anni contribuì complessivamente con 39, 6 miliardi.
L’organizzazione coglie tutta la portata nefasta della riunificazione della Germania e ne intravede le ripercussioni sul futuro dell’Europa.
Su Lotta per la Pace e il Socialismo del gennaio 1990 è scritto che: “la riapertura inaspettata ed impetuosa della “questione tedesca”, ha introdotto in un quadro est/ovest che sembrava già definito, una variabile strategica di tutto rilievo per le prospettive dell’Europa e delle relazioni mondiali”. L’organizzazione intuisce che la riunificazione tedesca è destinata a condizionare in profondità la natura di quella diventerà, due anni dopo, l’Unione Europea mettendone fine ad ogni trastullo sul suo carattere progressivo: “La questione tedesca sta sconvolgendo tutti i delicati equilibri su cui si era andata definendo l’Europa del Mercato Unico del 1992, la sua relazione con la partnership Usa e lo stesso sviluppo del rapporto est/ovest in Europa (….) Un Marco tedesco forte capace di condizionare l’Unione Monetaria Europea e di sostituire il dollaro in tutti gli scambi europei da est a ovest, da un lato sancirebbe la fine dell’influenza statunitense sull’Europa, dall’altro finirebbe per spingere gli Usa sempre più verso il Giappone”.
A gennaio del 1991, gli Stati Uniti danno vita al primo grande intervento militare all’estero dopo il Vietnam. A farne le spese è l’Iraq che sei mesi prima aveva invaso il Kuwait come “risarcimento” per la sanguinosa guerra condotta per ben otto anni contro l’Iran, proteggendo in qualche modo gli interessi degli stati arabi sunniti e degli Stati Uniti contro l’Iran sciita uscito vittorioso dalla Rivoluzione Islamica del 1979.
Per giorni e giorni gli Usa e i loro alleati (tra cui l’Italia) – dopo aver inviato decine di migliaia di soldati nell’area bombardano l’Iraq. L’Unione Sovietica praticamente tace e acconsente, limitandosi ad un lavorio diplomatico, cercando di arrivare ad una tregua, ma accettando sostanzialmente la forzatura degli USA con un intervento militare diretto così massiccio in un’area strategica come il Medio Oriente. È il segno definitivo della crisi dell’URSS.
Nel mondo, gli alleati internazionali dell’URSS vengono abbandonati a sé stessi e convinti ad abbandonare ogni posizione socialista o antimperialista.
Nel 1990 in Nicaragua il Frente Sandinista, solo 11 anni dopo la Rivoluzione, sceglie di andare comunque alle elezioni e le perde contro la destra che comprò i voti con i dollari americani.
In Salvador, dopo una fallita offensiva sulla capitale a novembre del 1989, il Frente Farabundo Martì vede emergere posizioni apertamente capitolazioniste anche tra i propri dirigenti e avvia un negoziato che prevede il disarmo delle organizzazioni guerrigliere.
A Cuba infine i comunisti non si fanno illusioni sul “nuovo corso” gorbacioviano in Unione Sovietica e mantengono il progetto rivoluzionario e socialista apprestandosi a resistere, comunque e senza più alcun aiuto da parte dell’URSS. Saranno gli anni del “Periodo Especial”, anni durissimi sul piano economico/sociale e nell’isolamento internazionale, che avrebbero piegato le gambe a qualsiasi sistema politico ma non Cuba e il gruppo dirigente rivoluzionario guidato da Fidel Castro.
Le controtendenze
La resistenza di Cuba avviene però in un contesto importante che vedrà ben presto affermarsi una controtendenza rispetto alla controrivoluzione globale in corso e all’egemonia brutale del capitalismo sul mondo.
Nello stesso 1990 in cui in Europa si andava dissolvendo il socialismo reale, in America Latina, dove le ferite del capitalismo reale nella sua versione più feroce erano ancora aperte, si accumulano forze e ipotesi completamente diverse.
La brutale repressione delle proteste popolari in Venezuela nel febbraio 1989 – il famoso “Caracazo” – era stato l’ennesimo segnale del fatto che il capitalismo nei paesi in via di sviluppo non avrebbe concesso nulla alle istanze popolari. È in quel contesto che un ufficiale dell’esercito venezuelano si rifiuterà di sparare sulla folla: Hugo Chavez. Uscito dal carcere comincerà ad elaborare, confrontandosi soprattutto con Fidel Castro e il gruppo dirigente rivoluzionario cubano, una strategia di riscatto per l’America Latina.
Nell’estate del 1990 le forze della sinistra latinoamericana in tutte le loro articolazioni, danno vita al Foro di San Paulo. Si tratta di una conferenza continentale di tutte le organizzazioni – da quelle rivoluzionarie a quelle anche inclini alla socialdemocrazia – che sarà il bacino di incubazione del processo di cambiamento progressista e antimperialista che attraverserà gran parte dell’America Latina nella seconda metà degli anni Novanta: Venezuela, Brasile, Bolivia, Ecuador, Uruguay e di nuovo il Nicaragua.
È una controtendenza alla quale l’organizzazione guarderà da subito con estrema attenzione sia rafforzando strettamente il legame con Cuba, il suo governo, il Partito Comunista e le sue articolazioni, sia allacciando relazioni e confronto profondo con molte forze rivoluzionarie dell’America Latina, seguendone i processi, le evoluzioni, le vittorie, gli arretramenti e i momenti critici, ma maturando spesso la consapevolezza che i partiti comunisti tradizionali – ad eccezione di Cuba – non fossero sempre il settore più avanzato di questo processo. Sulla base di questa intuizione, negli anni successivi l’organizzazione produrrà elaborazioni originali sulla resistenza e il processo di transizione al socialismo in quella che viene definita la “Nuestra America”.
La definitiva dissoluzione dell’URSS
Nell’agosto del 1991 in Unione Sovietica il maldestro tentativo di rovesciare Gorbaciov da parte di un settore del PCUS ha come risultato fallimentare l’insediamento al potere dell’uomo di paglia degli Stati Uniti, Boris Eltsin (ex segretario di Mosca in rotta con il partito) e la definitiva uscita di scena di Gorbaciov, ridicolizzato da Eltsin davanti alle telecamere di tutto il mondo. A dicembre del 1991 la bandiera rossa viene ammainata dal Cremlino e viene dichiarata dissolta l’Unione Sovietica. L’anticomunismo si afferma a livello di massa sul piano ideologico dentro le società e la politica a tutti i livelli.
L’intero mondo adesso è a disposizione del capitalismo e della sua egemonia, senza più alcuna rottura nel mercato mondiale. La stessa Cina, pur avendo stroncato gli emuli di Gorbaciov a Piazza Tien An Men, si appresta ad entrare pienamente nelle strutture del mondo capitalista (anche se per l’entrata formale nella WTO dovrà attendere altri dieci anni).
È dunque un mondo che ha cambiato radicalmente segno e volto quello dei primi anni Novanta e che ha visto “il cielo cadere sulla testa” ai comunisti in tutto il pianeta. Molti si renderanno biodegradabili nella socialdemocrazia, molti cederanno armi e bagagli facendo propria l’avventura del capitalismo e dell’iniziativa privata, in alcuni casi diventando manager o consiglieri di amministrazione di società privatizzate.
Non saranno molti quelli che terranno le posizioni in attesa che le contraddizioni del capitalismo riaprano i varchi per un’ipotesi comunista nelle nuove condizioni storiche. Saranno questi i compagni del Partito Comunista Cubano, i comunisti dei partiti greco e portoghese, quelli indiani, filippino e sudafricano e poco altro. La nostra organizzazione, pur con i suoi limiti e la sua “storia anomala”, si colloca tra questi.
Lo scioglimento del Pci
Sul piano politico, ancora prima della crisi dell’intero sistema dei partiti del dopoguerra, che passerà alla storia come Tangentopoli, sarà il Pci ad entrare in una crisi che si rivelerà irreversibile.
Già nel 1985 e nel 1989 esponenti della destra del partito avevano ventilato l’ipotesi del cambiamento del nome, la messa in liquidazione della storia del Pci e il definitivo passaggio di campo nella socialdemocrazia. In quegli anni, quello che fu l’ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto, aveva cominciato a far proprie le tesi della Spd tedesca, in particolare l’analisi sociale basata sulla “Società dei due/terzi”, nella quale i ceti medi assumevano un ruolo centrale nel processo di cambiamento sia rispetto al terzo più povero (ormai privo di rappresentanza) sia rispetto al terzo più ricco che si riconosceva pienamente nella controrivoluzione conservatrice e liberista. Per la socialdemocrazia europea, gli stessi movimenti e soggetti della trasformazione sociale non erano più i lavoratori e la classe operaia ma movimenti obiettivamente interclassisti che erano venuti emergendo in quegli anni come quello pacifista, quello ecologista e quello femminista.
Si tratta di un cambio di paradigma non irrilevante e che rimuoveva definitivamente – anche dal Pci ogni ipotesi non solo socialista ma anche anticapitalista.
Nel 1989 uno dopo l’altro Polonia, Ungheria e poi Repubblica Democratica Tedesca – con l’aperta complicità del gruppo dirigente sovietico di Gorbaciov cambiano di segno chiudendo ogni continuità con il socialismo sia a livello di governo che di partiti. Il Pci che sosteneva acriticamente e apertamente la regressione gorbacioviana in Urss, a giugno si schiera apertamente contro la repressione da parte del governo cinese delle proteste prevalentemente filoccidentali e filogorbacioviane in Piazza Tien An Men.
Il 9 novembre 1989 viene aperto il Muro di Berlino e già il 12 novembre alla sezione del Pci della Bolognina, il segretario Occhetto evoca l’aperta rottura con il passato e la possibilità del cambiamento del nome del partito.
Il decennio degli anni Novanta si apre dunque con una situazione interna al PCI completamente nuova e destabilizzante. A pesare indubbiamente sono il contesto internazionale, le modificazioni sociali intervenute nella società (che avevano fatto parlare già negli anni Ottanta di una “mutazione genetica” del partito), e il martellamento ideologico operato da anni dal gruppo editoriale La Repubblica/De Benedetti sull’area del PCI, per una netta liquidazione della sua identità e della sua storia.
Il disorientamento è forte. Militanti di base manifestano sotto Botteghe Oscure (la sede storica della direzione del Pci) contro il cambiamento del nome.
In un contesto così tumultuoso e tormentato per i comunisti dentro e fuori il PCI, l’organizzazione prova a rilanciare il confronto e il dibattito senza rifugiarsi sull’identitarismo, al contrario ritiene che la discussione – salvaguardando l’identità strategica dei comunisti non possa che avvenire a tutto campo.
Sul numero di settembre 1989 di Lotta per la Pace e il Socialismo, in un articolo che invoca l’apertura urgente di un dibattito tra i comunisti, è scritto:“Aprire il dibattito, almeno per noi, non significa rifugiarsi su posizioni residuali e puramente ideologiche che sono tipiche di un pensiero comunista sclerotizzato e di cui in questo momento non abbiamo certamente bisogno. Noi riteniamo invece che bisogna giocare l’attuale partita in campo aperto, accettando di mettere in discussione molti tabù ma avendo anche il coraggio di andare controcorrente (…) Di fronte al movimento comunista si apre una fase di lavoro enorme e difficile. È il caso di domandarsi se la nostra generazione sarà in grado di risolvere i problemi che si sono accumulati. Ma dobbiamo dire che “essere comunisti oggi” significa che sul piano politico e dell’azione pratica, decidiamo di affrontarli nei limiti delle nostre possibilità. Ogni generazione di comunisti in passato ha dovuto affrontare difficoltà enormi. Il successo dei comunisti è dipeso dalla capacità e dalla decisione con cui hanno affrontato i compiti che la fase storica poneva”.
In questo clima viene preparato il XX congresso del Pci previsto per gennaio/febbraio 1991, sarà l’ultimo congresso del partito nato il 21 gennaio del 1921. Il congresso si tiene mentre in Iraq, da pochi giorni, gli Stati Uniti hanno scatenato i bombardamenti, nel quadro della loro più grande operazione militare dalla fine della guerra in Vietnam, e l’URSS è del tutto subalterna all’iniziativa bellica statunitense.
Per lo storico Guido Liguori, lo snodo che porterà alla fine del Pci, alla divisione e alla nascita del Partito Democratico della Sinistra e del Partito della Rifondazione Comunista, era la prospettiva. “Era giusto continuare a tenere aperta questa prospettiva di cambiamento radicale, o il capitalismo era ed è davvero “la fine della storia”? La discussione che impegnò per quindici mesi, dal novembre 1989 al gennaio 1991, i comunisti italiani ebbe tanti aspetti, motivi, parole d’ordine, scelte tattiche, equivoci. Ma infine, se si passa al setaccio la gran mole di materiale allora prodotto, il fondo della questione resta questa”.
Perché non abbiamo aderito a Rifondazione Comunista
Per molti aspetti questa non sarà solo la contraddizione irrisolta nello scioglimento del Pci ma anche quella della nascita del Partito della Rifondazione Comunista, fondato formalmente nel dicembre 1991 dopo dieci mesi in cui era stato Movimento per la Rifondazione Comunista. Al PRC, nel corso del 1991, aderirà ufficialmente, sciogliendosi, l’ultimo partito erede della sinistra alternativa degli anni settanta: Democrazia Proletaria.
Nato con l’enorme aspettativa di un punto di tenuta e organizzazione per migliaia di militanti e di una “rifondazione” dell’ipotesi comunista in Italia – anche sulla base delle osservazioni di Liguori – il Prc, già nelle premesse, non sembra affatto volersi misurare con la sfida che appariva necessaria.
La difesa e il rilancio di una prospettiva generale di cambiamento ispirata al socialismo poteva non sembrare “popolare” in una fase in cui l’anticomunismo e “la fine della storia” apparivano egemoni, ma avrebbe rappresentato un punto di tenuta strategica dentro al quale agire anche sul piano politico a livello nazionale.
In realtà il PRC è stato la continuazione del revisionismo del PCI infatti prevalse quasi subito il politicismo e le furberie di un gruppo dirigente eterogeneo anche se proveniente dallo stesso partito. La stessa scelta di legittimare l’esistenza delle correnti interne al nuovo partito sarà emblematica del progetto che si intende mettere in campo nel paese. In pratica la prospettiva del cambiamento del sistema capitalista dominante verrà via via accantonata – fino a rendersi biodegradabile nella contestazione al “liberismo”dentro la totale prevalenza della tattica, soprattutto di stampo meramente elettoralista.
La dimostrazione più sconcertante di questa fisionomia originaria del Prc sarà quella che, di fatto, è stata “l’assunzione di un manager” alla guida del partito: Fausto Bertinotti. Il dirigente della sinistra Cgil prenderà la tessera del Prc solo nel settembre 1993 ma già a gennaio 1994 (quattro mesi dopo) viene eletto segretario del partito attraverso un accordo interno al gruppo dirigente. Il personaggio è brillante, affabulatore ed eclettico e fino alle elezioni regionali del 1995 ottiene successi, apre confronti, si muove bene e crea aspettative.
La scelta di allearsi con il centro-sinistra – che diventerà poi strutturale nel 1996 e nel 2006 anche sul piano nazionale – strappa però il velo dagli occhi e chiarisce che la leadership di Bertinotti sarà molte cose ma non rivoluzionaria, né alternativa né di classe. Sarà appunto un brillante manager della politica che darà lustro al partito che lo ha assunto… fino a distruggerlo dall’interno con la partecipazione obbediente al secondo governo Prodi (2006-2008).
L’organizzazione nella tempesta
È nel contesto di questi tre anni (1990-1992) di enormi rotture e cambiamenti sul piano storico, sia internazionale e sia interno, che la nostra organizzazione si troverà ad affrontare la sua crisi più grave ma anche la spinta per un suo nuovo progetto strategico.
Sul piano della politica internazionale, l’organizzazione – attraverso la sua rivista “Lotta per la Pace e il Socialismo” già dal 1989 aveva cominciato a mettere sotto accusa il nuovo corso gorbacioviano in Urss intravedendo in esso non un rinnovamento del socialismo (impressione data fino alla convocazione della Conferenza di Organizzazione del PCUS nel 1988) quanto una sua liquidazione.
Durante la visita nel 1989 di Gorbaciov a Cuba nella quale si voleva convincere i cubani a cedere il MPS scende in piazza al corteo contro il quarantesimo anniversario della Nato anche con lo striscione “Fidel tieni duro!”. Un esplicito sostegno al fatto che Fidel Castro e il gruppo dirigente cubano non intendevano affatto seguire il nuovo corso gorbacioviano. Inutile dire che durante la manifestazione molta “sinistra” si fosse risentita per lo striscione antigorbacioviano.
Sarà poi nel convegno internazionale di Barcellona (“Le ragioni del socialismo”, ottobre 1990) organizzato dal Partito Comunista di Catalogna, che l’intervento del MPS sarà esplicito e durissimo contro Gorbaciov e i gorbacioviani. Si scatena la discussione, con e nelle altre delegazioni, in particolare anche con la delegazione italiana dell’area della ex Interstampa che era più possibilista sulla funzione e sul nuovo corso gorbacioviano.
Nella prima metà del 1990 nelle università riparte un movimento di contestazione della riforma universitaria, conosciuto come il Movimento della Pantera. A darne la definizione – che verrà accettata però dal movimento – non saranno le assemblee ma il giornale La Repubblica con una operazione di egemonia che non gli era riuscita con il movimento del ’77. Il movimento si definisce come “democratico, non violento, antifascista” e in esso ebbe un peso rilevante anche l’organizzazione giovanile del PCI (la FGCI) pronta ad accettare gli emendamenti alla riforma universitaria. Questa posizione venne combattuta dall’area più radicale del movimento – molti dei quali animeranno l’esperienza dei centri sociali che già nella primavera del 1990 iniziò però a rifluire. In alcune università e facoltà fu la polizia a sgomberare, in altre lo decisero gli studenti. In alcuni ambiti universitari rimasero alcuni spazi autogestiti (le famose aulette).
Né come MPS né come Radio Proletaria l’organizzazione in quegli anni aveva un insediamento sociale studentesco adeguato per cui si trovò marginalizzata rispetto alla “Pantera”. Non è secondario sottolineare come da questo movimento emergeranno molti di quelli che saranno i dirigenti della fase bertinottiana del PRC.
Il giudizio egemone nel movimento della Pantera sui paesi del socialismo reale, che cadevano come birilli cambiando pelle, è che si tratta di trasformazioni positive. Una valutazione decisamente opposta a quella della nostra organizzazione.
In questo contesto i compagni più giovani dell’organizzazione vanno in sofferenza e durante il 1990 decidono, in larga parte, di uscirne. Alcuni di essi daranno vita al centro sociale Corto Circuito e negli anni successivi al movimento delle Tute Bianche e ad Action.
A dicembre del 1990 Radio Proletaria cambia nome e diventa Radio Città Aperta cercando di ridefinire anche la propria funzione di aggregazione e orientamento verso una sinistra (incluso il Pci) ormai completamente disorientata.
Di fronte ad un cambiamento politico epocale e alla dissoluzione dell’URSS, si verifica una seria crisi politica dentro l’organizzazione tra chi sostiene sostanzialmente una risposta fideista dei comunisti alla crisi e chi, più attento all’insediamento sociale dell’organizzazione, ritiene invece di dover aprire un dibattito a tutto campo sul ruolo dei comunisti alla fine del XX Secolo.
Ma lo scontro avviene anche sul come gestire l’organizzazione in questa fase di crisi storica: se cioè liberarsi dei compagni più tentennanti ritenuti piombo sulle ali o invece affrontare tutti i necessari passaggi critici che si andavano delineando, ma con tutti i compagni. Si arriva così alla rottura definitiva e all’esaurimento fattuale dell’esperienza dell’OPR (con le sue espressioni politiche e sociali successive come la Lista di Lotta e il MPS).
La crisi dell’OPR avviene dunque in un contesto storico e politico estremamente pesante per i comunisti in tutto il mondo. Eppure sul piano della soggettività l’organizzazione si trovava in un momento complesso ma in crescita, soprattutto sul piano del suo insediamento sociale.
La Lista di Lotta aveva aperto sedi in moltissimi quartieri popolari, soprattutto lì dove erano state assegnate le case alle famiglie delle grandi occupazioni abitative degli anni precedenti. I servizi legali popolari proliferavano coinvolgendo decine di giovani avvocati che si mettevano a disposizione dei proletari nei quartieri.
Le elezioni comunali del 1989, con l’alleanza con i Verdi, vedevano entrare nel 1990 in consiglio comunale un compagno della Lista di Lotta e consiglieri nei vari municipi delle zone popolari della città.
Veniva creata la Consulta per la città come struttura ampia che coinvolgeva anche soggetti diversi da quelli già socialmente organizzati nella Lista di Lotta.
Questa crescita di sedimentazione sociale e politica nella città intercettava e si connetteva profondamente anche con la crisi del Pci, soprattutto nel suo rapporto con i settori popolari.
Le RdB cominciavano a farsi largo a gomitate sul piano delle libertà e dell’agibilità sindacale. Gli scontri tra lavoratori pubblici, Vigili del Fuoco e polizia sotto Palazzo Vidoni del dicembre 1989, proprio sulla questione della democrazia sindacale nel settore pubblico, avevano aperto con forza una partita che sembrava impossibile da giocare e da vincere. Veniva posto un problema che riguardava l’agibilità sindacale anche per altri settori come la scuola (dove i Cobas erano cresciuti moltissimo) e i ferrovieri, soprattutto il COMU (macchinisti).
Nel 1990 si tiene all’università di Roma una prima assemblea unitaria di tutte le realtà sindacali di base, che promuoverà una manifestazione in piazza SS Apostoli che sarà duramente attaccata da Cgil Cisl Uil, timorosi che il loro monopolio della rappresentanza sindacale cominciasse ad essere messo in discussione dalle organizzazioni sindacali di base. Inizia l’interlocuzione con Piergiorgio Tiboni e i sindacalisti della Fim Cisl lombardi espulsi da quel sindacato per le loro posizioni radicali, con i quali a breve si darà vita alla CUB. Radio Proletaria, diventata nel 1990 Radio Città Aperta, coglieva, rappresentava e amplificava con successo questa connessione sentimentale tra lotte sociali, istanze popolari e ricomposizione del “popolo della sinistra” in una fase di grande sbandamento.
La rivista Lotta per la Pace e il Socialismo, dando vita anche al Centro Ricerche Sociali, era diventata una rivista di approfondimento e di qualità, che supportava sul piano dell’analisi internazionale e strategica il lavoro sul piano politico/sociale.
La crisi interna dell’organizzazione, nel, 1991 si manifesta dunque non a causa degli insuccessi ma, paradossalmente, in una fase di forte espansione. Certo questa crescita conviveva anche con il rischio della settorializzazione dell’intervento sociale e sindacale proprio mentre dalla situazione generale venivano segnali devastanti per i comunisti.
Nel maggio del ’91 il MPS tenta di rilanciare con “Progetto Sinistra” una proposta che tentava di delineare una prospettiva diversa e comunque un tentativo di dialettizzarsi con i militanti della rifondazione in atto, ovviamente mettendo in chiaro il pensiero del Movimento per la Pace e il Socialismo sui caratteri del nuovo partito che non convincevano. Nell’opuscolo di “Progetto Sinistra” si spiegano le motivazioni dello scetticismo sul Movimento per la Rifondazione Comunista (che diventerà PRC nel 1992), sottoponendo ad una critica serrata il politicismo di cui i suoi gruppi dirigenti erano espressione e che renderanno quella esperienza già segnata in partenza: “Il problema sono i danni anche sul piano teorico che produce questo ceto politico neocomunista. Infatti le questioni connesse alla dimensione istituzionale, alla cultura, ai comportamenti, hanno assunto un peso sempre più crescente nell’elaborazione e nel dibattito marxista in Italia – è scritto nell’opuscolo del MPS – la sovrastruttura è passata in primo piano e sono state poste in liquidazione l’analisi sulla composizione, le esigenze e l’autonomia di classe in un paese a capitalismo avanzato come l’Italia”.
Ma è stato proprio sul come affrontare un tornante estremamente critico per il movimento comunista salvaguardando però e non buttando a mare il radicamento sociale dell’organizzazione che si è generata la divisione interna.
In altre organizzazioni questa crisi sarebbe stata definitiva, anche perché sullo scenario incubava la nascita del Partito della Rifondazione Comunista che riempiva tutto lo spazio politico per una ipotesi di tenuta dei comunisti in Italia.
È dunque in un contesto internazionale caratterizzato dalla dissoluzione dell’URSS, dalla crisi del movimento comunista e dalla nascita di Rifondazione Comunista da una costola del disciolto partito, che l’organizzazione si trova a decidere come tenere la barra dritta senza buttare a mare un insediamento sociale e sindacale conquistato e rafforzato negli anni.
La divaricazione sul come affrontare questa fase, porta alla rottura interna nel settembre del 1991. Una minoranza di compagni, tra cui quello che disponeva di maggiore esperienza e autorevolezza, sceglierà la strada che oggi potremmo definire più identitaria. La maggioranza decide invece di apprestarsi ad affrontare quella che un compagno ha definito “una traversata del deserto” cercando di non perdere militanti e radicamento sociale e – contemporaneamente – di mettere mano alla ricostruzione di un’ipotesi comunista rivoluzionaria nel nostro paese. La “traversata” sarà resa più difficile non solo dagli inevitabili strascichi politici, umani, internazionali della rottura interna ma anche dal fatto che si trattava di ridefinire un’ipotesi politica generale nel momento in cui gran parte dei comunisti in Italia confluivano dentro il PRC. Nei fatti la divaricazione non aveva un carattere strategico e la prospettiva comunista veniva mantenuta, quello che divideva era la gestione di una fase particolarmente difficile e complessa a causa della cesura storica prodotta dalla dissoluzione dell’URSS.
Sarà ancora una volta la realtà a spingere in avanti il processo di tenuta e ricostruzione che i compagni dell’organizzazione – ormai senza una sigla pubblica a definirla come tale – rimettono in moto.
Il 1992 è l’anno della dissoluzione della classe politica della Prima Repubblica (Tangentopoli) ma è anche l’anno della crisi del Sistema Monetario Europeo. La risposta delle classi dominanti in Italia è quella di ricorrere pesantemente al vincolo esterno (era stato firmato da poco il Trattato di Maastricht) e di scatenare un’offensiva a tutto campo contro le conquiste e i diritti dei lavoratori.
Con la legge finanziaria del 1992 – governo Amato – viene avviata la stagione delle “lacrime e sangue” e dell’austerity: privatizzazioni di banche, industrie, reti pubbliche dell’energia, telecomunicazioni, trasporti; imposte sulle abitazioni; tagli alle spese sociali; eliminazione definitiva della scala mobile dalle retribuzioni; attacco al salario diretto, indiretto e differito. Inizia il massacro sociale che dura fino ai nostri giorni e che definire solo austerity è un puro palliativo.
Cgil Cisl Uil accettano totalmente la logica delle lacrime e sangue. Nelle piazze dei metalmeccanici volano i bulloni contro i comizi dei dirigenti sindacali. A Roma per la prima volta sfilano migliaia di lavoratori in corteo, chiamati dai sindacati di base ad una manifestazione nazionale. È un passaggio significativo di una nuova fase per il sindacalismo di base.
Si comprende che la posta in gioco ormai è altissima e che il nemico di classe intende prendersi la sua vendetta contro il movimento operaio. Un elemento decisivo di questa offensiva è e sarà il “vincolo esterno” cioè l’integrazione dell’Italia nell’Unione Europea. Una garanzia per le classi dominanti, un nemico mortale per le classi lavoratrici.
Fuori dal gorgo
Il 1991 è stato indubbiamente l’anno più difficile in quanto la crisi interna ci ha costretto al ripiegamento sulla contingenza e sulla tenuta dell’organizzazione. In realtà non c’è stato solo questo, infatti in quell’autunno si posero le basi per il rilancio sul piano sindacale tessendo i rapporti direttamente con Tiboni e la sua corrente cislina che portò quella componente sindacale a scegliere il sindacalismo di base piuttosto che il sindacalismo autonomo, opzione che all’epoca era sul tavolo.
Il ’92 è stato, invece, l’anno della ridefinizione di una prospettiva cercando di riannodare i fili che erano stati recisi dalla crisi. La prima necessità che si è posta è stata di ricalibrare le relazioni interne all’organizzazione.
Negli anni precedenti le relazioni erano determinate da una forte competizione con gli altri gruppi della sinistra che rendeva necessaria un forte coesione interna. Ora quella dimensione veniva meno; lo spessore dei problemi che si presentavano mettevano in primo piano i nodi strategici e dunque la necessità di riorientare il lavoro politico e tutti i militanti, ricostruendo una strategia convincente con la coscienza che i tempi per arrivarci non sarebbero stati brevi.
Tra il gennaio del 1992 e quello dell’anno successivo furono elaborati tre documenti che si ponevano l’obiettivo di cominciare a ridefinire una strategia a partire dal quadro internazionale, completamente modificato, al quale si aggiungevano le veloci evoluzioni della situazione interna al paese che in quell’anno vedeva le elezioni politiche, la crisi dei partiti di governo dopo quella del PCI, l’avvio di Tangentopoli e la pesantissima finanziaria del governo Amato. Riportiamo un passo introduttivo del primo documento del gennaio ’92:
“Le difficoltà attuali sono sotto gli occhi di tutti, dunque per una piccola organizzazione come la nostra si pongono ora due strade da imboccare.
La prima è quella di un gruppo di compagni organizzati in varie strutture che hanno indubbiamente una credibilità, che si collocano all’interno della sinistra senza porsi almeno ora grossi problemi strategici…
L’altra è quella di continuare a lavorare su un progetto politico…
La scelta di continuare su un progetto politico deve basarsi sulla coscienza di alcuni elementi centrali:
- Il lavoro che dobbiamo fare deve misurarsi con problemi e tempi che hanno una dimensione storica.
- Affrontare tali problemi significa acquisire capacità di riflessione politica e di “saggezza” nell’agire pratico che complessivamente non abbiamo e che dobbiamo assumere collettivamente, nessuno escluso.
- Una scelta come questa non può basarsi sul lavoro politico di alcuni compagni e su quello pratico del resto…
- La nostra è stata sempre un’organizzazione di “combattimento” cioè di lotta, questa caratteristica ci ha permesso di avere sempre la sufficiente aggressività per affrontare problemi spesso più grandi di noi. Inoltre in un momento in cui i problemi sono enormi ed i tempi lunghi, corriamo il rischio che i compagni si adagino su queste difficoltà facendo emergere fenomeni di “burocratismo” o di atteggiamenti da normale amministrazione.
Quest’ultimo periodo faceva riferimento ad una “coda” della crisi dell’anno precedente però di segno politico opposto, infatti mentre si lavora alla resistenza sociale e sindacale, importante fu la prima manifestazione sindacale nazionale della CUB il 2 ottobre 1992, per rispondere all’offensiva antipopolare scatenata in nome del rispetto dei vincoli imposti dal Patto di Stabilità europeo, l’organizzazione attraversa un intenso momento di dibattito politico interno. Alcuni compagni ritengono che l’esperienza dei comunisti sia in via di esaurimento e vadano individuati nuovi percorsi, in particolare rafforzando le relazioni coi verdi, altri compagni ritengono che la partita non sia affatto chiusa e che il bambino non vada buttato via insieme all’acqua sporca. Si decide di dotarsi di un giornale che possa rappresentare uno strumento di espressione politica del progetto di ricostruzione dell’organizzazione e di un’ipotesi comunista in Italia.
Tra il ’91 e ’93, insomma, l’organizzazione viene sottoposta ad un violento “testa coda” che comincia ad essere superato proprio con la nascita, ad aprile 1993, del giornale Contropiano. Il numero zero fa già capire che sarà un giornale a tutto tondo misurandosi con l’attualità politica ma anche con l’approfondimento analitico e l’inchiesta. Il giornale agirà il suo ruolo parallelamente a Radio Città Aperta, ma proprio perché “verba volant scripta manent”, avere un giornale significa molto spesso rendere le parole efficaci come pietre.
Nell’editoriale del numero zero, Contropiano ammette esplicitamente che “L’incubazione di questo giornale è stata piuttosto lunga ed è passata attraverso le diverse vicissitudini di un’area politica della sinistra di classe assai sensibile a quanto accaduto in questi anni sul piano interno ed internazionale (…) In questi anni, i compagni che animano Contropiano hanno condotto una critica serrata al ceto politico che egemonizza gli ambiti tradizionali della sinistra italiana e al politicismo che ne impregna l’analisi e l’azione politica”. Insomma una dichiarazione che, nonostante tutto, il progetto intorno a cui si sta lavorando andrà controcorrente e non farà sconti a nessuno.
Contropiano individua nell’operazione Tangentopoli un progetto di ricambio forzoso della classe dirigente della Prima Repubblica e l’apertura dello scontro tra due destre: quella più legata al mercato interno e al capitalismo molecolare italiano (che verrà poi incarnata da Berlusconi) e quella europeista legata al capitalismo più internazionalizzato, che guarda più al mercato mondiale e sceglie di annichilire il mercato interno (abbassando salari, consumi e investimenti), ma soprattutto proiettato all’integrazione europea (rappresentata da Prodi e dall’alleanza tra liberali e quello che diventerà il Pd). La prima guarda ancora all’interlocuzione privilegiata con gli Stati Uniti, la seconda all’Unione Europea. Dentro questa contrapposizione interviene infine un terzo soggetto – la Lega di Bossi – che agirà per tutto un periodo come una variabile indipendente, facendo ballare il primo governo Berlusconi per poi scegliere di diventare azionista di minoranza – localizzato nel Nord di questo blocco di destra Entrambe le destre convergono su molti punti: privatizzazioni, adesione alla Nato, deregulation del mercato del lavoro, liberismo. Le divergenze spesso coincidono più con gli interessi di due gruppi editoriali/finanziari in competizione tra loro come Fininvest e De Benedetti/La Repubblica che su tematiche politiche di fondo. Ma, come detto precedentemente, corrispondono anche a settori di borghesia diversa: quella che teme di perdere molto (e così sarà) dall’internazionalizzazione del sistema produttivo/distributivo a discapito del mercato interno, e quella che invece pensa che avrà tutto da guadagnare dal modello mercantilista imposto dalla Germania a tutta l’Unione Europea.
Le due destre, anche grazie alle riforme istituzionali ed elettorali dei primi anni Novanta, che introducono un bipolarismo blindato, si contenderanno il paese dal 1994 al 2011, quando il pilota automatico – ossia la Bce di Draghi e Trichet – deporrà Berlusconi e prenderà in pugno la normalizzazione europeista del paese.
Ma l’editoriale del numero zero è anche una dichiarazione di distanza strategica con la sinistra e i neocomunisti del Prc. In sostanza, scrive Contropiano, “non vogliamo morire ingraiani” e ci adopereremo affinché un’ipotesi comunista in Italia venga portata fuori dalle secche del politicismo in cui appare imbrigliata.
La subalternità della sinistra e del Prc alla trappola dell’antiberlusconismo e quindi alla destra europeista, verrà bastonata sistematicamente dalle pagine di Contropiano che, analogamente alla tesi delle “due destre”, avanza anche la necessità delle “due sinistre” ben separate tra loro: quella che si coagula intorno all’Ulivo e ai governi Prodi e quella antagonista che dovrebbe agire in piena indipendenza e senza fare sconti alla prima.
Ma la scelta dell’organizzazione di dotarsi di uno strumento come Contropiano e quindi di una fisionomia politica più definita, non significa arroccamento settario, al contrario. Nelle elezioni comunali di Roma del 1993 l’organizzazione decide di partecipare nella lista “Liberare Roma” che, insieme al Prc, sosteneva come candidato sindaco Nicolini in rotta con i Democratici di Sinistra e candidato alternativo a Rutelli (sostenuto dal PDS) e al candidato neofascista Fini.
Al ballottaggio, con un piccolo margine, vincerà Rutelli sostenuto dal voto antifascista e, in quel caso, anche dai nostri voti. Ma solo due mesi dopo la sua elezione, il sindaco Rutelli dà il via libera al violentissimo sgombero poliziesco della grande occupazione di case fatta con 500 famiglie in via del Tintoretto realizzata nei mesi precedenti dalla nostra organizzazione. Lo sgombero è violento e Rutelli lo legittima pienamente. Sarà una lezione per il futuro. Ai ballottaggi o alle elezioni nessun ricatto sul voto utile e antifascista sarà mai più accettato.
Per dare corpo e tesi al processo di ricostruzione dell’organizzazione e di un punto di vista comunista, nel 1994 viene dato alle stampe da Contropiano il libro “Le ragioni dei comunisti oggi. Tra passato e futuro” Nel libro si cerca di individuare un’analisi e una strategia generale per un’organizzazione comunista in Italia nella nuova fase storica apertasi dopo la fine del campo socialista.
Il libro contiene un’ampia analisi della dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’individuazione dei nodi di crisi irrisolti del sistema capitalista e di quelli che già si vanno delineando nonostante la vittoria nella guerra Fredda, c’è un focus sul tendenziale ruolo imperialista dell’Europa diventata Unione Europea, c’è una critica serrata all’ipoteca del neocomunismo (ascrivibile al giornale Il manifesto, al PRC ed a varia intellettualità comunista) sulla rimessa in campo di un’ipotesi comunista rivoluzionaria, c’è l’apertura di una ragionamento sui caratteri dell’organizzazione dei comunisti nella nuova fase storica che accenna a quella che sarà la teoria dei “Tre fronti” Coerentemente alla tesi sulla necessità che nella situazione italiana agisca e si palesi la divaricazione tra “le due sinistre”, insieme ai Cobas e a settori dissidenti del PRC, si dà vita alla “Convenzione della Sinistra Anticapitalista”. Una sorta di fronte politico e di massa a cavallo tra sindacati di base e organizzazioni/associazioni della sinistra antagonista. Che promuoverà il 25 Aprile del 1994 una partecipatissima manifestazione a Roma contro il nuovo governo Berlusconi in alternativa alla manifestazione di Milano, sempre del 25 Aprile, promossa dal Manifesto, dai partiti e associazioni legati al PDS e PRC.
Il tentativo di dare vita alla Convenzione della Sinistra Anticapitalista viene indicato come un significativo passo in avanti perché “introduce una variabile politica e di classe indipendente nelle prospettive della sinistra italiana, e dunque indipendente anche dal polo progressista e dai vecchi e nuovi manovratori”.
Il documento con cui la Convenzione della Sinistra Anticapitalista chiama alla sua prima assemblea nazionale il 25 e 26 giugno 1994, scrive che le ambizioni di questo percorso sono “la messa in campo di una sinistra che recuperi pienamente la rappresentanza dei settori di classe e l’obiettivo di costruire un’ampia alleanza, un fronte comune che, mantenendo ogni identità organizzativa e le proprie caratteristiche, permetta l’elaborazione di piattaforme e programmi comuni e il più ampio arco di forze per realizzarli e vincere”.
Comprensibile come tale percorso suscitasse più di qualche nervosismo dentro Rifondazione Comunista impegnata invece a costruire il suo rapporto di “desistenza” con quello che sarà poi il centro-sinistra dell’Ulivo, di Prodi etc.
L’intervento sull’attualità politica, però,proprio per evitare il politicismo, non può rimuovere il dato strategico e la ridefinizione di un punto di vista generale dei comunisti sulla crisi, la fase storica e la composizione di classe del paese nel quale agiscono concretamente.
Nel 1995 Contropiano lancia la proposta della costruzione del Forum dei Comunisti e convoca un dibattito a tutto campo alla Casa delle Culture di Roma (da Preve a Savio, dai trotskisti a Pala).
Nel documento di convocazione del primo Forum dei Comunisti, si riconosce che il movimento comunista dei primi anni Novanta è debole, molto meno omogeneo e organizzato di quanto fosse negli anni passati. Ma c’è anche il senso della storia nel confronto/scontro con il nemico di classe. “Una domanda si aggira per l’Europa. Chi ha paura dei comunisti? Dati più volte come liquidati, condannati dalla storia di questi ultimi anni, vittime e carnefici di una ideologia “sbagliata”, i comunisti inquietano ancora i sonni, i progetti e le prospettive politiche di governi, borghesie, trasformisti di ogni tipo (…) Dunque chi ha ancora paura dei comunisti e perché?”. Nel documento si chiarisce che l’obiettivo del Forum dei Comunisti è quello di creare “una condizione di confronto a livello teorico ed ideologico che, senza forzare troppo sulle realtà dei compagni, mantenga una continuità, una stabilità e uno stimolo che permetta un effettivo confronto”. Nella relazione introduttiva ai lavori, viene chiarito che: “Riteniamo che la costituzione di un Forum dei comunisti oggi non può porsi direttamente la questione della costituzione di una organizzazione politica. Il primo passo è un terreno che riteniamo inesplorato da molti decenni, ed è quello della teoria, quello della ricostruzione di un punto di vista che parta dall’alto della conoscenza generale dei rapporti tra tutte le classi. In altre parole significa avere la forza e il coraggio di ribadire la necessità del comunismo non in termini aprioristici ma portando alla luce le dinamiche reali di fondo del capitalismo odierno”.
Come facilmente prevedibile un forum con queste caratteristiche non poteva non presentare sia spunti interessanti che momenti di puro delirio. Di tutta la varia umanità che, con maggiore o minore serietà, prende la parola nel forum, non resterà molto. Ma il dato è tratto.
Il dibattito e l’analisi sull’imperialismo
Nell’estate del 1995 il Forum dei Comunisti nell’ambito del Meeting Internazionale per la pace e la solidarietà tra i popoli, convoca un convegno internazionale di due giorni sull’imperialismo. Gli atti diventeranno un libro importante – “Il Capitalismo reale. Usa, Germania, Giappone i protagonisti del nuovo disordine mondiale” per la ricostruzione di un punto di vista generale dei comunisti sull’imperialismo del XXI Secolo.
L’analisi è ancora centrata su una visione di rimando, ossia tre Stati imperialisti di dimensioni e potere molto diversi – Stati Uniti, Germania, Giappone – e con una sostanziale primazia statunitense. In sostanza una visione ereditata dai decenni precedenti.
Nella relazione introduttiva al Forum internazionale sull’imperialismo alla fine del XX Secolo del luglio 1995, il Forum dei Comunisti cerca di mettere mano “all’attualità e tendenze dell’imperialismo nella crisi di fine secolo”. Al Forum partecipano compagni da Stati Uniti, Messico, Filippine, Cuba, Germania, Grecia, Brasile. Si consolidano le relazioni con studiosi marxisti in Italia e all’estero.
Nell’introduzione si parte da una affermazione e da due domande. L’affermazione è il voler verificare la validità e l’attualità che “il saggio popolare di Lenin” mantiene ottanta anni dopo la sua pubblicazione. Una delle domande è se l’analisi leniniana dell’imperialismo sia utile per comprendere il passato e il futuro. La seconda è “se il modello capitalista possieda ancora dei margini di sviluppo “pacifico” oppure se la crisi di questo modello cominci a riprodurre i suoi meccanismi distruttivi e irrazionali”.
Nella relazione introduttiva si intuiscono, seppur in modo ancora approssimativo, tendenze come il declino del dollaro e la costituzione di aree monetarie diverse, la guerra “tra e nei”nuovi blocchi economici nascenti come il Nafta, l’Unione Europea, l’Apec, la differenza tra “Stati disgreganti e Stati disgregati”, il valore dell’internazionalismo nell’epoca dell’imperialismo. In tal senso viene ribadito il sostegno con ogni mezzo e con estremo realismo alla resistenza di paesi come Cuba e Corea del Nord che non hanno rinunciato a difendere l’esperienza socialista.
La conclusione è che “la lotta contro l’imperialismo alla fine del XX Secolo mette tutti noi, in ogni angolo del pianeta, nella condizione di accettare la sfida per una alternativa politica e sociale capace di portare l’umanità al di sopra del limite raggiunto dal modo di produzione capitalista”.
Nel dibattito apertosi già con il libro del 1994 – “Le ragioni dei comunisti oggi” – l’organizzazione comincia invece a ragionare sulle tendenze che si intravedono scuotere il sistema mondiale. E i fatti confermeranno questo approccio rispetto a quelli residuali per cui tutto è sempre come prima, cioè solo l’imperialismo americano, o a quelli postmoderni che si vanno affacciando (vedi le tesi su “L’impero” di Negri e Hardt). Contro queste due posizioni l’organizzazione apre una polemica politica frontale che però giungerà ad un’analisi teorica e ad una sintesi soddisfacente solo nel 2003 con il forum e il libro “Il piano inclinato del capitale”. Ragionare sulle tendenze e non sulla fotografia che si ha davanti agli occhi, sarà e rimane una prerogativa del metodo e dell’approccio dell’organizzazione. Se ancora nel 1996 si ragionava su un sistema capitalista mondiale incentrato su Stati Uniti, Germania e Giappone, in realtà già si individuava come quell’assetto non potesse reggere più dopo la fine della Guerra Fredda e il dilagare della finanziarizzazione dell’economia capitalista come risposta alla crisi di accumulazione manifestatasi già negli anni ’70.
Nel 1997 ad esempio il Giappone viene colpito e affondato dalla crisi finanziaria che investirà tutta l’Asia. Le ambizioni del Giappone – anche nei confronti degli USA – vengono dunque bruscamente ridimensionate e il paese non uscirà più da quella recessione che lo confina tra gli stati a capitalismo avanzato ma subalterni, come la Corea del Sud.
L’Europa nel frattempo è diventata Unione Europea. Il processo di integrazione economica del capitalismo europeo dopo il Trattato di Maastricht marcia con passo spedito nonostante le contraddizioni interne. Il passo decisivo – l’introduzione della moneta unica europea – è ancora al di là da venire ma la tendenza è ormai ben definita ed anche la data è stata fissata: il 2000. Negli Stati Uniti comprendono bene la minaccia e più volte – utilizzando soprattutto la Gran Bretagna – cercheranno di ostacolare questo processo di sganciamento dell’area europea dal dollaro.
Alla fine del 1995 l’organizzazione ha definito ormai chiaramente che dentro la gabbia dell’Unione Europea per gli interessi popolari e di classe non vi è e non vi sarà alcuno spazio, al contrario.
Il numero di novembre ’95 di Contropiano apre la prima pagina con un titolo esplicito: “Via da Maastricht. Portare l’Italia fuori dalla garrota dell’Unione Europea”. Ed ancora: “I criteri di convergenza previsti dal Trattato di Maastricht comportano un costo sociale elevatissimo e antipopolare. Nell’epoca dei poteri sovranazionali, i mercati finanziari e la Bundesbank continuano a fare a pezzi i diritti sociali, sindacali, politici dei lavoratori, delle donne e dei disoccupati europei. Per questo occorre uscire dall’Unione Europea e dai suoi vincoli”.
Si tratta della esplicitazione di un punto di vista di rottura con la gran parte della sinistra nell’analisi sull’Europa e dell’individuazione dell’uscita dalla Ue come asse strategico per un movimento di classe nel nostro e negli altri paesi europei.
L’organizzazione ancora non parla di un polo imperialista europeo maturo ma ne indica le ambizioni e la tendenza alla concentrazione/gerarchizzazione. Occorrerà attendere il 1998 per un primo forum internazionale della Rete dei Comunisti che espliciterà l’analisi e il confronto su natura e struttura del polo imperialista europeo.
La composizione di classe e l’inchiesta sul campo
Fu proprio dalla riflessione sul punto più alto della contraddizione – l’imperialismo – che prende spunto nel 1997 il progetto e il confronto sulla composizione di classe in un paese come l’Italia, ormai integrato in uno dei poli imperialisti quello europeo. Nei punti alti dello sviluppo capitalistico, quello che Lenin definisce come “stadio supremo del capitalismo” e quindi imperialismo, la disaggregazione della classe operaia ha agito in profondità sia sul piano del lavoro che su quello della coscienza.
Nel luglio del ’96 il Forum dei Comunisti convoca un incontro nazionale dedicato a “La lotta di classe nell’epoca dell’accumulazione flessibile. Soggettività, composizione e inchiesta di classe”. Il forum mette a fuoco le dinamiche che hanno agito nella disgregazione del blocco sociale antagonista. C’è grande attenzione alla delocalizzazione produttiva avviatasi proprio a metà degli anni Novanta dall’Italia verso i paesi dell’Europa dell’Est; al Meridione che Prodi definiva come la “nuova Florida”(sic!) mentre stava diventando una nuova Taiwan, ossia una zona a bassi salari; alla accresciuta funzione coercitiva dello Stato; alla crescente polarizzazione di classe con settori di ceti medi spinti verso la proletarizzazione.
Ma le modifiche intervenute nel corpo di classe, ne condizionano anche la soggettività ossia la coscienza. “Per indagare questa nuova composizione di classe, la sua soggettività, la sua disponibilità al conflitto sociale e collettivo come strumento di emancipazione, l’organizzazione ritiene che sia decisivo il metodo dell’inchiesta di classe intesa come aspetto fisiologico e necessario della lotta politica”.
Il peso della sconfitta del movimento comunista internazionale nel triennio 1989-1991, le innovazioni tecnologiche, la riorganizzazione produttiva e la riforma della contrattazione, l’offensiva ideologica del capitale hanno prodotto cambiamenti profondi nella classe, tornata ad essere “in se” ma non “per se”. Si avverte però anche la mancanza di una soggettività capace di invertire la tendenza, sia nella classe che come avanguardia che rimetta in moto una prospettiva di cambiamento.
Questo confronto animato dal Forum dei Comunisti produrrà le tesi ed i materiali per un’ inchiesta di classe tra i lavoratori in Italia che sfocerà nella pubblicazione de “La coscienza di Cipputi” con i risultati dell’inchiesta. Trenta anni dopo i “Quaderni Rossi” di Raniero Panzieri, il tema dell’inchiesta torna così nell’agenda politica dei comunisti in Italia.
L’eco di questo progetto in qualche modo arriva anche dentro il Prc, dove Bertinotti sempre abile nelle suggestioni, evoca la necessità dell’inchiesta chiamando a raccolta studiosi ed esperti anche validi (uno tra tutti Vittorio Rieser). Ma anche qui la differenza balza agli occhi. Per il Prc di Bertinotti l’inchiesta è, appunto, una suggestione da gettare negli occhi della sua area elettorale, per l’organizzazione l’inchiesta di classe è una necessità funzionale e decisiva per reimpostare e dare spessore al lavoro sindacale e politico.
Sull’inchiesta la discussione sarà anche piuttosto articolata tra i compagni dell’organizzazione e gli studiosi chiamati a collaborare (da Filippo Viola a Luciano Vasapollo, da Rita Martufi a Leonardo Tomassetta). Il primo snodo da superare fu infatti se limitare lo studio ad una decostruzione ragionata sui dati resi già disponibili da fonti ufficiali o se all’analisi generale occorresse affiancare l’inchiesta sul campo cioè la diffusione, la raccolta e la gestione di questionari tra lavoratrici e lavoratori, individuando le aree produttive strategiche, ossia i settori che avrebbero avuto una possibilità di sopravvivenza nella riorganizzazione del sistema economico integrato con la UE e non i settori in declino e destinati a soccombere nel nuovo regime di competizione globale.
I questionari elaborati per l’inchiesta non serviranno solo a registrare le condizioni materiali dei lavoratori (salario, occupazione, tipo di abitazione etc.) ma anche la soggettività cioè la loro percezione sui processi in corso (privatizzazioni, introduzione della flessibilità, integrazione europea etc.). L’organizzazione scelse questa seconda strada.
Il confronto sull’inchiesta, partito nel 1997 e discusso fin nei dettagli delle domande da sottoporre, si concluderà due anni dopo con la gestione del questionario tra oltre un migliaio di lavoratori in tutta Italia. E i risultati di ritorno offriranno la diagnosi più completa e rilevante di quella che è la soggettività di classe di lavoratrici e lavoratori alla fine degli anni ’90.
L’inchiesta di classe e i suoi risultati non rimasero però solo nell’ambito politico/teorico ma diventeranno un’indicazione di lavoro anche per le RdB, le quali cominceranno a ridisegnare il progetto e la stessa organizzazione sindacale sulla base delle indicazioni prodotte dall’inchiesta.
Ma se sul piano dell’analisi l’organizzazione concentra la sua attenzione sull’imperialismo verso il nuovo secolo e sulle modifiche nella composizione di classe nel paese in cui è chiamata ad agire, sul piano politico vanno maturando nuovi passaggi.
La Rappresentanza Politica
Già dai documenti del ‘92/’93 si era cominciato a riflettere su quello che sarà poi definito il “terzo fronte” ovvero quello della rappresentanza politica. Negli anni successivi, coerentemente con la nostra elaborazione ma clamorosamente in controtendenza, si fecero vari tentativi per tradurre nella pratica quel fronte del conflitto di classe.
Disponendo a Roma una base di massa minima ma consolidata, nel marzo del ‘97 viene avanzata anche a settori del PRC cittadino e ad altre strutture reduci della “Convenzione della Sinistra Anticapitalista”, la proposta di dare vita all’Unione Popolare come strumento intermedio tra il politico ed il sociale e come primo passo di un processo aggregativo. Naturalmente le risposte furono diplomatiche ma sostanzialmente negative per cui la costruzione dell’Unione Popolare si basò essenzialmente sui settori sociali della ex Lista di Lotta.
Con un’assemblea a marzo del 1997, viene costituita l’Unione Popolare. L’obiettivo è ridare “rappresentanza politica ai ceti popolari colpiti dal liberismo, dalla competitività e dal mercato”.Non solo, l’Unione Popolare dichiara già fin dalla sua costituzione che è “apertamente nemica del Trattato di Maastricht e dell’Unione Monetaria Europea e contro di essi intende promuovere l’iniziativa popolare nel nostro paese”.
L’obiettivo dell’Unione Popolare è “colmare la mancanza di iniziativa antagonista e di classe da parte di tutte le forze politiche, anche quelle a sinistra, prigioniere dell’elettoralismo e del politicismo che le rende aliene ai settori popolari della nostra società”.
Con Rifondazione Comunista che copre tutti gli spazi a sinistra, l’Unione Popolare intende invece confermare “l’autonomia di classe e la rappresentanza politica al di fuori dei ricatti elettoralisti, dei compromessi e delle eterne trattative che sviliscono le forze antagoniste e riconducono tutte le spinte alla trasformazione sul binario del meno peggio” con il risultato di deprimere e incatenare la classe lavoratrici e i settori popolari”.
L’editoriale di Contropiano di aprile 1998 (C’è lo spazio per una ipotesi comunista), traccia una linea definitiva verso il PRC di Bertinotti del quale si indica ormai la fine di qualsiasi spinta propulsiva alla rifondazione di una ipotesi comunista e si individua lo spazio per la ricostruzione di una soggettività e di un soggetto comunista nel paese.Nell’editoriale si chiarisce però che questa ricostruzione “non può che partire “dall’alto” cioè dalla definizione di un punto di vista generale dei comunisti, questa è la condizione fondamentale per poter impostare il lavoro “anche dal basso” cioè dalla classe”.
Una risposta diversa a questo progetto venne da un compagno del PRC eletto al consiglio Regionale dell’Emilia, Carlo Rasmi, che accettò la proposta di avviare una sperimentazione politico-sociale in quella regione uscendo dal gruppo regionale del PRC e costituendo Azione Popolare, la quale che si presentò anche alle elezioni regionali del 2000 in Emilia Romagna. Ovviamente il risultato elettorale in una regione rossa dove il PRC era una reale forza istituzionale non fu eccezionale, ma questo passaggio rafforzò la prospettiva politica in quel territorio contribuendo direttamente alla nascita della Rete dei Comunisti.
In quegli anni l’Unione Popolare fu protagonista nella città di Roma di una importante battaglia politica contro la privatizzazione di due storiche aziende pubbliche romane: l’ACEA, azienda per elettricità ed acqua, e la Centrale del latte. Furono raccolte oltre 63.000 firme necessarie per chiedere un referendum cittadino che si svolse nel giugno del 1997 contro le scelte sulle privatizzazioni del sindaco Francesco Rutelli, portavoce dei poteri forti della città da quelli finanziari ai palazzinari – ed emblema dell’arruolamento completo del centro-sinistra nel pensiero unico liberista. La convocazione della consultazione referendaria fu contrastata in tutti i modi dal sindaco fino al tentativo di boicottaggio del referendum sull’ACEA.
Nonostante i tentativi di bloccarlo, si arrivò comunque a quella scadenza con una fortissima polemica cittadina sull’iniziativa promossa dal “Comitato contro la privatizzazione dell’ACEA e della Centrale del Latte”(composto dall’Unione Popolare, dalle RdB, dalla Confederazione Cobas e dal PRC oltre che da altre realtà sociali e sindacali). I referendum non furono vinti per poco (per l’ACEA il si alla privatizzazione vinse al 52% contro il 48% e per la Centrale del latte solo al 50.60% contro 49.40%), non senza un “misterioso” blocco degli scrutini nella notte dello spoglio che probabilmente ha inciso su un risultato che poteva portare ad una possibile sconfitta di Rutelli, il quale aveva tramutato il referendum in un pronunciamento politico sul suo operato e una sfida/pilota sul terreno delle privatizzazioni negli enti locali.
Con questi tentativi non si risolse certo il nodo della Rappresentanza Politica, ma l’organizzazione aveva costruito esperienze atte ad affinare l’intervento anche su questo terreno. Infatti appena si vennero a creare le condizioni politiche, cioè la crisi del governo Berlusconi nel 2011 e della rappresentanza così come si era configurata dal 1994, questo progetto è stato ripreso producendo risultati certamente migliori di quelli raggiunti a cavallo del millennio.
La costituzione della Rete dei Comunisti
L’esperienza del Prc bertinottiano, di sostegno al governo Prodi e al centro-sinistra, comincia a scricchiolare. Il governo di centro-sinistra del tutto subalterno ai diktat del Trattato di Maastricht, non concede nulla, anzi imbriglia Rifondazione dentro scelte estremamente gravi come l’accettazione nel giugno del 1997 della prima legge organica che introduce la precarietà nel lavoro in Italia: il Pacchetto Treu. Ma il Prc non rompe con il governo e il malessere cresce.
A dicembre 1997 due dirigenti del Prc tra cui uno dei fondatori Giovanni Bacciardi – escono dal PRC, dando vita ad una scissione e lanciano un appello per la costituzione della Confederazione dei Comunisti Autorganizzati. Insieme a loro c’è anche lo Slai Cobas che aveva rotto con il Prc già all’atto dell’insediamento del governo Prodi.
Anche al Forum dei Comunisti arriva la proposta di confluire nella Confederazione dei Comunisti Autorganizzati. Il Forum dei Comunisti partecipa alla prima assemblea della CCA a Firenze nel febbraio del 1998 e ad alcune riunioni successive.
La nascita della CCA indica pubblicamente i guasti del politicismo che impregna il Prc bertinottiano e di cui la subalternità al governo Prodi è significativa. La rottura del Prc con il governo arriverà, tardivamente, nel 1998 suscitando le reazioni di chi, ancora “peggio”, è subalterno proprio alla logica del “meno peggio” e quindi avrebbe mantenuto il sostegno al governo per “non far tornare Berlusconi”. Da questo contrasto verrà fuori la scissione dal Prc di Cossutta, Diliberto, Rizzo che daranno vita al Partito dei Comunisti Italiani che sosterrà anche il governo D’Alema (quello delle privatizzazioni a gogò, della consegna del leader curdo Ocalan alla Turchia e dell’aggressione Nato in Jugoslavia) che sostituirà Prodi nella legislatura. Una scelta peggiore dell’altra ma emblematiche di una visione distorta del ruolo dei comunisti.
Nonostante però sia stata una rottura con motivazioni completamente diverse e politicamente sensate, anche la CCA non sembra avere un progetto di costruzione di un’ipotesi comunista capace di tenere insieme insediamento sociale e visione generale.
Riferendosi alla Confederazione dei Comunisti/e Autorganizzati, si precisa che “la strada scelta dai compagni che hanno dato vita a questa nuova formazione e con i quali abbiamo avuto un confronto serrato, sinceramente non ci sembra la più adeguata alla situazione attuale, in quanto si parte da una scelta di operatività sociale e politica diretta, dando così una risposta attivistica e organizzativistica a processi di analisi e ricostruzione politica molto complessi. Ma questa è una scelta che la realtà si incaricherà di vagliare”.
Il Forum dei Comunisti aveva elaborato in quel periodo la tesi dell’articolazione su tre fronti per ritrovare una funzione strategica per i comunisti. Si riteneva infatti che la sconfitta vissuta all’inizio del decennio non potesse essere recuperata solo sulla base di una proposta politica e d’organizzazione dei comunisti che fosse in grado di superare le difficoltà storiche che si erano determinate. Si ravvedeva invece la necessità di riarticolare i diversi “fronti” dello scontro di classe (quello strategico, quello politico e quello più direttamente di classe), organizzandoli “parallelamente” nel loro specifico teorico, politico e sociale e puntando ad una loro ricomposizione nel tempo attraverso processi reali e non definiti solo sul piano politico seppure in modo corretto.
Inoltre c’era un’idea precisa sulla relazione tra i tre fronti in quel contesto storico. Infatti all’epoca si sosteneva che il fronte direttamente di classe, sociale e sindacale, fosse più avanzato di quello politico in quanto quello spazio era interamente coperto dal PRC. Sul fronte sociale/sindacale la politica di concertazione CGIL, CISL, UIL invece lasciava spazi consistenti per la costruzione di un sindacato conflittuale e indipendente, non a caso la costruzione della RdB portò a risultati non indifferenti mentre la proposta sulla Rappresentanza Politica trovava enormi ostacoli. Questa condizione si è protratta nel tempo ed è stata superata, e per certi versi ribaltata, dalla crisi finanziaria del 2007 che avviò processi di politicizzazione del conflitto di classe e delle contraddizioni internazionali del capitale.
L’ipotesi di lavoro del Forum dei Comunisti fu rappresentata nelle riunioni comuni e con documenti presentati agli altri soggetti della CCA, ma prevalse l’immediatismo per un verso e un certo primitivismo politico per l’altro, saltando tutti i passaggi necessari per la strutturazione di un soggetto non finalizzato solo a campagne politiche immediate. E già a novembre del 1998 la CCA di fatto si incaglia e si scioglie.
Anche qui emerge un approccio e un metodo diverso nel processo di costruzione di una soggettività comunista. Il Forum dei Comunisti non proveniva dal Prc e quindi non era condizionato da quella esperienza. Al contrario aveva via via costruito e verificato una propria ipotesi politica indipendente e, di conseguenza, assunto una visione processuale della costruzione di una soggettività comunista.
Tra il 1996 e 1998, vari collettivi di compagni ad Aversa, Bologna, Torino, Milano, Firenze cominciarono a confrontarsi con il Forum dei Comunisti di Roma condividendone le perplessità rispetto al progetto della CCA e nel 1998 daranno collettivamente vita alla Rete dei Comunisti. Il percorso di formazione si concretizza con un primo convegno nazionale tenuto a Bologna il 13 giugno del ’98 su “Partito e Blocco Sociale Antagonista” che apre la discussione sull’ipotesi del partito di militanti o della continuità del partito di massa come era stato il PCI. Il convegno affronta come secondo punto la questione dell’analisi del blocco sociale potenzialmente antagonista e la scelta di rafforzare il lavoro dell’inchiesta di classe che prenderà il via nei mesi successivi.
Il documento di convocazione del convegno del giugno 1998, è dedicato proprio alla questione strategica del “Partito dei militanti e nuovo blocco sociale antagonista”. In esso vengono indicati i temi del confronto per dare una base comune a quella che diventerà la Rete dei Comunisti: a) riflessione teorica intorno ai temi della rifondazione comunista; b) analisi di fase e programma politico; c) amalgama dei gruppi dirigenti; d) sperimentazione della comune capacità di intervento nelle lotte sociali.
Nel documento è scritto che “le condizioni oggettive e soggettive non permettono oggi la riproposizione del partito di massa in un percorso di ricostruzione di un soggetto comunista (….) Per questo riteniamo che vada urgentemente proposta la necessità di costruzione di un Partito di militanti che è il solo modello di organizzazione comunista in grado di affrontare i complessi nodi strategici che si propongono in questa nuova condizione storica”.
Nella analisi del nuovo blocco sociale antagonista possibile, il documento prende atto della profonda integrazione dell’Italia nel polo imperialista europeo e “dei giganteschi fenomeni di aggregazione e/o ridislocazione di interi settori della classe operaia” e indica come nella definizione del blocco sociale c’è la necessità di“individuare i luoghi dove il conflitto sociale e politico si sta facendo più acuto. Le aree metropolitane e il Meridione sono i luoghi dove la quantità delle contraddizioni può determinare un livello qualitativo avanzato del conflitto di classe.
L’atto costitutivo formale della RdC si è tenuto a Bologna il 13 settembre del 1998 e venne promosso dall’Associazione Iniziativa Comunista dell’Emilia Romagna, dall’Associazione “In movimento per un progetto comunista” di Milano, dal Collettivo comunista “Rosa Luxemburg” di Aversa, dal Forum dei Comunisti, dal Circolo Comunista di via Trivero di Torino. La RdC decise in quella sede di tenere un primo appuntamento di approfondimento teorico fissato per il 14 e 15 novembre a Roma, che avrebbe caratterizzato nel tempo la struttura, su “Costituzione del Polo Imperialista Europeo”.
Si trattava certamente solo di un “pugno” di strutture e militanti ma che, pur con varie successive vicissitudini, hanno tenuto nel tempo elaborando e rafforzando la propria strategia sui tre fronti e crescendo nell’intervento politico e sociale.
Qui di seguito il comunicato del settembre 1998 che annuncia la costituzione della Rete dei Comunisti:
Dando seguito al convegno nazionale di Bologna di giugno ed a una serie di incontri in questi mesi, la riunione nazionale tenutasi a Bologna il 13 settembre ha deciso di dare vita all’esperienza della Rete dei Comunisti come percorso di confronto, elaborazione ed iniziativa di compagni interni ed esterni al Partito della Rifondazione Comunista.
Si è stabilito che l’attività della Rete dei Comunisti verrà gestita da un Coordinamento Nazionale composto da due compagni per ogni struttura o associazione aderente. Per la partecipazione di compagne e compagni a livello individuale ai lavori del Coordinamento nazionale si demanda alla costituzione degli attivi locali che verranno organizzati dalla Rete.
È stato deciso di dare vita ad un foglio nazionale di collegamento ed informazione per la circolazione delle iniziative e l’approfondimento dell’analisi e del dibattito che inizierà le pubblicazioni nel gennaio del prossimo anno.
È stata concordata per il 14 e 15 novembre prossimi la data del convegno internazionale sulla natura e le conseguenze della costituzione del polo imperialista europeo promosso dalla Rete dei Comunisti.
Bologna, 13 settembre 1998 Associazione Iniziativa Comunista Emilia-Romagna; Associazione “In movimento” per un progetto comunista Milano; Collettivo comunista “Rosa Luxemburg” Aversa; Forum dei Comunisti; Circolo comunista di via Trivero, Torino.