L’attuale crisi sanitaria, che ha visto il diffondersi del virus Covid 19 in tutto il mondo, ha avuto il triste “merito” di rendere ancor più evidenti le contraddizioni dei sistemi occidentali già travolti dalla crisi economica iniziata con le crisi dei subprime datata 2008.
Queste contraddizioni sono uscite allo scoperto anche nel nostro paese, determinando un alto tasso di infezioni e un tragico accumularsi di vittime come non si era più verificato dalla fine del secondo conflitto mondiale.
Fin dai primi mesi della pandemia abbiamo messo in evidenza come la crisi sanitaria e la sua gestione prendessero nel nostro paese forme dovute alle peculiarità del “sistema Italia” e alle caratteristiche e responsabilità della classe dirigente.
La prima fase della pandemia ha visto il rapido diffondersi del virus dapprima nelle regioni del Nord del paese evidenziando quella che abbiamo definito provocatoriamente la “questione settentrionale”. Perché il virus si diffondeva con tale violenza in particolare nel Nord del paese?
Lo sviluppo di un alto livello di urbanizzazione caotica e di industrializzazione e concentrazione delle attività economiche, il forte pendolarismo e interconnessione territoriale che favorivano la diffusione sono caratteristiche che hanno origini storiche nel tormentato processo di costruzione dello Stato nazionale.
Se questo può essere l’aspetto più ovvio, ciò che da subito la diffusione della pandemia, la sua gestione e il suo letale espandersi hanno messo in evidenza è che il sistema non teneva proprio là nel suo punto alto.
In altre parole, il dualismo distorto del “sistema Italia”, che aveva sacrificato lo sviluppo del Meridione e fatto del Nord la propria “locomotiva”, ora si rivela fragile proprio laddove aveva prodotto i suoi migliori frutti in termini di qualità della vita, capacità di consumo, accessibilità e livello dei servizi dove quello sanitario ne rappresentava, specie in Lombardia, il fiore all’occhiello. In un certo senso, la annosa “questione meridionale” di gramsciana memoria veniva ribaltata.
Se quindi è stato lo sviluppo storico del modello produttivo, economico e sociale ad aver favorito la concentrazione del motore economico italiano nel settentrione per permettere al nostro paese di rimanere all’interno del club dei paesi a “capitalismo avanzato” sacrificando intere aree specie al Sud, oggi quella stortura rischia di rivelarsi non solo penalizzante per queste ultime ma per l’intero paese mettendo in discussione anche gli elementi di tenuta sociale che l’avevano garantito: si rivela quindi come un modello complessivamente anti-sociale.
Fin da subito è stato infatti evidente che dietro la crisi sanitaria faceva capolino, ed è confermato dall’evoluzione odierna, una gravissima crisi sociale ed economica che si presenta proprio come “miglior prodotto” di quel modello: un modello debole ed impossibilitato perfino nella fase più cruda della pandemia di fermare le attività economiche e produttive anteponendo la salvaguardia della società al profitto; incapace oggi di reggere le conseguenze di quelle scelte.
Un aggravamento delle condizioni che diventa inevitabile se si considera l’ulteriore accelerazione che subirà la feroce competizione interna nella costruzione del polo imperialista europeo. Da tempo evidenziamo infatti che non si possa prescindere nell’analisi dall’inquadrare l’evoluzione e le scelte interne alla Unione Europea, che ha fatto di questi passaggi di crisi dei momenti di rafforzamento del proprio progetto attraverso l’accaparramento delle leve decisionali in ogni ambito, la concentrazione economico e finanziaria verso i paesi core, il tutto a scapito dei popoli e dei paesi della periferia continentale e meno attrezzati alla competizione interna ed internazionale (in particolare i PIIGS). Il dibattito e le trattative sul MES e sul Recovery Plan stanno lì a dimostrarlo.
Se queste sono le caratteristiche che la pandemia ha avuto nel nostro paese, è evidente però che questa si inserisce in una più generale crisi sistemica del capitalismo, che vede i paesi a “capitalismo avanzato” dell’Occidente in testa per numero di morti, gravità nelle condizioni sanitarie ma anche più in generale economico-sociali.
Non ci troviamo di fronte quindi a una crisi da Covid. Piuttosto, la pandemia raggiunge una portata devastante laddove incontra modelli improntati completamente al profitto che hanno smantellato o fortemente rimodellato secondo i voleri e le regole del mercato l’intera società e la propria rete di assistenza pubblica, a partire da quella sanitaria, e più in generale tutto lo stato sociale, compresi i sistemi previdenziali e formativi. La crisi si incrementa in contesti già degradati da decenni di neoliberismo dove fermare il profitto risulta impossibile, pena la perdita di posizioni nella competizione internazionale.
In altre parole, le conseguenze economiche e sociali della pandemia non sono frutto del virus ma del contesto di crisi generale del modo di produzione capitalistico in cui il virus si è manifestato, unitamente alla gestione dell’emergenza sanitaria e più in generale dello Stato e della società. Vediamo infatti come paesi socialisti o che mantengono aspetti importanti di pianificazione sono stati in grado di arginare la crisi sanitaria in breve tempo e oggi si proiettano verso una forte ripresa economica. Pensiamo soprattutto alla Cina, ma anche a Cuba e al Vietnam, paesi che non dispongono degli apparati tecnologici e infrastrutturali paragonabili all’Occidente ma nemmeno alla Cina, ma che come quest’ultima sono stati in grado di affrontare il virus.
Questo nuovo appuntamento della Rete dei Comunisti,
Malattia Nazionale: Distorsioni di un capitalismo piccolo
si propone di portare oltre un ragionamento che consideriamo utile e necessario per inquadrare e agire il contesto nel quale viviamo nel senso della trasformazione sociale e politica, anche attraverso la capacità di indicare chiaramente le responsabilità di una borghesia e di una classe dirigente, in particolare nel nostro paese, che ha portato al disastro attuale, e trarre le indicazioni che l’incapacità generale dei paesi imperialisti di affrontare la crisi economica e sociale ci consegna ovvero la superiorità della pianificazione economica e sociale come argine alla barbarie del capitalismo.
Se infatti le caratteristiche con le quali il nostro paese si è trovato ad affrontare la pandemia sono quelle sopra descritte, va anche esplicitato che queste caratteristiche così come la stessa gestione dell’emergenza sanitaria ed economico-sociale sono state e sono agite da una classe dai caratteri sempre meno dirigenti e più dominanti, che dal mondo imprenditoriale e finanziario, fino ai suoi rappresentanti politici e intellettuali, si è attivamente spesa per lo smantellamento delle conquiste dei diritti e del progresso in definitiva imposto alla società dal movimento di classe del ‘900; ha favorito irresponsabilmente l’acutizzazione delle distorsioni già presenti nel “modello Italia” drenando risorse e agevolazioni di ogni tipo verso i “prenditori” del Nord, ben rappresentanti dalla Confindustria; ha fatto, in piena emergenza, della salvaguardia del profitto immediato la propria linea guida mettendo in grave rischio la tenuta del sistema sanitario e sacrificando la vita di migliaia di persone. Tutto ciò in continuità e sintonia con la generale impostazione della Unione Europea, che dello smantellamento dello Stato sociale e della consegna delle leve decisionali economiche e sociali nelle mani del grande capitale ha fatto la propria identità.
Su questi temi dibatteremo il 13/02 alle ore 15:30 in diretta streaming sulle pagine nazionale e locali della Rete dei Comunisti e di Contropiano.org.
Interventi di:
- Emiliano Brancaccio – economista
- Massimiliano Gazzola – Spread.it
- Carlo Formenti – Saggista
- Giuliano Granato – ex-OPG
- Francesco Caruso – docente UNICZ
- Marta Collot – Noi Restiamo
- Giorgio Cremaschi – Potere al popolo!
Coordina e introduce Davide Bonfante della Rete dei Comunisti