Introduzione- Lorenzo Piccinini e Giacomo Marchetti (Rete dei Comunisti)
Traduciamo e pubblichiamo il seguente articolo apparso originariamente sulla storica rivista della sinistra anti-imperialista statunitense “Monthly Review – an indipendent socialist magazine” il primo ottobre del 2020.
Il seguente contributo è all’interno del numero monografico “China 2020” https://monthlyreview.org/2020/10/01/mr-072-05-2020-09_0/ totalmente dedicato alla Repubblica Popolare, ed appare dopo l’articolo introduttivo di John Bellamy Foster.
In passato avevamo già tradotto e pubblicato un altro contributo di due dei quattro autori sui fondamentali economici alla base della straordinaria crescita che la Cina ha avuto negli ultimi 30 anni (L’enigma della crescita cinese).
In questo articolo gli autori affrontano la questione della guerra commerciale, strettamente legata alla pre-esistente guerra valutaria, lanciata dall’amministrazione statunitense nei confronti della Cina nel 2018. La tesi dell’articolo – che fa anche una cronaca dettagliata del conflitto economico tra i due paesi – è corroborata dall’incrocio di due diverse analisi dei dati in un periodo che a seconda dei casi va dal 1978, o dal 1995, al 2018.
Gli autori sostengono che nonostante le accuse che gli USA lanciano alla Cina di “concorrenza sleale” nel commercio internazionale, quello che realmente cercano di fare è preservare il vantaggio che hanno mantenuto nei decenni di scambio ineguale.
La tesi statunitense, ripetuta “a pappagallo” dalla maggior parte dei media occidentali, è che la Cina abbia sviluppato il suo surplus commerciale bilaterale (differenza tra esportazioni e importazioni, che se positivo implica un trasferimento di dollari dagli USA alla Cina) basandosi su un basso costo del lavoro ed una valuta tenuta artificialmente debole, ed è su questo ultimo aspetto che naturalmente vi sono state pressioni e richieste di intervento.
Gli autori tuttavia calcolano, attraverso due diverse metodologie, la differenza tra il valore delle merci e dei servizi scambiati tra i due paesi. Risulta che gli Stati Uniti hanno avuto sempre un trasferimento netto di valore a loro vantaggio. Questo vantaggio, fondato sul diverso livello di produttività e di “grado di sviluppo” dei due paesi, si è però eroso nel tempo, e secondo gli autori su questo si basa l’offensiva statunitense. Chi avrebbe avuto quindi un “vantaggio sleale”, connaturato alle dinamiche imperialiste tra centro e periferia del sistema economico, finora sarebbero stati proprio gli USA.
Aggiungiamo noi che l’impalcatura su cui si basano gli scambi internazionali si regge tuttora sul dominio valutario del Dollaro e sulla cornice di relazioni commerciali internazionali che poggia sulla moneta statunitense e le regole fissate da Washington con la fine del mondo bipolare. Un aspetto non secondario della possibilità di incanalare i flussi di valore dalla periferia al centro del sistema economico, soprattutto tenendo conto della fissazione del valore di alcune merci strategiche in dollari, come per esempio il petrolio.
Altro elemento importante è la potenza finanziaria che deriva da questa dinamica che oltre ad aumentare i circuiti speculativi legati al capitale finanziario, permette una differenziale di finanziamento del Sistema-Paese egemone che cristallizza la gerarchia della catena imperialista a scapito di tutti gli altri.
Aspetto non secondario dello scambio ineguale – aggiungiamo sempre noi – è la possibilità che esso dà nella ridistribuzione della ricchezza prodotta trasferita dalla periferia al centro, per esempio attraverso varie forme di welfare o le dinamiche salariali in alcuni settori. A questo proposito, pur non essendo l’argomento dell’articolo, non possiamo che sottolineare come, per quanto uno studio specifico non sia stato fatto, dinamiche simili a quelle intercorse nel commercio tra Cina ed USA siano negli ultimi decenni avvenute nel commercio tra Cine e Unione Europea, Germania in particolare.
La guerra commerciale in corso va letta quindi all’interno della cornice del progressivo generale sbriciolarsi dell’egemonia statunitense a livello mondiale (La crisi dell’Impero nord-americano) all’interno di una fase storica che abbiamo definito come stallo degli imperialismi in quanto, allo stato attuale, nessuno dei partecipanti alla competizione internazionale che adottano il Modo di Produzione Capitalista sembra avere la forza di prevalere sugli altri. Questo stallo tuttavia non significa stasi, né pace e benessere, ma anzi crescente instabilità e conflitto generati dalle continue frizioni tra attori geo-politici di rilievo, e le guerre monetarie e commerciali sono solamente un tassello di questa competizione sempre più accesa.
Senza stare a ripetere i risultati discussi nell’articolo, in questa introduzione sottolineiamo solamente alcuni elementi che a nostro parere meritano di essere evidenziati.
Innanzitutto l’analisi degli autori è basata sulla teoria marxiana dello scambio ineguale, a sua volta da considerare all’interno della sua teoria del valore lavoro. Semplificando quella che è una discussione complessa, il differenziale in produttività comporta che per produrre gli stessi beni la quantità di lavoro necessaria nel paese meno “sviluppato” è maggiore di quella necessaria nel paese a capitalismo avanzato, ma siccome i beni sono scambiati allo stesso prezzo sul mercato mondiale si ha un trasferimento di lavoro incorporato (la fonte del valore) dal paese periferico a quello centrale. L’analisi presentata è una dimostrazione di come la “cassetta degli attrezzi” del marxismo possa portare a valutazioni radicalmente diverse da quelle che derivano utilizzando il quadro teorico dell’economia borghese. La capacità di disvelare quello che non è immediatamente evidente è un aspetto centrale dell’analisi di Marx. È evidente che il dibattito riguardante la teoria del valore, per quanto rimosso quasi completamente dalle università occidentali, rimane un nodo fondamentale.
Un aspetto importante, che viene fuori in maniera significativa da tutti gli interventi che abbiamo pubblicato, è quanto, nonostante il tentativo occidentale di spacciare il successo cinese come merito del libero mercato, sia stata invece la pianificazione da parte del PCC la chiave dei risultati raggiunti (vedi L’enigma della crescita cinese), attraverso il ferreo controllo dei fattori macro-economici della propria crescita assicurato dalla natura pubblica di importanti settori strategici della propria economia (il sistema bancario, aziende industriali strategiche, l’istruzione e la ricerca e sviluppo). Non è stato un caso o un effetto della “mano invisibile” se la Cina è passata da un modello produttivo significativamente basato sulle esportazioni di prodotti a basso valore aggiunto ad un’economia molto più basata sul mercato interno (ad oggi il rapporto esportazioni/PIL cinese è inferiore al 20%, paragonato, per dire, con la zona euro, in cui è il 45%) e che, soprattutto in certi settori, ha scalato significativamente le catene internazionali del valore. Un dato estremamente significativo presentato nell’articolo è quello secondo cui se nel complesso, come si diceva, il commercio tra i due paesi comporta ancora un trasferimento netto di valore a favore degli USA, in pochi, ma strategici, settori il fenomeno opera al contrario – una tendenza che all’oggi sembra più che mai rafforzarsi -: questo avviene nella produzione di computer, prodotti elettronici e ottici; in agricoltura e allevamento; nella produzione di autoveicoli; e persino nella produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici, un settore la cui importanza in questo periodo di pandemia si è reso evidente ai più. Questo risultato storico è una diretta conseguenza delle scelte politiche del governo cinese, guidato dal PCC, o meglio di una “inversione di tendenza” rispetto a quelle effettuate precedentemente, operata in particolar modo dall’attuale leader cinese Xi Jinping oggi alla fine del suo secondo mandato.
Infine un aspetto che emerge in diversi punti della discussione e che meriterà in futuro uno studio più approfondito è quello del cosiddetto reshoring, ovvero il fenomeno che vede aziende occidentali che avevano delocalizzato in paesi con costo del lavoro più basso riportare la produzione in patria (o in paesi più vicini, cosiddetto near-shoring). Un fenomeno complesso che non può essere affrontato in questa sede, ma che all’interno di una crisi di valorizzazione sistemica del Modo di Produzione Capitalista, e il conseguente inasprirsi della competizione internazionale al fine di garantirsi tassi di profitto soddisfacenti, potrebbe diventare quantitativamente significativo. Sicuramente se il fenomeno aumentasse in maniera massiccia diventerebbe una questione centrale per la Cina che, come ricorda l’articolo, ancora dipende in maniera significativa per la sua produzione dalle multinazionali straniere. In generale si sta assistendo ad una riconfigurazione complessiva della catena logistica e delle dinamiche che l’hanno caratterizzata durante la fase della globalizzazione neo-liberista.
Un’ultima nota, l’articolo ha il merito di fornire un profilo preciso di quella porzione della borghesia che ha rappresentato Trump (notare che l’articolo è stato scritto mentre era presidente), rendendo più intellegibili le proprie scelte, che il suo successore per certi versi sembra addirittura inasprire in ossequio appunto all’establishment economico che governa realmente gli USA al di là dell’alternarsi delle amministrazioni.
Buona lettura
La guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina
È stato finalmente smascherato il vero “ladro”?
di Zhiming Long, Zhixuan Feng, Bangxi li e Rémy Herrera
Karl Marx sosteneva che il commercio internazionale avrebbe potuto espandersi, soprattutto se i paesi avessero permesso un aumento della produzione a un costo inferiore, come aveva detto David Ricardo. Tuttavia, Marx aggiungeva anche che, nonostante questo guadagno immediato, lo scambio opera a scapito delle economie meno industrializzate e in realtà risulta essere disuguale, cioè è una forma di esproprio, non appena si tiene conto delle quantità di lavoro e sforzi produttivi che vanno nelle merci scambiate (1). Questo fenomeno si presenta se un paese “meno sviluppato” presenta una produttività del lavoro inferiore a quella dei suoi “partner” commerciali, con meno ore di lavoro incorporate nella merce che importa rispetto alle ore incorporate nelle proprie esportazioni. I rapporti tra quantità di lavoro richieste da esportazioni e importazioni (quelle che più tardi verranno chiamate “ragioni di scambio dei fattori”) sono in questo caso sfavorevoli al Paese meno “avanzato”, che viene sfruttato rispetto ai rispettivi contributi di lavoro. I marxisti dopo Marx, a partire dai teorici del sistema-mondo capitalista, avrebbero dimostrato che l’entità delle disuguaglianze tra i paesi in uno scambio può dipendere dal differenziale di remunerazione del lavoro, inferiore nella periferia che al centro, a parità di produttività (2).
Rivelando la natura ineguale o espropriativa dello scambio imperialista, Marx ha così confutato la visione del commercio internazionale in cui la concorrenza porta a eguagliare o correggere le disuguaglianze, e ha invece sottolineato i meccanismi di dominio e sfruttamento che colpiscono le economie meno industrializzate, portando alla loro sottomissione ai ricchi paesi capitalisti (3). Se Marx pensava che “la libertà commerciale accelera la rivoluzione sociale” e ha scelto di “votare a favore del libero scambio”, non ha mancato di insistere sul fatto che quest’ultimo aggrava le disuguaglianze tra i paesi, dando forma a una divisione internazionale che funziona secondo gli interessi dei capitalisti più potenti. Senza aderire al protezionismo, Marx ha respinto radicalmente le conclusioni normative degli economisti mainstream e dei sostenitori del libero scambio (4).
Può dunque Marx aiutarci a comprendere alcuni aspetti delle attuali relazioni USA-Cina? L’ampio deficit commerciale degli Stati Uniti nei confronti della Cina è stato il principale pretesto per Washington per innescare, a partire dalla prima metà del 2018, quella che viene abitualmente chiamata una “guerra commerciale” contro Pechino. Al di là delle accuse di “furto” di proprietà intellettuale e altre amenità, le ragioni invocate dall’amministrazione statunitense si riferiscono alla presunta concorrenza “sleale” della Cina. In questo quadro, la Cina accumulerebbe i vantaggi di, da un lato, maggiori esportazioni attraverso bassi salari e una valuta nazionale sottovalutata, e, dall’altro, importazioni ostacolate da sussidi alle imprese domestiche e pesanti vincoli normativi che impediscono l’accesso al suo mercato interno (5). Non è forse il deficit bilaterale degli Stati Uniti una prova inconfutabile che Donald Trump abbia ragione quando afferma che “i cinesi estirpano centinaia di miliardi di dollari [dagli Stati Uniti] ogni anno e li iniettano in Cina” (pur affermando anche che il presidente Xi Jinping è “uno dei [suoi] grandi, grandi amici”) (6)? I recenti cambiamenti nella configurazione delle catene del valore che hanno visto la Cina occupare gradualmente un posto strategico nelle reti di fornitura globalizzate tendono certamente a complicare l’analisi. Ma come si può negare l’evidenza che tutti questi dollari siano effettivamente trasferiti dal paese in deficit a quello in surplus?
Come sappiamo, a partire dagli anni ’80 (ma anche ’70), si sono determinati deficit commerciali bilaterali sempre più profondi a scapito degli Stati Uniti e a vantaggio della Cina. Ci sono differenze nella valutazione dell’esatto importo di questo disavanzo se calcolato dai dati statunitensi (Dipartimento del commercio degli Stati Uniti) o dai dati cinesi (China Customs Administration): queste differenze di valutazione sono dovute, tra l’altro, al modo in cui sono considerate le riesportazioni da Hong Kong, i costi di trasporto e le spese di viaggio dei cittadini dei due paesi.
Questo deterioramento [della bilancia commerciale USA verso la Cina, ndt] è solo rallentato (temporaneamente, prima di accelerare di nuovo) a seguito dell’impatto delle crisi che hanno scosso l’economia statunitense nel 2001 (lo scoppio della bolla della “new economy”) e nel 2008 (la cosiddetta crisi dei “subprime”, che ha mostrato i suoi effetti in Cina a partire dal 2009, ma soprattutto dal 2012 in poi); dell’apprezzamento dello yuan (nel 2005 e nel 2011); e della crisi finanziaria dell’estate 2015 sui mercati azionari cinesi. Peggiorato leggermente negli anni ’90, poi più profondamente negli ultimi vent’anni, questo saldo bilaterale ha superato la soglia dei 100 miliardi di dollari nel 2002, 200 miliardi di dollari nel 2005, poi 300 miliardi di dollari nel 2011, prima di raggiungere, per i soli beni (servizi esclusi), il deficit record di 419,5 miliardi di dollari nel 2018. La Cina a questa data era ufficialmente diventata il primo partner commerciale degli Stati Uniti per il commercio di merci, per un totale di 659,8 miliardi di dollari: 120 miliardi nelle esportazioni statunitensi e $ 539,5 nelle importazioni. Nel frattempo, il commercio di servizi ha registrato un surplus di $ 40,5 miliardi a favore degli Stati Uniti nel 2018.
È stato proprio nel 2018 che Washington ha lanciato la guerra commerciale contro la Cina. A gennaio sono state prese le prime misure, consistenti in un forte aumento dei dazi doganali a carico di alcuni prodotti importati dalla Cina (come le apparecchiature domestiche e i pannelli solari fotovoltaici). A marzo sono state implementate ulteriori barriere alle importazioni dalla Cina (metallurgia, automobile, aeronautica, robotica, tecnologie dell’informazione e della comunicazione, apparecchiature mediche e altro). Ad aprile sono arrivate le sanzioni contro le aziende cinesi prese di mira dai divieti sull’uso di input di fabbricazione statunitense.
A giugno 2019, poiché gli aumenti delle tariffe avevano colpito nuovi settori, la Cina non era più il principale partner commerciale degli Stati Uniti, superata da Messico e Canada, i partner USA nell’Accordo Nordamericano di Libero Scambio. Alla fine del 2019, il deficit commerciale degli Stati Uniti con la Cina è stato notevolmente ridotto e ammontava a $ -345,6 miliardi, al di sotto di quello della fine del secondo mandato di Barack Obama, uno spostamento visibile dai primi mesi del 2019.
Potrebbe essere allora che Trump abbia ragione e che sia sulla buona strada per vincere la sua battaglia commerciale? Gli economisti mainstream affermano che il commercio tra Stati Uniti e Cina è ingiusto [a favore della Cina, ndt], ma è davvero così?
La misura dello scambio ineguale
Considerando certe ipotesi e determinate condizioni tecniche, è possibile calcolare il valore in lavoro dei beni e servizi rispettivamente scambiati dagli Stati Uniti e dalla Cina nel loro commercio bilaterale (7). Questo è ciò che abbiamo fatto, utilizzando due diversi metodi (8). Il primo metodo consiste nella stima diretta dello scambio diseguale, definito come rapporto tra i contenuti, misurato in lavoro integrato negli scambi USA-Cina: la Cina esporta una quantità di ore di lavoro svolte da lavoratori cinesi e, in cambio, importa un’altra quantità di ore lavorate da parte dei lavoratori negli USA cui si aggiunge il surplus della bilancia commerciale – cioè ore aggiuntive di questi stessi lavoratori statunitensi corrispondenti a questo saldo bilaterale. Dobbiamo anche valutare quante ore di lavoro equivalgono a un dollaro USA, sia negli Stati Uniti che in Cina. I nostri calcoli, eseguiti a prezzi correnti, devono convertire le valute utilizzando il tasso di cambio ufficiale.
I risultati che abbiamo ottenuto negli ultimi quattro decenni (dal 1978 al 2018) evidenziano l’esistenza di uno scambio ineguale tra Stati Uniti e Cina, a scapito di quest’ultima e a favore dei primi. I rispettivi cambiamenti nei contenuti di lavoro integrati nei beni scambiati sono molto diversi nei due paesi. Per la Cina, vediamo un forte aumento fino alla metà degli anni 2000, poi un brusco calo e infine una stabilizzazione all’inizio degli anni 2010, ma, per gli Stati Uniti, assistiamo a un’evoluzione molto più moderata di aumenti costanti. Scopriamo poi che tra il 1978 e il 2018, in media, un’ora di lavoro negli Stati Uniti è stata scambiata per quasi quaranta ore di lavoro cinese. Tuttavia, a partire dalla metà degli anni ’90 – un periodo di profonde riforme in Cina, soprattutto in materia fiscale e di bilancio – abbiamo osservato una diminuzione molto marcata dello scambio ineguale, senza che sia completamente scomparso. Nel 2018, 6,4 ore di manodopera cinese venivano ancora scambiate con 1 ora di manodopera statunitense. Potrebbe essere l’erosione di questo vantaggio commerciale statunitense a spiegare lo scoppio della sua guerra commerciale contro la Cina?
Abbiamo anche adottato un secondo metodo per verificare questi risultati. Nel nostro primo metodo, abbiamo confrontato i tempi di lavoro necessari medi richiesti per produrre i beni scambiati, permettendoci di valutare direttamente lo scambio ineguale. Tuttavia, l’appropriazione della ricchezza prodotta tra i paesi può in realtà essere misurata rigorosamente solo attraverso il trasferimento bilaterale del “tempo di lavoro socialmente necessario”, cioè dei “valori internazionali”. Quest’ultimo può essere stimato empiricamente, sebbene i calcoli non siano facili. Inoltre, utilizzando il metodo precedente, era possibile calcolare solo il lavoro vivo incorporato direttamente nelle esportazioni, mentre il prodotto lordo include anche il lavoro materializzato nei vari mezzi di produzione mobilitati. Il nostro secondo metodo si basa sulla c.d. ‘nuova interpretazione’ della teoria del valore del lavoro, al fine di superare i limiti menzionati del primo metodo ed esaminare più precisamente la portata dello scambio ineguale. Mentre il nostro primo metodo misura il contenuto di lavoro direttamente incorporato nello scambio, il nostro secondo metodo si concentra sui valori internazionali, utilizzando tabelle input-output (9).
Il calcolo dello scambio ineguale è strettamente correlato all’applicazione dei metodi input-output perché implica la misurazione dei flussi di merci scambiate e del valore sottostante la divisione del lavoro tra i due paesi. Il valore che può essere misurato è in realtà l’ammontare dell’input di lavoro totale contenuto nella merce, che include l’ammontare del lavoro diretto e quello del lavoro “materializzato”, quest’ultimo risultante dal lavoro contenuto nei beni intermedi (o processi di produzione intermedi) nel complesso della produzione di merci. L’idea per misurare questo valore è quindi quella di utilizzare una matrice input-output per ottenere gli input di lavoro. Tuttavia, mentre uno scambio ineguale implica il confronto dei prezzi, l’unità di misura del fattore lavoro è il tempo. Pertanto, l’unità di tempo del valore deve essere convertita in un’unità monetaria, per la quale lo schema di misurazione del valore basato sulla nuova interpretazione della teoria del valore del lavoro è una possibile soluzione. Una catena del valore globale è una forma di divisione integrata del lavoro, che implica una doppia dimensione (paesi × industrie). Per rappresentarlo, gli strumenti più adatti sono le tabelle input-output multiregionali. Qui, utilizziamo tali tabelle dettagliate dei flussi di merci con misurazioni del valore contenuto valori contenuti nella merce al fine di stimare i flussi di valore internazionali e, infine, confrontando questi ultimi con i flussi di valuta, gli importi di scambio disuguale.
In questo quadro teorico alternativo, valutiamo quindi le quantità di valore internazionale di nuova creazione nei diversi settori di ciascun paese, utilizzando l’espressione del tasso di cambio a parità di potere d’acquisto per riflettere la quota del prodotto di un paese nella produzione mondiale e per ridurre l’impatto delle fluttuazioni del tasso di cambio reale. Calcoliamo quindi la differenza tra i valori internazionali appena creati da ogni settore economico di ogni paese e i prezzi sul mercato mondiale. In totale, grazie ad una matrice di commercio mondiale costruita da tavole input-output internazionali, per ogni settore nei due paesi, si ottiene il valore dei trasferimenti da o verso altre attività economiche registrate, trasferendo quindi di fatto il valore netto, cioè il grado di scambio ineguale. Considerando i dati disponibili, abbiamo potuto calcolare i valori solo per gli anni tra il 1995 e il 2014, per cinquantacinque settori e quarantatré paesi, inclusi Stati Uniti e Cina. Se ci concentriamo su questi ultimi due paesi, i risultati che otteniamo con questo secondo metodo confermano quelli precedentemente ottenuti con il primo: vi è stata disuguaglianza nel commercio USA-Cina nel periodo tra il 1995 e il 2014. In totale, i trasferimenti di valore internazionali sono largamente stati a beneficio degli Stati Uniti. Espressa in dollari correnti, alla fine del periodo, questa “ridistribuzione” si avvicinava ai 100 miliardi di dollari, o quasi lo 0,5 per cento del valore aggiunto degli Stati Uniti.
L’erosione del vantaggio degli Stati Uniti
Ciò che i nostri risultati mostrano è che gli Stati Uniti, in quanto potenza egemonica mondiale, hanno crescenti difficoltà a mantenere il proprio vantaggio, e quindi sopportare tutte le implicazioni del libero scambio, del quale una volta definivano le regole a proprio vantaggio. La Cina è infatti riuscita a ridurre in modo significativo la magnitudine di questo scambio ineguale, con il suo svantaggio nel trasferimento di ricchezza in progressiva diminuzione: la proporzione di questo trasferimento sfavorevole nel valore aggiunto cinese è scesa dal -3,7 per cento al -0,9 per cento tra il 1995 e il 2014. In effetti, la Cina ha dovuto scambiare cinquanta ore di manodopera cinese per un’ora di lavoro statunitense nel 1995, ma solo sette nel 2014.
Inoltre, le analisi settoriali che si possono trarre dall’applicazione del nostro secondo metodo di calcolo dello scambio ineguale sono molto illuminanti. Sebbene quarantatré dei cinquantacinque settori di attività (78 per cento) considerati dal nostro studio tra il 1995 e il 2014 evidenzino trasferimenti di valore diretti dalla Cina agli Stati Uniti (i più significativi sono i tessili, l’abbigliamento e la produzione di beni in pelle, nonché la produzione di mobili e altre forniture), altri dodici settori sono all’origine di trasferimenti di valore che vanno nella direzione opposta, cioè operano a scapito degli Stati Uniti. Queste ultime attività includono: la produzione di computer, prodotti elettronici e ottici (con 6,9 miliardi di dollari trasferiti dagli Stati Uniti alla Cina nel 2014); agricoltura e allevamento; caccia e attività legate alla caccia ($ 3,1 miliardi); la produzione di autoveicoli e servizi di rimorchi e semirimorchi (1,1 miliardi di dollari); e la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici ($ 422 milioni, ancora calcolati per il 2014).
Il primo di questi settori [in cui gli Stati Uniti riportano uno svantaggio, ossia l’informatica, ndt] costituisce uno dei principali assi dell’offensiva lanciata dall’amministrazione Trump, tanto contro la Cina quanto contro le gigantesche multinazionali statunitensi del “globalismo”, in particolare quelle che operano nelle nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, che egli critica per essersi trasferite in Cina e dichiara che la sua intenzione di riportarle negli Stati Uniti. Trump viene spesso liquidato come un “pazzo”, ma in realtà è il prodotto e l’eminente rappresentante di una delle fazioni dell’alta finanza che attualmente dominano l’economia degli Stati Uniti: la fazione “continentale”, opposta alla fazione “globalista” (10). Il secondo settore, quello dell’industria automobilistica, è uno dei pilastri dell’economia statunitense, ma è stato gravemente colpito (e abbondantemente salvato [da fondi pubblici, ndt]) dopo la crisi del 2007-2009. Il terzo settore, l’agricoltura e l’allevamento, è quello che ha subito alcune delle più dure rappresaglie cinesi sotto forma di tasse doganali imposte sui prodotti agricoli importati dagli Stati Uniti (in particolare dagli Stati che sono grandi produttori di beni agricoli e grandi sostenitori. di Trump nelle elezioni presidenziali, come il Kansas, per esempio) — rappresaglie cinesi che hanno aggravato lo svantaggio degli Stati Uniti. Il quarto settore economico citato tra i più deboli degli Stati Uniti è la produzione di prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici. L’importanza strategica vitale di questo settore è stata recentemente e dolorosamente rivelata dalla pandemia COVID-19. In queste condizioni, non ci si può chiedere se l’avvio di una guerra commerciale non costituisca anche un tentativo da parte degli Stati Uniti di limitare i trasferimenti di valore estratto da questi settori fondamentali da parte della Cina?
Sfidare l’egemonia globale
Al di là delle invettive dei forum politici e dei fronzoli dei negoziati diplomatici, le questioni economiche che qui ci riguardano sono complesse. Una pluralità di fattori sovrapposti aiuta a spiegare la tendenza al ribasso osservata nel rapporto degli scambi di lavoro inclusi nel commercio bilaterale. Alcuni dei più influenti, tra gli altri, sono senza dubbio le fluttuazioni dei tassi di cambio e le rispettive dinamiche di produttività, che in particolare riflettono i cambiamenti nella produzione e il divario tecnologico tra i due paesi.
L’aumento esponenziale delle esportazioni cinesi negli ultimi trent’anni è stato portato avanti sulla base di un’industrializzazione di successo – ma lunga e difficile – e di un controllo rigoroso sull’apertura del Paese al sistema mondiale, integrati nel quadro di una “strategia di sviluppo” rigorosamente controllata (11). Per questo il contenuto dell’export ha potuto essere progressivamente modificato fino a interessare processi produttivi sempre più elaborati, al punto che, oggi, i beni e servizi ad alta tecnologia rappresentano più della metà del valore totale della merce esportata dalla Cina. Grazie alle innovazioni tecnologiche in tutti i settori (compresi robotica, nucleare, spazio), sempre più dominati a livello nazionale, le strutture produttive del Paese hanno potuto evolversi dal made in China al made by China. Nel corso di diversi decenni, il tasso di crescita dei guadagni di produttività del lavoro è accelerato, in media, dal 4,31% negli anni ’80 al 7,28% negli anni ’90, all’11,72% negli anni 2000 e persino al 14,12% nel 2010. Questa accelerazione ha reso possibile sostenere l’aumento notevole dei salari industriali (in termini reali), ma il leggero aumento del “costo del lavoro” cinese rispetto ai concorrenti del Sud (Corea del Sud, Messico, Turchia e così via) non diminuisce la competitività delle società nazionali, o anche i loro margini. Al momento, le esportazioni – e gli investimenti diretti esteri, poiché più della metà delle esportazioni sono effettuate da multinazionali straniere stabilite in Cina – svolgono invece un ruolo di supporto nello sviluppo del paese.
Le guerre valutarie e commerciali vanno invariabilmente insieme. La guerra commerciale contro la Cina è stata lanciata dall’amministrazione statunitense in un contesto preesistente, dove, per decenni, gli Stati Uniti hanno esercitato pressioni estreme attraverso la loro valuta nazionale – che è anche la valuta di riserva internazionale – su tutte le altre economie mondiali. Mirata a cercare di migliorare la competitività di prezzo delle esportazioni dall’uno o dall’altro dei due paesi, la concorrenza al ribasso per un dollaro debole o uno yuan debole ha recentemente guadagnato velocità quando le autorità monetarie in Cina hanno reagito alle sanzioni statunitensi lasciando deprezzare la loro valuta nazionale. Lo yuan è stato quindi “svalutato” nell’agosto 2019. Ma è stato davvero sottovalutato fino ad allora?
Il boom delle esportazioni, su cui si basava in parte – ma solo in parte – il “modello” di crescita cinese – ha cristallizzato un punto di forte tensione nelle relazioni economiche internazionali. In effetti, il renminbi, la cui unità monetaria è lo yuan, è stato a lungo considerato notevolmente sottovalutato, secondo i media negli Stati Uniti e altrove. Questa presunta sottovalutazione, si sostiene, è stata all’origine del peggioramento del deficit commerciale statunitense, perché i beni cinesi esportati, già molto economici, sono stati resi ancora più competitivi sui mercati mondiali da uno yuan mantenuto artificialmente deprezzato. Da qui la pressione intensificata da Washington per l’apprezzamento della valuta cinese nei confronti del dollaro, che ha portato, nonostante la riluttanza e la resistenza di Pechino, alle rivalutazioni del 2005 e del 2012. In questo intervallo di tempo, cioè dal momento in cui le autorità monetarie cinesi hanno deciso di non collegare più le variazioni della loro valuta al dollaro (luglio 2005) fino l’ultima rivalutazione effettuata (aprile 2012) il valore reale dello yuan si è apprezzato del 32 per cento rispetto al dollaro.
I dibattiti tra gli economisti sul “valore equo” delle valute sono controversi. Tuttavia, tra i criteri discussi, i vari consulenti dei governi statunitensi (sotto i presidenti Obama e Trump) utilizzano soprattutto il rapporto tra il saldo delle partite correnti e il prodotto interno lordo. Il benchmark così utilizzato per definire il cosiddetto “tasso di cambio di equilibrio” sarebbe un rapporto tra surplus o deficit della bilancia dei pagamenti correnti e prodotto interno lordo compreso tra +/- 3 o 4 per cento. Ma se applichiamo questo criterio alla Cina, segnato dall’importanza delle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti, vediamo che il rapporto cinese è sceso da oltre il 10,6 per cento nel 2007 a meno del 2,8 per cento nel 2011 e solo l’1,4 per cento nel 2012. E questo criterio ha continuato a essere soddisfatto in seguito, attestandosi appena al di sopra del 3,5%, quindi entro la “finestra di tiro” degli Stati Uniti. All’inizio degli anni ’10 del 2000, la Cina è riuscita quindi a portare il rapporto tra la bilancia dei pagamenti correnti e il prodotto interno lordo a un livello ritenuto “ragionevole”, cioè compatibile con il tasso di cambio dello yuan rispetto al dollaro. La proporzione delle esportazioni nel prodotto interno lordo è stata portata sotto controllo: dopo essere salita a più del 35% a metà degli anni 2000, è scesa al di sotto del 20%, ovvero dieci punti del prodotto interno lordo al di sotto della media mondiale (30 per cento negli ultimi dieci anni). In Cina, questo rapporto tra esportazioni e prodotto interno lordo, che è inferiore al 20 per cento, è ora inferiore a quello dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (28 per cento) e, ancora più marcatamente, dell’area dell’euro (45 per cento). È anche questo controllo dell’apertura che ha garantito alla Cina condizioni relativamente più stabili in termini di tassi di cambio (e tassi di inflazione) rispetto ad altri paesi.
Di conseguenza, la “sottovalutazione” dello yuan non è così evidente come spesso affermato (a differenza del deterioramento delle ragioni di scambio della Cina, molto reale ma generalmente ignorato), non appena si fa riferimento al benchmark più utilizzato dalla stessa amministrazione statunitense. Ciò non ha tuttavia impedito agli Stati Uniti, nonostante i giganteschi squilibri gemelli che caratterizzano la sua economia (deficit fiscale e deficit commerciale), di perseguire quella che molti osservatori hanno definito una “guerra valutaria” attraverso il deprezzamento del dollaro USA sui mercati dei cambi esteri, e il tentativo di imporre a Pechino i termini di quella che sembra una “resa”, una delle cui implicazioni è la svalutazione delle riserve in dollari detenute dalle autorità monetarie cinesi (12). Tuttavia, è la Cina che viene spesso accusata di assumere una posizione più dura in questa svolta dalla guerra commerciale alla guerra valutaria.
È possibile che questo accada perché la Cina è riuscita a implementare un progetto di sviluppo non finanziario e non bellico che contesta in modo autonomo ed efficace il blocco di potere dell’alta finanza statunitense, che si nutre di capitale fittizio e impone le sue crisi e guerre al mondo?
L’ipotesi che formuleremo quindi è che, sommata a una guerra valutaria che la precedeva, la guerra commerciale lanciata da Washington contro Pechino, nell’ambito della “Nuova Guerra Fredda”, potrebbe essere interpretata come un tentativo dell’amministrazione Trump di frenare il lento e continuo deteriorarsi del vantaggio che gli Stati Uniti sono riusciti a trarre dal suo commercio con la Cina per almeno quattro decenni, e quindi anche a mantenere la sua egemonia mondiale in via di sgretolamento. La Cina ha certamente accumulato entrate dai suoi surplus commerciali bilaterali, ma i guadagni corrispondenti sono stati compensati dal fatto – evidenziato dai nostri calcoli che misurano lo scambio ineguale bilaterale – che sono principalmente gli Stati Uniti che hanno tratto profitto da questo commercio in termini di ore di lavoro incarnate nella merce scambiata.
Mentre è tutt’altro che certo che la guerra commerciale di Trump riuscirà a piegare la Cina come Ronald Reagan ha fatto con il Giappone negli anni ’80, lo stretto intreccio commerciale e monetario delle prime due economie del mondo – una superpotenza in declino, l’altra in ascesa— pone rischi estremamente preoccupanti per i due paesi, nonché per l’economia mondiale. È chiaro che una quantità significativa dei dollari raccolti dalla Cina dai suoi avanzi commerciali ritorna negli Stati Uniti sotto forma di massicci acquisti da parte delle autorità monetarie cinesi di buoni del tesoro emessi dagli Stati Uniti allo scopo stesso di finanziare il loro deficit commerciale.
Rivolgiamoci quindi a Trump, per chiedergli semplicemente: “Se dovessimo toglierci le maschere per un momento, chi sarebbe il vero ‘ladro’ in tutta questa faccenda?”
Note:
- L’analisi di Marx è infinitamente più complessa della breve presentazione che proponiamo qui, vincolati come siamo dallo spazio. Per un resoconto più completo del suo pensiero sulla questione in esame, invitiamo il lettore a fare riferimento, tra gli altri, a: Rémy Herrera, “La Colonisation vue par Marx et Engels: évolutions (et limites) d’une réflexion commune,” in Le Colonialisme, Karl Marx and Friedrich Engels (Paris: Éditions Critiques, 2018), 7–73. Alcuni dei passaggi più importanti (e difficili) dell’interpretazione di Marx degli effetti del commercio internazionale possono essere trovati in: Karl Marx, Le Capital, vol. 1, section 8, chap. 31 (Paris: Éditions sociales, 1974), 195–201; Karl Marx, Le Capital, vol. 3, section 4, chap. 20 (Paris: Éditions sociales, 1974), 341–42; Karl Marx, Fondements de la critique de l’économie politique and Matériaux pour l’“économie,” in Œuvres – Économie II (Paris: Gallimard, 1968), 251, 489–97; and Karl Marx, Théories sur la plus-value (Paris: Éditions sociales, 1975), 636.
- Si veda Samir Amin, Accumulation on a World Scale (New York: Monthly Review Press, 1974) e molti altri, dopo Arghiri Emmanuel, Unequal Exchange (New York: Monthly Review Press, 1972).
- Fra gli altri, si vedano gli articoli che Marx aveva dedicato alla colonizzazione dell’India, come ad esempio in Karl Marx e Friedrich Engels, On Colonialism (Moscow: Foreign Languages, 1968).
- Karl Marx, “On the Question of Free Trade” (discorso alla Democratic Association of Brussels, January 9, 1848).
- Si confronti questa frase con i tweet di Donald Trump o le dichiarazioni di Mike Pence o Peter Navarro, per esempio
- Osservazioni del presidente Trump alla firma della “fase uno dell’accordo commerciale USA-Cina”, Casa Bianca, 15 gennaio 2020, disponibile su whitehouse.gov.
- Sulla questione si vedano Bill Gibson, “Unequal Exchange: Theoretical Issues and Empirical Findings,” Review of Radical Political Economics 12, no. 3 (1980): 15–35; Akiko Nakajima e Hirochi Izumi, “Economic Development and Unequal Exchange among Nations: Analysis of the U.S., Japan, and South Korea,” Review of Radical Political Economics 27, no. 3 (1995), 86–94; e Zhixuan Feng, “International Value, International Production Price and Unequal Exchange,” in Economic Growth and Transition of Industrial Structure in East Asia, ed. Zhixuan Feng et al. (Singapore: Springer, 2018).
- Zhiming Long, Rémy Herrera, and Zhixuan Feng, “Turning One’s Loss into a Win? The U.S. Trade War Against China in Perspective” (mimeograph, CNRS—UMR8174, Centre d’Économie de la Sorbonne, Paris; University of Tsinghua, Beijing; University of Nankai, Tianjin, 2020).
- Sulla nuova interpretazione della teoria del valore si veda Duncan Foley, “Recent Developments in the Labor Theory of Value,” Review of Radical Political Economics 32, no. 1 (2000), 1–39; Jie Meng, “Two Kinds of MELT and Their Determinations: Critical Notes on Moseley and the New Interpretation,” Review of Radical Political Economics 47, no. 2 (2015), 309–16. Il secondo metodo, come alternativo al primo, si ispira ad un modello proposto da Andrea Ricci in “Unequal Exchange in the Age of Globalization,” Review of Radical Political Economics 51, no. 2 (2019), 225–45.
- Wim Dierckxsens e Andrés Piqueras, 200 Years of Marx: Capitalism in Decline (Hong Kong: International Crisis Observatory, Our Global U, 2019).
- Rémy Herrera and Zhiming Long, “The Enigma of China’s Growth,” Monthly Review 70, no. 7 (December 2018): 52–62; Rémy Herrera, Zhiming Long, and Tony Andréani, “On the Nature of the Chinese Economic System,” Monthly Review 70, no. 5 (October 2018): 32–43.
- Si veda Martin Wolf, “Why America Is Going to Win the Global Currency Battle,” Financial Times, 12/10/2010.