Paolo Rizzi (in Contropiano anno 30 n°1 – maggio 2021 La Cina nel mondo multipolare)
Le aree urbane, prima delle riforme
In Cina esiste una differenziazione istituzionale tra aree catalogate come “urbane” e “rurali”. Con l’avvio della collettivizzazione degli anni ’50 il lavoro urbano e quello rurale sono stati organizzati in maniera diversa, nelle città tramite le unità di lavoro e nelle campagne tramite le comuni.
Nel 1958 il governo centrale ha istituito il sistema di registrazione familiare (hùkǒu) in cui ogni cittadino deve essere registrato come “rurale” o “urbano” e la migrazione da una condizione all’altra deve essere approvata dalle autorità. Si tratta di un sistema già in vigore sotto le ultime dinastie imperiali e che era stato abbandonato dal governo nazionalista a causa della sua debolezza burocratica.
Per molti decenni l’hùkǒu è stato amministrato in maniera rigida, con una separazione quasi totale tra la forza lavoro rurale e quella urbana (Wang F. 2005: 50-57; Cai, Park e Zhao 2008: 169 – 170). In questa maniera si sono andate differenziando molto le dinamiche e le linee di conflitto nelle diverse aree.
Nelle aree urbane il lavoro è quindi diventato una delle risorse amministrate dai piani quinquennali tramite le unità di lavoro in cui i lavoratori e le loro famiglie ricevevano un lavoro garantito a vita, una quota relativamente bassa di salario monetario e un salario sociale in beni e servizi (scuola, mense, sanità etc) che in teoria avrebbe dovuto garantire ogni necessità.
Durante il cosiddetto “periodo maoista” il conflitto operaio si è manifestato più volte, con segni e modalità diverse.
La prima grande ondata di scioperi è stata registra nel ‘57 a Shànghăi che fin dall’inizio del ‘900 era uno dei centri industriali del paese. In seguito al relativo rilassamento politico della Campagna dei cento fiori, gli operai della città lanciano una serie di scioperi contro la perdita di salario reale in seguito al processo di socializzazione delle imprese private.
Sempre a Shànghăi si forma la seconda grande ondata, stavolta con motivazioni puramente politiche. Nel 1969 importanti pezzi di classe operaia shanghaiese si schiera con la Comune nella prima fase della Rivoluzione Culturale. Tra la fine della Rivoluzione Culturale e il decollo definitivo delle riforme economiche, il conflitto operaio in effetti tenderà ad andare in seconda piano e a spostare l’epicentro verso Běijīng.
Nel 1979 e nel 1989 ci saranno scioperi notevoli ma sparpagliati e al traino dei movimenti per le riforme guidati da studenti e intellettuali (Perry 1994, Selden 1995).
Gli anni ’90: xiàgǎng
La crisi politica del 1989 si risolve con la repressione del movimento studentesco e, nel giro di pochi anni, il rilancio delle riforme economiche. La re introduzione del modo di produzione capitalista ha impattato in maniera differente in aree diverse del paese (Hurst 2004: 96-111) e ha cominciato quindi a produrre diverse linee di conflitto (Vedi figura 1).
- Nord est de industrializzato: province come Liáoníng, Jílín, Hēilóngjiāng e Mongolia Interna, la cui economia era basata sull’industria pesante, vengono colpite duramente dalla privatizzazione e dalla de-industrializzazione, non riescono a sviluppare un settore privato dinamico in grado di compensare la restrizione del settore pubblico;
- Le province e municipalità costiere: Shāndōng, Tiānjīn, Jiāngsū, Shànghǎi, Guǎngdōng. Sono province che già prima delle riforme avevano un’economia più differenziata e dinamica. Queste province si agganciano al mercato delle esportazioni e creano un settore privato in grande crescita, in grado di assorbire i licenziamenti del pubblico e di cominciare ad assorbire il surplus di manodopera rurale che comincia a poter migrare verso le aree urbane in seguito ai primi allentamenti dell’hùkǒu;
- Le province e municipalità interne: Hénán, Shānxī Shǎanxī, Húběi, Húnán, Sìchuān, Chóngqìng). Anche se con caratteristiche diverse, sono accomunate da una transizione incerta.
Non sono dipendenti da industrie in decadimento come il nord est, ma non riescono a produrre una dinamica privata forte, non riescono a riassorbire del tutto la disoccupazione e l’occupazione si compone anche di una miriade di microimprese a conduzione familiare.
Proprio nelle province del nord-est si manifesta negli anni ’90 la forma di conflittualità operaia più sviluppata. Per la prima volta in decenni la classe operaia cinese comincia a conoscere la disoccupazione sotto forma del xiàgǎng, cioè la categoria sotto cui inizialmente vengono catalogate le persone che a causa dei cambiamenti nella produzione rimangono senza lavoro ma mantengono un rapporto di lavoro formale con l’impresa.
Negli anni ’90 la condizioni dei lavoratori xiàgǎng da temporanea diventa permanente. Contro le ristrutturazioni che rendono xiàgǎng i lavoratori si scatenano grandi scioperi a cui partecipano decine di migliaia di operai che spesso attaccano direttamente i dirigenti locali del Partito, considerandoli corrotti per la decisione di chiudere e/o ristrutturare.
La forza di questi scioperi non fu sufficiente per far riconsiderare il brutale processo di ri-organizzazione delle grandi imprese di stato, ma abbastanza da entrare nella retorica ufficiale e imporre, per la prima volta dalla fondazione della Repubblica Popolare, forme di sicurezza sociale come l’assegno di disoccupazione.
Le lotte dei lavoratori xiàgǎng sono state essenzialmente lotte difensive che cercavano di rivendicare lo status di “padroni del paese” che la retorica ufficiale assegnava ancora alla classe operaia urbana (Cai 2006).
Le relazioni industriali: teoria e pratica
L’introduzione del modo di produzione capitalista in Cina ha gradualmente cambiato il sistema delle relazioni industriali. Il classico “sistema unitario” di stampo sovietico prevedeva che il management delle imprese di stato e il sindacato funzionassero da cinghia di trasmissione dallo stato ai lavoratori che a loro volta controllavano lo stato tramite il Partito (Vedi figura 2).
In particolare, il sindacato funzionava da mobilitatore della forza lavoro verso gli obiettivi di produzione e da distributore del welfare.
In questo sistema si supponeva che gli interessi fondamentali degli attori fossero allineati e, in seguito a un aspro dibattito tra i dirigenti della All China Federation of Trade Unions, che in caso di conflitti si trattasse comunque di “contraddizioni in seno al popolo”.
In effetti, questa famosa espressione di Mao è stata coniata all’interno del dibattito degli anni ’56/’57 sul diritto di sciopero (Franceschini 2015: 78-80). Diritto che in ogni caso non verrà garantito in Costituzione se non per il breve periodo tra il ’78 e l’82.
Con le riforme economiche, viene introdotto un settore privato dell’economia via via più significativa e le imprese pubbliche, che pure rimangono tutt’ora datori di lavoro per più di 60 milioni di persone, vengono lentamente ri-orientate ad operare autonomizzando il management.
Il sistema delle relazioni industriali viene così modificato – in teoria – in un sistema tripartito (vedi Figura 3) simile a quello delle economie di mercato con stato, imprese e lavoratori che si esprimono tramite il sindacato.
Mentre nelle economie di mercato “normali” lo stato agisce in teoria come mediatore imparziale, nel sistema cinese è un “giudice di ultima istanza” che si assume il compito di aggiudicare tra le parti in causa.
Questo sistema teorico trova una sua applicazione nelle grandi imprese statali od in quelle che sono state privatizzate ma hanno mantenuto una cultura del management simile a quella pubblica, in cui l’ACFTU agisce come rappresentante dei lavoratori sia nel riportare problemi all’azienda sia nel portare ai lavoratori gli obiettivi di produzione.
Questo tipo di relazioni viene però messo sotto grande pressione nei settori dove il rapporto è per sua natura più conflittuale, nelle nuove imprese private che non hanno ereditato il modello tradizionale del sindacato o che non hanno affatto un sindacato. In questi settori le relazioni industriali si frantumano in un sistema quadripartito (vedi Figura 4) in cui i lavoratori sono portati ad agire in autonomia dalla ACFTU che a sua volta agisce, se agisce, come attore indipendente, in particolare quando la conflittualità assume la forma dello sciopero (Taylor, Chang e Li 2004).
Tre letture cinesi
L’introduzione del modo di produzione capitalista e le sue conseguenze sulle relazioni industriali hanno prodotto letture anche molto diverse tra gli osservatori cinesi. In questo paragrafo provo a illustrare tre letture che, partendo da un posizionamento orientato alla tutela dei lavoratori, cercano di dare una lettura delle dinamiche del conflitto operaio nell’ultimo ventennio. Ovviamente, questo riassunto non esaustivo della produzione dei singoli autori ed autrici nominati qui, tantomeno delle voci sul tema.
Pun Ngai: la nuova classe operaia antagonista
Pun Ngai è docente di sociologia alla Hong Kong University, una delle più note ricettrici dell’operaismo italiano in ambito cinese; è anche una delle poche voci cinesi ad aver ricevuto una traduzione italiana che continua anche in tempi recenti (Pun 2012, Pun 2020).
La lettura di Pun Ngai sta all’interno di una letteratura che vede la formazione (nel senso della formazione di Thompson 1963) di una nuova classe operaia cinese che si distingue nettamente dalle generazioni precedenti che hanno vissuto il contratto sociale maoista e la rottura dei xiàgǎng. In questa lettura, la nuova classe operaia cinese sarebbe in una fase offensiva segnalata non solo dall’aumento quasi continuo della frequenza degli scioperi, ma anche del cambiamento di metodi e obiettivi della lotta.
Pun e i suoi co-autori enfatizzano il passaggio da scioperi motivati dal tentativo di evitare peggioramenti delle condizioni date, come in larga parte sono stati gli scioperi degli anni ’90, a un movimento di scioperi che esige il miglioramento delle condizioni economiche e di lavoro.
Cambiano secondo Pun anche i metodi della lotta che da legalistici (petizioni ai livelli superiori del governo, tentativi di rappresentazione delle istanze attraverso il sindacato ufficiale) cominciano a usare metodo aldilà della legalità, a usare la forza nel confronto con le forze dell’ordine, occupazioni di luoghi simbolici come i tetti delle fabbriche e veri e propri cortei verso i palazzi delle autorità.
Infine, questa nuova classe operaia viene indicata come antagonista perché avrebbe cominciato a porre obiettivi al di fuori dei perimetri istituzionali della Cina Popolare, in particolare avanzando richieste del tutto politiche come l’elezione di rappresentanza sindacali autonome dalla All China Federation of Trade Unions.
In questa lettura è fondamentale il cambiamento della composizione della classe, in particolare l’ingresso sul mercato del lavoro della manodopera femminile e di una nuova generazione di lavoratori migranti dalle campagne alle città che ha un’istruzione più avanzata, aspettative più alte e non vedrebbe il ritorno alle campagne in caso di disoccupazione come un percorso di vita desiderabile (Pun e Lu 2010, Leung e Pun 2009, Pun 2019).
Lee Ching Kwan: precarizzazione e marginalizzazione
La tesi di una nuova classe operaia all’attacco è fortemente contestata da Lee Ching Kwan, sociologa alla University of California di Los Angeles.
Il primo punto di contestazione di Lee è che non ci sono evidenze del continuo aumento della frequenza degli scioperi. Avendo avuto accesso agli archivi giudiziari della prefettura di Shēnzhèn, Lee contesta che i dati pubblicato da alcune ONG come China Labour Bullettin possano essere intesi come rappresentativi, anche solo indicativamente, dell’andamento reale degli scioperi. Anzi, Lee sostiene che considerando le fonti dissidenti di Hong Kong i numeri riportati dal CLB sarebbe inferiori rispetto a quelli degli anni ’90. Su quest’ultimo punto però possiamo dire da subito che Lee corre il rischio di prendere direttamente per buone le fonti degli anni ’90 come gli autori da lei contestati prendono direttamente per buone le fonti degli anni ’00 e ’10.
Il secondo punto di contestazione è che lo spostamento verso richieste salariali più alte non sia da considerare un sintomo di maggiore radicalità degli operai cinesi, in quanto da un lato sarebbe comunque difensivo per recuperare la perdita di potere d’acquisto data dall’alta inflazione e dall’altro lato non sarebbe “anti sistemico”, in quanto gli aumenti salariali sono comunque previsti dai piani quinquennali.
Infine, Lee contesta che ci sia l’acquisizione di una coscienza di classe autonoma delle nuove generazioni, perché l’uso di richieste politiche come la rappresentanza sindacale autonoma sarebbero solo occasionali e comunque non determinanti nei casi di sciopero. In particolare, viene contestata la ricostruzione del famoso sciopero dell’estate del 2010 in una fabbrica di forniture meccaniche, in grado di mandare in tilt la catena del just-in-time della Honda.
La richiesta di un sindacato autonomo (inizialmente repressa dal sindacato ufficiale con tanto di scontri ai cancelli, poi strumentalmente accettata) sarebbe secondo le fonti di Lee stata avanzata in maniera del tutto strumentale e accidentale, mentre molte ricostruzioni di quell’episodio avrebbero voluto proiettare quella richiesta come punto fondamentale.
In conclusione, possiamo dire che secondo Lee in Cina ci si trova davanti a una classe operaia precarizzata e senza voce all’interno del sistema e che anche gli episodi conflittuali siano marginali e ininfluenti. (Lee 2007, Lee 2016)
Chang Kai: due forme di movimento operaio
Una lettura diversa è quella di Chang Kai, professore di relazioni industriali all’università Renmin di Běijīng e membro della Chinese Academy of Social Sciences. Chang Kai è stato una delle voci pubbliche più presenti durante il processo di consultazione sulla Labour Law tra il 2006 e il 2007, rappresentando la cosiddetta “scuola di Běijīng” favorevole a una legge che introducesse nuove tutele collettive per i lavoratori contro la “scuola di Shànghǎi” orientata alla de regolamentazione. Secondo Chang Kai quello a cui assistiamo oggi è l’interazione di due forme di movimento operaio.
La prima forma è quella “classica” dall’alto al basso, cioè la costruzione di un sistema di rappresentanza dei lavoratori che parte dalle istituzioni e attraverso l’ACFTU, che Chang considera un sindacato a tutti gli effetti a differenza di molti altri osservatori, costruisce per via burocratica una rappresentanza aderente alla guida del Partito.
I compiti di questa rappresentanza dall’alto al basso sono quelli indicati nei documenti ufficiali: promuovere la consultazione collettiva (formulazione preferita nei documenti alla “contrattazione collettiva”), favorire la gestione democratica dell’impresa, salvaguardare i diritti legali dei lavoratori, partecipare al processo legislativo e così via.
La seconda forma è quella resa evidente dall’ondata di scioperi del 2010 (in cui il caso più famoso fu lo sciopero alla Honda già nominato), una forma dal basso verso l’alto che, secondo Chang Kai, è necessaria per la costruzione di vere relazioni industriali collettive in grado di proteggere i lavoratori dopo le riforme di mercato.
Guardando a questi scioperi Chang non ne discute la frequenza, ma ne giudica la qualità, in quanto capaci di dimostrare:
1) che fosse possibile una conflittualità su larga scala in cui molti lavoratori – pur mantenendo una forma essenzialmente spontanea – fossero in grado di attuare dispute collettive sugli stessi temi in punti diversi del paese e ottenere risultati;
2) che i lavoratori cinesi abbiano sviluppato nelle condizioni di mercato una “coscienza collettiva” di essere lavoro salariato, che sarebbe una delle possibili forme di coscienza di classe. Attraverso questa coscienza collettiva i lavoratori sarebbero riusciti a compiere il passaggio dalle dispute sui diritti (cioè, la richiesta di difendere nella realtà gli standard legali minimi) a dispute per far avanzare i propri interessi.
Secondo Chang Kai questa doppia forma di movimento operaio è strutturale nella Cina di oggi, fin tanto che il sindacato ufficiale rimarrà comunque incorporato all’interno delle strutture burocratiche dello stato e delle imprese. Queste due forme, quindi, continuerebbero a rappresentare momenti diversi delle relazioni industriali collettive e a influenzarsi a vicenda (Chang 2017).
Scioperi nel Guangdong 2003-2013
Quest’ultimo paragrafo illustra alcuni risultati di una ricerca che sto conducendo su fonti giornalistiche cinesi riguardo ai casi di sciopero nella provincia del Guǎngdōng nel decennio 2003-2013. Il focus geografico è dettato dalla centralità della provincia nello sviluppo del modo di produzione capitalista in Cina e dalla relativa ricchezza di notizie pubbliche, data anche dalla vicinanza alle zone amministrative speciali di Hong Kong e Macao.
Il focus temporale è incentrato sul decennio della presidenza di Hú Jǐntāo, periodo in cui sono state promulgate nuove leggi sul lavoro, sono state svolte sperimentazioni, a partire proprio dal Guǎngdōng, su una gestione più democratica del sindacato e, soprattutto, durante cui c’è stata l’ondata di scioperi del 2010 dopo la crisi economica del 2008-2009.
La non pubblicità dei dati sugli scioperi costringe a ricorrere alla costruzione di set di casi sicuramente non rappresentativi di tutti gli scioperi, ma che possono aiutare a fare alcuni ragionamenti rispetto alle letture illustrate sopra.
Un primo dato interessante è quello che riguarda il regime di proprietà delle imprese in cui vengono registrati scioperi (Figura 5). Vediamo che si tratta in larga maggioranza di impese private, in questo caso i casi in cui non è possibile risalire con certezza alla proprietà è probabile siano sempre imprese private. Questa minoranza di scioperi in imprese pubbliche e miste parrebbe confermare che il sistema di relazioni industriali “dall’alto verso il basso” riesca a gestire le dispute senza farle diventare sciopero.
In figura 6 vediamo la nazionalità della proprietà. Nella maggior parte dei casi troviamo imprese di proprietà cinese seguite da imprese con capitali di Taiwan, Hong Kong e Macao. In questi casi considero probabile che dove non sia possibile risalire con certezza alla nazionalità della proprietà, siano comunque casi con proprietà cinese o della “Cina allargata”. È da notare la forte presenza di capitali asiatici (in particolare Giappone e Corea del sud).
In figura 7 vediamo i settori produttivi in cui vengono registrati gli scioperi. C’è una chiara maggioranza relativa nel settore dell’elettronica, un settore che in quegli anni raggiungeva sicuramente il suo picco di sfruttamento intensivo della manodopera (si pensi alla tristemente famosa Foxconn) e di assorbimento di giovani migranti dalle aree rurali. È da notare anche la presenza minoritaria ma comunque importante di conflitti anche nei servizi, in particolare educativi e trasporti.
Nelle figure 8 e 9 possiamo vedere il tipo di richieste e le richieste specifiche degli scioperanti. Vediamo che la maggioranza assoluta delle richieste è comunque del tipo “difensivo” o “di diritti”. La prima causa in assoluta di sciopero in effetti è l’abbassamento arbitrario o il pagamento in arretrati di salari e bonus. La seconda causa di scioperi è però la richiesta di salari e bonus più alti. In generale le richieste di tipo “offensivo” o “di interessi” sono una minoranza però molto significativa. Le richieste di tipo politico sono in effetti molto poche. Ovviamente qua bisogna avere l’accortezza di considerare il probabile intervento censorio su richieste troppo “fuori dagli schemi”.
La figura 10 riporta una versione semplificata del reticolo di relazioni di contrattazione tra gli attori. Vediamo da questo reticolo che il sindacato ufficiale raramente assume un ruolo di contrattazione nei casi di sciopero, che molto più frequentemente le contrattazioni sono condotte da rappresentati dei lavoratori eletti ad hoc e che molto frequentemente sono direttamente gli ufficiali dei livelli inferiori dello stato ad assumersi la posizione di mediatore tra capitale e lavoro.
Va in ogni caso tenuto a mente che, da un lato, i rappresentati del Labour Office del governo locale sono spesso anche dirigenti del sindacato ma che, dall’altro lato, quando è il sindacato in quanto tale ad intervenire, gli organi di comunicazione si premurano di specificarlo in maniera non equivocabile.
In “conclusione”
Sulle base delle statistiche descrittive dei dati disponibili in questa ricerca non è certo possibile trarre conclusioni definitive. Quello che è certo è che l’introduzione del modo di produzione capitalista in Cina non è stato accolto da una società pacificata e che, anzi, il lavoro rimane un elemento conflittuale al di là di ogni possibile elaborazione ufficiale sulla “società armoniosa”.
La mia personale interpretazione è che sia difficile sostenere la teoria di una classe operaia totalmente distaccata dal sistema istituzionale e che si costruisce in posizione antagonista. Altrettanto difficile sembra sostenere la tesi di una classe operaia completamente espulsa dall’arena politica.
Il conflitto operaio delle aree urbane potrebbe essere riassunto in una specie di “tradeunionismo senza trade union”, certamente in grado di spingere lo stato locale intervenire per porre fine agli episodi di conflitto e probabilmente in grado di spingere anche lo stato centrale ad agire in una direzione più pro-lavoro.
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