di Mauro Casadio, Rete dei Comunisti
Certamente le elezioni svolte in questi giorni essendo “locali” potrebbero non essere significative sul piano nazionale, ma il fatto che si siano svolte nelle più importanti aree metropolitane del paese e che abbiano riscontrato una sostanziale omogeneità dei risultati sia nei grandi che nei piccoli centri, forniscono indizi politici interessanti e realistici.
Non è la prima volta che accade di trovarsi di fronte ad un tracollo della partecipazione elettorale dove la disaffezione politica arriva ad “acuti” che si ripetono periodicamente. E’ sufficiente osservare il periodo precedente, quello che va dalle elezioni del 2008, dove vinse Berlusconi, a quelle del 2013, le quali produssero una profonda modifica del quadro istituzionale con l’affermazione del M5S, inattesa per la sua dimensione.
Quello che portò ad una vera e propria rottura del quadro precedente, fu l’incapacità/impossibilità del governo dell’epoca di sostenere gli effetti della dilagante crisi finanziaria sotto la pressione della UE a sostegno dell’austerity, una politica che pochi anni dopo avrebbe fatto deflagrare anche la Grecia di Tsipras.
Tale situazione si protrasse fino alla defenestrazione di Berlusconi nel 2011 con l’intervento diretto della BCE con la lettera di Trichet-Draghi che imponeva tagli e sacrifici sociali, aprendo un periodo di confusione politica e istituzionale che si risolse solo con il varo del governo Monti-Napolitano fedeli attuatori dei diktat Europei.
Un primo segnale di “disaffezione” si era già manifestato con la scadenza elettorale del 2010 tenutasi nei 2/3 delle regioni italiane, quando l’astensione raggiunse il 40%, ben oltre la media usuale, ma decisivo fu il quadro indecente che emergeva da tutte le forze presenti in parlamento e dalle politiche antipopolari di Monti, a cominciare dalla famigerata riforma Fornero sulle pensioni.
In quel frangente storico esplose la crisi della rappresentanza, latente fino a quel momento e che aveva già portato all’esclusione del PRC dal parlamento, una crisi che fece avere al M5S il 25% dei voti. Tale situazione si è protratta fino al 2018, periodo in cui si sono affermate le forze cosiddette “populiste e sovraniste”, certamente inconsistenti sul piano programmatico ma che hanno raccolto l’adesione della maggior parte degli elettori e del montante malessere sociale.
Il M5S prima e la Lega poi, hanno cavalcato per quasi un decennio questo spazio vuoto della rappresentanza senza nessuna capacità progettuale, uno spazio vuoto che oggi si ripresenta senza ambiguità con un livello di astensionismo che arriva al 60%.
Irrilevante e ridicolo è il balletto che oggi viene fatto sulle TV e sulla comunicazione mainstream tra vinti e vincitori, in quanto la realtà sancisce senza infingimenti che interi pezzi della società è e si sente fuori e senza rappresentanza dopo l’imbroglio dei movimenti cosiddetti “antisistema”.
Certamente va fatta una analisi dei caratteri di questo tipo di astensione, non omogenea al suo interno, ma certo è che, come nel gioco dell’Oca, siamo tornati al punto di partenza di un decennio fa.
Ovviamente le condizioni complessive della società, anche a causa della pandemia, sono ben peggiori di quelle di un decennio fa, ed è pure ridotta la capacità del paese di poter decidere i propri destini come il governo Draghi, lo stesso che non casualmente ha “tagliato la testa” a Berlusconi, sta a dimostrare.
Il governo Draghi ci fa vedere nitidamente come il “superstato” europeo sia ormai in grado di dirigere in modo centralizzato un progetto continentale peraltro favorito anche dall’insorgere della pandemia. Non a caso Prodi ha sempre sostenuto che l’Unione Europea si costruisce proprio tramite le crisi e già si presenta la prossima “opportunità” nel confronto con la Polonia che vuol mantenere le sue prerogative sovraniste.
L’uscita dalla pandemia, l’operazione sul Recovery Fund, l’affermazione della UE come soggetto immerso nella “ipercompetizione”, come ci ha ben ricordato la Von Der Leyen, sono tutti elementi che non possono che peggiorare la situazione sociale e di classe. Su questo non ci dilunghiamo nell’analisi, ma i processi di ristrutturazione ed i licenziamenti che dilagano stanno li a mostrarci quali sono le prospettive per il mondo del lavoro e la società nel suo complesso.
Possiamo dire che si sta aggiungendo un altro tassello alla crisi di egemonia che procede da tempo, in quanto pur avendo i centri di potere sussunto le forze cosiddette “antisistema” – depotenziandole e trasformandole da “antieuropeiste” ad “europeiste” – riesplode la questione della crisi della rappresentanza politica dei settori di classe e sociali penalizzati, e questo può rappresentare un importante punto di ripresa di iniziativa ed organizzazione.
Certamente non ci sarà un effetto automatico e molto sarà determinato dalla soggettività organizzata che sarà messa in campo, ma si stanno ricreando le condizioni per dare un ruolo a quelle forze che hanno un carattere di classe e che hanno avuto la strada sbarrata sulla rappresentanza proprio dai cosiddetti populisti che il “sistema” ha saputo magistralmente manipolare.
Il riuscito sciopero generale dell’11 ottobre, i parziali ma pure importanti risultati elettorali avuti da Potere al Popolo nelle aree metropolitane e non solo, il crescere della conflittualità in molte fabbriche colpite dalla crisi, sono tutti segnali che vanno nella giusta direzione e che sono da rafforzare e consolidare.
Per questo la necessità di una totale indipendenza politica dal quadro istituzionale, la costruzione di un radicamento di classe organizzato, la lotta contro l’Unione Europea dentro un orizzonte di rottura socialista, sono tutte questioni che possono ritrovare forza in questo passaggio storico di crisi del capitalismo a condizione di una ritrovata e rinnovata soggettività di classe ed organizzata.