Rete dei Comunisti
Gli eventi che hanno caratterizzato la prima settimana del nuovo anno in Kazakistan sono un punto di svolta rilevante della difficile governabilità delle contraddizioni prodotte dalla crisi del sistema capitalista e della ridefinizione complessiva delle relazioni dei maggiori attori internazionali tra loro.
Se non possono essere ignorate le profonde ragioni sociali alla base delle mobilitazioni contro il “caro-carburante” della prima ondata di proteste ai primi di gennaio – frutto della continuità di una politica pro-oligarchica dell’élite politica che la governa – , la successiva dinamica degli eventi suggerisce un palese tentativo di de-stabilizzazione organizzata manu militari ed una spaccatura all’interno dell’apparato di potere centrale e periferico kazako, come sembra indicare l’arresto per tradimento dell’ormai ex Capo del Comitato di Sicurezza Nazionale Karim Massimov, e la detenzione di altri alti responsabili.
Se la prima ondata di proteste scoppiate a Zhanaozen e Akatu il 2 gennaio era stata relativamente contenuta dalla polizia, la seconda fase sviluppatasi in una dozzina di città – tra cui Almay e Atyrau due giorni dopo – è stata prontamente stroncata grazie ad una operazione “anti-terroristica” del governo e l’intervento di Peace-Keepers da parte della Organizzazione del Trattato per la Sicurezza Collettiva, su richiesta del premier kazaco Kassim-Joamrt Tokayev che aveva tra l’altro proclamato lo “stato d’emergenza” per due settimane quando le proteste hanno mutato il loro profilo.
Si tratta del primo intervento dell’alleanza militare – di fatto a guida russa – dalla sua creazione, un’azione resa possibile grazie all’articolo 4 del Trattato che assicura l’aiuto dei paesi membri (Russia, Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan) in caso di “aggressione esterna” ad uno di essi.
Dopo qualche ora dalla richiesta del premier kazaco, il primo dispiegamento militare che sta controllando presidi strategici militari, statali e sociali del Paese era giunto con un “ponte aereo” ad Almaty e Nur-sultan.
Come ha ricordato domenica la guida dell’operazione del Trattato nel paese, Andrey Sedyukov, il contingente rimarrà in Kazakistan “fino a che la situazione nel paese non tornerà alla completa normalità”
Lunedì 10 si svolgerà il meeting virtuale dei Paesi del Trattato, quest’anno presieduto dal premier armeno Nikol Pashinyan, a cui prenderà parte lo stesso Putin, proprio nella settimana in cui erano già programmati una serie di importanti incontri per la Russia con gli USA e con la NATO, nel tentativo di disinnescare le tensioni relative ad una possibile escalation del conflitto ucraino.
Ma le richieste di Mosca rese pubbliche nelle settimane precedenti gli incontri, e tese a limitare il proprio accerchiamento per opera della NATO evitando un’estensione dell’Alleanza fino ai suoi confini, sembrano non essere state accolte dalle controparti occidentali.
Il probabile esito negativo di questi incontri, più che essere foriero di una ipotetica escalation – a netto delle possibili “provocazioni” e delle violazioni al “cessate al fuco” che contraddistinguono il conflitto ucraino – certificherà il clima da nuova guerra fredda che sembra congelare una distensione dei rapporti tra i vari soggetti in campo.
Tornando al Kazakistan.
Il bilancio della “settimana di sangue” kazaka è piuttosto pesante: si parla di 164 morti (di cui una parte tra le forze dell’odine) – secondo quanto riportato domenica dalla televisione kazaka Khabar 24 – , ben più di 2000 persone che hanno dovuto ricevere assistenza medica, e circa 6.000 detenuti a causa delle proteste a quanto riferisce l’agenzia stampa russa TASS.
Antony Blinken, Segretario di Stato statunitense, ha criticato l’ordine di “sparare per uccidere” dato dal premier, e ha sollecitato a garantire i diritti alla protesta pacifica.
Hanno suscitato vive reazioni da parte russa le sue dichiarazioni di fine settimana scorsa in cui ha affermato che: “una lezione della storia recente è che una volta che i russi sono entrati in casa tua, è talvolta molto difficile far si che la lascino”.
Il ministro degli esteri russo, secondo quanto riporta la Reuters, avrebbe detto sul suo canale Telegram: “se Antony Blinken ama così tanto le lezioni di storia, allora dovrebbe considerare quanto segue: quando l’America è a casa tua, è difficile restare vivi e non essere derubati o stuprati”.
Il capo della diplomazia europea Josep Borrel – di ritorno da una visita ai territori interessati dal conflitto ucraino in Donbass, il primo da parte di un rappresentante UE – si è detto preoccupato ed ha condannato la violenza, facendo appello alla leadership kazaca per il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali in un Paese che ha ribadito essere “un importante partner dell’Unione Europea, con un Trattato di Cooperazione e di Partnership Rafforzata”.
Il 70% del petrolio kazako è infatti destinato all’Europa.
Il Paese dalla fine dell’era sovietica è un esempio della dinamica di accumulazione per espropriazione, di cui si è avvantaggiato tendenzialmente il capitale multinazionale principalmente nei settori strategici degli idro-carburi e dell’estrazione mineraria ed una risicata élite politica nazionale.
Un establishment politico che aveva fino ad ora garantito una molto relativa redistribuzione della ricchezza prodotta grazie allo sfruttamento delle risorse naturali del Paese ed un altrettanto relativa pace sociale interrotta a più riprese, da importanti momenti di conflitto sociale e minata dalla minaccia jihadista come nel resto della regione.
Il Kazakistan è un Paese strategico per la Russia, con cui confina a sud, dal punto di vista geo-politico e come destinatario degli investimenti dei suoi oligarchi, nonché importante sede di installazioni, ed in cui vivono tre milioni e mezzo di cittadini russi – uno dei perni della strategia della Federazione nel suo “estero vicino”
Allo stesso tempo è stato un territorio di penetrazione degli interessi statunitensi a molti livelli – da quello militare a quello politico, a quello culturale attraverso una fitta rete di ONG e progetti di formazione negli States – in una contesa geopolitica che attraversa “l’arco di instabilità” del Caucaso.
Una competizione a cui partecipano (oltre a Russia, USA ed UE) anche la Cina, il progetto neo-ottomano turco, e le mire delle monarchie petrolifere arabe che finanziano la galassia jihadista nella regione.
È chiaro che ciò che è successo in Kazakistan la settimana scorsa è diretta conseguenza sia dell’incremento delle politiche filo-oligarchiche sia al consolidamento della filiera di interessi di attori geo-politici interessati a “sganciare” il Paese dalla sfera d’influenza russa che hanno voluto sfruttare un contesto di legittimo malcontento popolare per passare dal soft power praticato dai suoi agenti di influenza in loco alla guerra sporca per procura.
Un tentativo che ha conosciuto, per ora, un clamoroso fallimento, figlio della fine della presa dell’Occidente su pezzi sempre più consistenti del globo: l’esaurirsi di una capacità di tenuta di cui la sconfitta militare in Afghanistan è stata la più evidente manifestazione, ma di cui le cancellerie occidentali non hanno ancora imparato la lezione.
La Federazione Russa continua così a riallineare ai propri interessi geopolitici – rafforzati dalla sempre maggiore cooperazione strategica con la Cina – i paesi dell’area post-sovietica che erano stati al centro della contesa geopolitica con l’Occidente e dimostra la propria affidabilità ai suoi partner, anche a quelli titubanti, che riaccoglie come figliol prodigo tra le sue file.
Allo stesso tempo se Mosca è riuscita in parte a rimediare cin politica estera alle conseguenze relative alla scomparsa dell’Unione Sovietica non è riuscita a raddrizzare le storture prodotte dal modello di sviluppo che ha abbracciato, ed a limitare effettivamente gli interessi delle oligarchie economiche che sono parte integrante dell’attuale blocco di potere russo.
È chiaro che lo sviluppo degli eventi in Kazakistan dimostra che in un mondo multi-polare, che vede cristallizzarsi in blocchi sempre più coesi al proprio interno e più soggetti a frizioni tra di loro, è impossibile “tenere lo stesso piede in più scarpe”, mentre i tentativi di forzare gli equilibri manu militari, una volta sconfitti, producono – per i loro promotori – un esempio classico di eterogenesi dei fini.
La guerra nella sua complessa morfologia (guerreggiata, economica, ibrida che sia) si riafferma come strumento di risoluzione delle contraddizioni prodotte dall’attuale modello di sviluppo e tentativo per ribadire la gerarchia imperialista, in sintesi l’estrema ratio a cui ricorre un Occidente in crisi di egemonia.
Occorre quindi riaffermare con forza la necessità di una alternativa politica che comprenda una differente possibilità di cooperazione tra popoli e che li sottragga al giogo delle potenze imperialiste e degli interessi predatori delle multinazionali. Un sistema in grado di assicurare – in un mondo multipolare – Pane, Pace e Lavoro alle classi subalterne.
9/1/2022