Braccio di ferro con Parigi sulla missione Takuba
Andrea Mencarelli, Giacomo Marchetti
L’ambasciatore francese in Mali, Joël Meyer, ha 72 ore per lasciare il paese: questa è la risoluzione annunciata lunedì 31 gennaio dalle autorità maliane a seguito della convocazione dell’ambasciatore al Ministero degli Affari Esteri maliano. La decisione della giunta militare al potere è arrivata a seguito delle “osservazioni ostili e oltraggiose” fatte nei giorni scorsi dal ministro degli Esteri francese, Jean-Yves le Drian, il quale aveva attaccato senza mezze parole le autorità di transizione: “Questa giunta è illegittima e adotta misure irresponsabili”.
Non è tardata la risposta del suo omologo maliano, Abdoulaye Diop, il quale ha affermato che “questi insulti e queste osservazioni pregne di disprezzo […] sono inaccettabili”. Ha aggiunto: “Queste dichiarazioni tendono a mettere in discussione la legalità e la legittimità delle autorità presso le quali l’ambasciatore francese è accreditato, […] autorità che voi stessi non riconoscete”. “Che Parigi ci rispetti” è il messaggio che ha ribadito durante un’intervista a RFI.
La Francia prosegue nella sua operazione di costante delegittimazione delle espressioni di indipendenza e sovranità che si stanno succedendo nell’Africa occidentale – dal Mali al Burkina Faso passando per la Guinea – e continua ad adottare un doppio standard, come ricorda lo stesso ministro maliano Abdoulaye Diop: “La Francia applaude i colpi di Stato quando sono nel suo interesse e li condanna quando vanno contro i suoi interessi”.
Inoltre, la Francia esercita una pressione politica neanche troppo velata all’interno delle istituzioni comunitarie dell’Africa Occidentale, a partire dalla CEDEAO, in particolare attraverso gli ottimi rapporti che Macron e l’Eliseo intrattengono con quelli che vengono considerati i “cani da guardia” del neo-colonialismo francese: il presidente senegalese Macky sall e quello della Costa d’Avorio Alassane Ouattara.
Per non parlare del Chad dove, senza neanche batter ciglio, la Francia ha “tollerato” l’insediamento al potere per via ereditaria di Mahamat Déby, figlio di Idriss Déby, morto ad aprile 2021 dopo esser stato presidente ininterrottamente dal 1996 con cinque rielezioni consecutive, in un continuo crescendo di dubbi sulla legittimità dei vari processi elettorali.
Nonostante le autorità maliane abbiano sempre ribadito la loro “disponibilità a mantenere il dialogo e proseguire la cooperazione con tutti i suoi partner internazionali, compresa la Francia [ma] nel rispetto reciproco e sulla base del principio cardine di non interferenza”, Macron ha deciso di sfruttare il semestre della Presidenza francese dell’Unione Europea per rafforzare il progetto di autonomia strategica delineato nella “Strategic Compass”, a partire dalle prese di posizione e dagli interventi in politica estera ed internazionale.
Infatti, durante la conferenza stampa dello scorso 24 gennaio, l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, Josep Borrell, aveva dichiarato che “le decisioni prese dalle autorità maliane di proporre una transizione di quattro anni, così come il dispiegamento provato e verificato del gruppo russo Wagner, non sono accettabili”, condividendo e sostenendo le sanzioni economiche e finanziarie imposte dalla CEDEAO al Mali.
È chiaro che la situazione in Mali, e più in generale nell’intero Sahel, sono un banco di prova per quel salto di qualità – da polo a superstato imperialista – che l’Unione Europea è intenzionata a fare per affermare il suo ruolo come soggetto forte nella competizione interimperialista.
L’intero sistema della Françafrique sta scricchiolando e la situazione maliana è una frattura che la Francia non riesce più a nascondere né a controllare: un punto di caduta del suo neo-colonialismo che potrebbe diventare in prospettiva “l’Afghanistan dell’Unione Europea”.
In merito alla notizia dell’espulsione dell’ambasciatore francese, i media dell’Esagono parlano di una “crisi diplomatica” nei rapporti tra Bamako e Parigi, cercando – per quanto possibile – di smorzare una situazione di tensione arrivata ormai ad un punto di rottura evidente.
La presenza del gruppo paramilitare russo Wagner, che collabora in alcune aree del paese con le forze dell’esercito maliano nelle operazioni di sicurezza e formazione, ha esacerbato le relazioni tra il Mali e la Francia, in una escalation cominciata con il “colpo di Stato” dell’agosto 2020 in cui l’ex presidente Ibrahim Boubacar Keïta fu costretto alle dimissioni e proseguita con il rafforzamento al potere della giunta militare nel maggio 2021, fino alla recente proposta di una transizione civile di almeno quattro anni.
La questione relativa alla sicurezza interna in un contesto di crescenti violenze ed attacchi delle formazioni jihadiste nella regione è una delle priorità delle autorità maliane. La presenza militare francese in Mali data ormai gennaio 2013, quando l’allora presidente “socialista” François Hollande lanciò l’operazione Serval dalla base militare di Timbuctù, dove lo scorso 14 dicembre l’esercito ha ammainato definitivamente il tricolore francese.
Iniziata nel luglio 2014, l’operazione Barkhane ha messo in campo un dispositivo militare su dimensione regionale che ha visto il dispiegamento di oltre 5.000 soldati francesi nel Sahel. A partire dal 2018, le truppe francesi sono state integrate da piccoli contingenti militari provenienti da altri paesi europei: circa 90 uomini appartenenti alla Royal Air Force britannica, una settantina di militari danesi e oltre un centinaio svedesi.
La “grande riconfigurazione del meccanismo Barkhane” annunciata da Emmanuel Macron durante l’estate del 2021 consiste, in realtà, in una riorganizzazione della presenza militare attraverso la “europeizzazione” dell’intervento nel Sahel – per usare le parole della ministra della Difesa francese, Florence Parly.
Tuttavia, la “nuova” Task Force Takuba, in cui sono già impegnati attivamente militari italiani, potrebbe faticare non poco a svilupparsi ulteriormente.
Da un lato, c’è la ferma opposizione da parte della giunta militare maliana la quale intende attuare una profonda revisione degli accordi e delle relazioni con i partner internazionali, a partire proprio dal tema sulla sicurezza. In un comunicato dello scorso 24 gennaio, le autorità maliane avevano domandato il ritiro immediato del contingente delle forze speciali danesi delloperazione Takuba perché “questo spiegamento ha avuto luogo senza il consenso e la considerazione del protocollo aggiuntivo applicabile ai partner dell’operazione europea per intervenire in Mali”.
Il “braccio di ferro” è durato il tempo di un rimbalzarsi di accuse reciproche tra il ministro degli Esteri danese, Jeppe Kofod, e il portavoce del governo maliano, Abdoulaye Maïga. La Danimarca ha già annunciato che procederà al ritiro dei 105 militari inviati lo scorso 18 gennaio a Ménaka, nella zona delle “tre frontiere” (Mali-Burkina Faso-Niger).
Dall’altro lato, stanno emergendo dubbi e mal di testa in capo agli stessi paesi europei impegnati – alcuni per ora solo sulla carta – nell’operazione Takuba. Nonostante la Francia e altri 14 paesi europei abbiano rigettato in un comunicato congiunto le affermazioni della giunta militare sull’infondata e ingiustificata presenza militare danese, la decisione della Danimarca di ritirare il suo contingente potrebbe avere un impatto sui futuri schieramenti da parte degli altri alleati.
Norvegia, Ungheria, Portogallo, Romania e Lituania dovrebbero inviare le rispettive forze speciali quest’anno, ma pesa l’annuncio fatto dalla Svezia ad inizio gennaio di voler ritirare i suoi 150 militari che partecipano alla Quick Reaction Force delle forze speciali Takuba. Un annuncio che ha colto molti alleati europei di sorpresa, dopo che la Svezia aveva assunto la direzione delle operazioni speciali appena lo scorso novembre.
Persino la Francia, che ha puntato molto sulla europeizzazione dell’operazione Takuba, è costretta a mettere le mani. “Dobbiamo constatare che le condizioni del nostro intervento, sia esso militare, economico o politico, stanno diventando sempre più difficili. In breve, non possiamo rimanere in Mali a qualsiasi costo”, ha affermato la ministra francese Florence Parly sabato 29 gennaio su France Inter.
Al termine della riunione tra i ministri della difesa e delle forze armate dei paesi partecipanti all’operazione Takuba di venerdì scorso, Parigi e i suoi alleati si sono dati due settimane di tempo per decidere circa l’evoluzione del loro impegno militare in Mali. “Data la rottura del quadro politico e militare (in Mali), non possiamo restare allo stato attuale delle cose”, ha avvertito il ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian, deplorando i “crescenti ostacoli alla missione delle forze europee”.
Dal canto suo, il Mali vuole rivedere i suoi accordi di cooperazione militare con la Francia perché, secondo il governo maliano, “alcune disposizioni sono contrarie alla Costituzione e alla sovranità del Mali”. Le proposte di modifica sono state presentate al Ministero degli Esteri francese lo scorso 31 dicembre, ma Parigi non ha ancora risposto.
Inoltre, intende far rispettare il protocollo addizionale applicabile ai partner europei coinvolti nell’operazione Takuba, sottoponendo il dispiegamento di contingenti militari esteri “all’invito scritto del presidente della Repubblica, capo dello Stato, oltre all’autorizzazione e all’approvazione esplicita del governo della Repubblica del Mali”.
Se in Europa regna l’incertezza circa l’operazione Takuba, l’obiettivo della giunta maliana è più che chiaro: riprendere il controllo della presenza militare straniera sul suo suolo come questione fondamentale di sovranità nazionale.