Cinzia Della Porta in Contropiano anno 31 n°1 – Unione Europea: da polo a superstato imperialista?
Il primo passo da fare nel ragionamento che svilupperò in questo contributo è inquadrare scientificamente lo stato delle cose: anidride carbonica (CO2), clima e livello del mare sono sempre variati nella storia della Terra, con periodi di durata diversa: 20mila, 40mila, 100mila anni.
Si chiamano variazioni climatiche di breve periodo e alta frequenza e sono dovute alla variazione dei parametri orbitali della Terra intorno al Sole.
L’ultima glaciazione è finita 10-20mila anni fa per cui stiamo vivendo un periodo interglaciale caratterizzato dal livello del mare in risalita e riscaldamento. Nonostante ciò l’aumento di CO2 attuale è antropogenico per attività industriale perché, come si vede nella carota di ghiaccio di Vostok, la CO2 interglaciale arriva a 300 ppm e ora abbiamo superato 400 ppm nell’atmosfera.
Gli elementi che ritengo importante sottolineare sono: la responsabilità storica del cambiamento climatico, la velocità degli ultimi 70 anni e il dato quantitativo (rapporto emissioni storiche/popolazione), questo per un adeguato inserimento nel dibattito sul cambiamento climatico, dato che esiste una relazione diretta e lineare tra la quantità totale di CO2 rilasciata dall’attività umana e l’innalzamento della temperatura della Terra.
Inoltre il livello di riscaldamento della superficie terrestre e le emissioni di CO2 di centinaia di anni fa continuano a contribuire al riscaldamento del pianeta – e il riscaldamento attuale è determinato dal totale cumulativo delle emissioni di CO2 nel tempo.
Oggi il dibattito è incentrato sugli attuali 1,2°C di riscaldamento e sulla necessità di non superare 1,5°C.
Ma la storia ha un peso, perché la quantità cumulativa di CO2 emessa dall’inizio della rivoluzione industriale è strettamente legata all’1,2°C di riscaldamento di oggi. Dal 1850 ad oggi gli esseri umani hanno pompato circa 2.500 miliardi di tonnellate di CO2 (Gt CO2) nell’atmosfera. Per rimanere sotto 1,5°C di riscaldamento resta un budget di meno di 500 Gt di carbonio.
Questo significa che, entro la fine del 2021, il mondo ha bruciato l’86% del budget di carbonio con una probabilità di 50-50 di rimanere sotto 1,5°C.
Il legame tra le emissioni cumulative e il riscaldamento è misurato dalla “risposta climatica transitoria alle emissioni cumulative” (TCRE), stimata dall’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) a 1,65°C per 1.000 miliardi di tonnellate di carbonio (0,45C per 1.000GtCO2). Sulla base del TCRE, quelle emissioni cumulative di CO2 corrispondono a un riscaldamento di circa 1.13°C – e le temperature nel 2020 hanno raggiunto circa 1.2°C sopra i livelli pre-industriali.
Esaminare la responsabilità dei vari paesi per le emissioni storiche di CO2 dal 1850 al 2021 significa includere le emissioni di CO2 dall’uso del suolo e dalla silvicoltura, oltre a quelle dai combustibili fossili.
Al primo posto della classifica ci sono gli Stati Uniti che hanno rilasciato più di 509GtCO2 dal 1850 e sono responsabili della maggior parte delle emissioni storiche, con circa il 20% del totale globale. La Cina è relativamente seconda, con l’11%, seguita da Russia (7%), Brasile (5%) e Indonesia (4%).
A livello globale, le emissioni derivanti dall’uso della terra e dalla silvicoltura sono rimaste relativamente costanti negli ultimi due secoli. Ammontavano a circa 3GtCO2 nel 1850 e si attestano a circa 6GtCO2 oggi, nonostante gli enormi cambiamenti nei modelli regionali di deforestazione nel tempo.
Al contrario, le emissioni dei combustibili fossili sono raddoppiate negli ultimi 30 anni, quadruplicate negli ultimi 60 anni e aumentate di quasi dodici volte nel secolo scorso. Con l’aumento delle emissioni, il budget di carbonio è stato consumato ad un ritmo sempre più rapido, con metà del totale cumulativo dal 1850 che è stato rilasciato solo negli ultimi 40 anni.
La questione di chi è responsabile dell’utilizzo del bilancio del carbonio è chiaramente cruciale ma non è semplice nel contesto dei dibattiti sulla giustizia climatica. Parla della responsabilità di affrontare l’impatto del cambiamento climatico fino ad oggi, così come di chi dovrebbe fare di più per prevenire un ulteriore riscaldamento.
I maggiori emettitori erano principalmente nazioni geograficamente estese che tagliavano le loro foreste temperate per terreni agricoli e per il combustibile, come gli Stati Uniti, la Russia e la Cina. Allo stesso tempo, alcuni paesi europei (che avevano in gran parte disboscato la loro terra per l’agricoltura prima del 1850) iniziano a salire in classifica perché erano in piena industrializzazione alimentata dal carbone, tra cui Francia, Germania e, soprattutto, il Regno Unito. Anche se questi paesi hanno ridotto significativamente le loro emissioni negli ultimi decenni, rimangono oggi tra i più importanti contributori al riscaldamento storico.
Anche le nazioni della foresta pluviale del Brasile e dell’Indonesia sono state deforestate alla fine del 19° e all’inizio del 20° secolo dai coloni che coltivavano gomma, tabacco e altre colture commerciali. Ma la deforestazione è iniziata “sul serio” a partire dal 1950 circa, anche per l’allevamento di bestiame, il taglio di alberi e le piantagioni di palma da olio.
Gli Stati Uniti rimangono in prima posizione per le loro emissioni cumulative di CO2 in tutta la serie temporale (1850-2021), poiché il loro sviluppo è continuato prima con l’uso diffuso del carbone, poi con l’avvento dell’automobile.
Un altro elemento da prendere in considerazione sono le emissioni pro-capite annuali di un paese e la somma nel tempo, con il risultato, al 2021, che alcuni dei paesi classificati tra i primi 10 ‘inquinatori’ escono completamente dalla classifica, in particolare Cina, India, Brasile e Indonesia.
Che fa l’Unione Europea
La politica della UE in materia di ambiente si fonda sui principi della precauzione, dell’azione preventiva e della correzione alla fonte dei danni causati dall’inquinamento, nonché sul principio “chi inquina paga». I programmi pluriennali di azione per l’ambiente definiscono il quadro per l’azione futura in tutti gli ambiti della politica ambientale. Essi sono integrati in strategie orizzontali e sono presi in considerazione nell’ambito dei negoziati internazionali in materia di ambiente. La politica ambientale è stata messa al centro dell’elaborazione delle politiche dell’UE e la Commissione europea ha varato il Green Deal europeo, il principale motore della sua strategia di crescita economica.
Azione dell’UE volta a contrastare i cambiamenti climatici. Il quadro 2030 fa seguito agli obiettivi «20-20-20» per il 2020 definiti nel 2007 dai leader dell’Unione, ovvero una riduzione pari al 20 % delle emissioni di gas a effetto serra, un aumento del 20 % della quota di energie rinnovabili nel consumo finale di energia e una riduzione del 20 % del consumo totale di energia primaria dell’UE (il tutto rispetto al 1990), che si sono tradotti in misure legislative vincolanti.
Il Green Deal europeo L’11 dicembre 2019 la Commissione ha presentato il Green Deal europeo, un pacchetto ambizioso di misure finalizzate al raggiungimento della neutralità dell’UE in termini di emissioni di carbonio entro il 2050.
Le misure, accompagnate da una tabella di marcia delle politiche principali, spaziano dai tagli ambiziosi alle emissioni agli investimenti in attività di ricerca e innovazione all’avanguardia, allo scopo di preservare l’ambiente naturale dell’Europa. Sostenuto da investimenti in tecnologie verdi, soluzioni sostenibili e nuove imprese, il Green Deal è anche concepito come nuova strategia di crescita in grado di trasformare l’UE in un’economia sostenibile e competitiva.
In estrema sintesi, il Green Deal europeo vuole migliorare lo stato di salute dell’ambiente e dei cittadini rendendo i propri Stati membri climate-neutral, ovvero riducendo le emissioni e le fonti di inquinamento e, al contempo, sviluppando una nuova economia capace di generare nuovi posti di lavoro.
Tutto ciò si traduce in azioni che possiamo raggruppare in cinque ambiti:
- Clima: L’Unione Europea punta a diventare climate-neutral, cioè a emissioni zero, entro il 2050. Per far questo, proporrà una legge comunitaria sul clima che non soltanto tradurrà in obblighi e prescrizioni questa volontà, ma indicherà la strada ai nuovi investimenti per enti e imprese;
- Energia: In questo ambito, l’obiettivo è la totale decarbonizzazione del sistema energetico europeo. A oggi, infatti, la produzione e l’uso di energie produce più del 75% delle emissioni di gas serra: l’affrancamento dal petrolio e dalle altre fonti fossili è il prerequisito essenziale per contrastare il cambiamento climatico;
- Costruzioni: Uno dei punti cardine del Green Deal dovrà necessariamente coinvolgere anche le strutture edilizie pubbliche e private. Il 40% del consumo energetico è, infatti, da imputare all’edilizia: costruire o ristrutturare gli edifici con le tecnologie più avanzate permetterà ai cittadini di ridurre drasticamente i consumi energetici e, quindi, anche le bollette;
- Industria: Oggi, soltanto il 12% delle attività industriali europee impiega materiali riciclati nei processi produttivi. Per questo, il Green Deal europeo dovrà incentivare le innovazioni in tutti i settori industriali per realizzare progetti concreti di economia circolare;
- Mobilità: I trasporti sono all’origine del 25% delle emissioni di gas serra: un’Europa più green non può prescindere da forme più sostenibili di mobilità pubblica e privata.
Il piano finanziario del Green Deal europeo è suddiviso tra fondi del bilancio europeo, stimati per almeno il 25% del totale ovvero una cifra che ammonta a 485 miliardi di euro fino al 2030, cofinanziamento dei privati e prestiti dalla Banca europea per gli investimenti (BEI), la quale ha già annunciato che il 50% degli investimenti entro il 2025 sarà dedicato a progetti green. L’obiettivo di tali investimenti è suddiviso in due momenti: riduzione del 40% delle emissioni entro il 2030 e riduzione del 100% delle emissioni entro il 2050.
L’Unione Europea non è così verde come sostiene. Alcuni elementi da sottolineare
Tutta l’ipotesi su descritta sinteticamente per punti si aggrappa al dogma della crescita economica, l’impegno a “una nuova strategia di crescita” in cui la crescita economica è disaccoppiata dall’uso delle risorse. La Commissione afferma che tra il 1990 e il 2017 le emissioni di CO2 in Europa sono diminuite del 22% mentre la sua economia è cresciuta del 58%. Quello che non dice è che negli ultimi due decenni le importazioni dalla Cina, non aggiunte ai dati sulle emissioni europee, sono quadruplicate da 90 a 420 miliardi di euro.
Un progetto, quello della UE, costruito sul colonialismo verde. La “tecnologia verde” è al centro del Green Deal europeo. Ma i pannelli solari e le batterie delle auto elettriche hanno bisogno di litio, cobalto, nichel e altre scarse materie prime. Questi elementi sono principalmente concentrati in regioni del mondo le cui comunità stanno già soffrendo a causa di un violento estrattivismo che ha radici storiche nel saccheggio coloniale. L’accordo parla del passaggio a “un’economia circolare “, ma il valore totale delle importazioni nell’UE, compresi i minerali, è tre volte superiore alle sue esportazioni totali.
La UE sta finanziando i grandi inquinatori. La Banca europea per gli investimenti (BEI) ha il compito di guidare il finanziamento del Green Deal. Ma la banca non ha criteri ambientali vincolanti. Né i fondi di “coesione” e “giusta transizione” dell’UE escludono gli investimenti in combustibili fossili. Quando è iniziata la pandemia COVID19, la BCE ha avviato il suo programma di quantitative easing acquistando titoli di stato e obbligazioni societarie fino a 1.850 miliardi di euro. Le aziende beneficiarie di questo programma includono Repsol, Airbus, BMW, Total Capital, E.ON e Shell, alcuni dei più grandi inquinatori del continente.
Le soluzioni che offre sono false. “L’idrogeno spacca“, ha detto Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea e responsabile del Green Deal europeo. In teoria, l’idrogeno può essere prodotto in modo “verde”, con l’elettricità utilizzata nel processo proveniente da fonti rinnovabili come l’eolico e il solare, ma in Europa solo lo 0,1% di idrogeno viene prodotto in questo modo; Il 90% di esso è “grigio”, prodotto utilizzando combustibili fossili come il gas. Il passaggio all’idrogeno significa sostanzialmente passare da un combustibile fossile (petrolio o carbone) a un altro, il gas. L’industria del gas sta promuovendo l’idrogeno come “combustibile ponte” che svolge un ruolo chiave nella transizione verde. Ma uno studio di Energy Watch ha mostrato che un passaggio dal carbone al gas potrebbe effettivamente aumentare l’effetto serra del 40%. Le stime suggeriscono che entro il 2030 saranno necessari 430 miliardi di euro per aumentare l’idrogeno, un terzo dei quali potrebbe essere denaro pubblico, destinato ai combustibili fossili come parte della transizione “verde”.
La UE viene pilotata dai lobbisti aziendali. L’industria dei combustibili fossili ha speso quasi 60 milioni di euro nel 2019 facendo pressioni per l’idrogeno. Dal 2010, le sole cinque grandi aziende di combustibili fossili – Shell, BP, Total, ExxonMobil e Chevron – hanno speso più di 250 milioni di euro per fare pressione sull’UE. La ricucitura sull’idrogeno è uno dei risultati di questi sforzi. Oltre la lobby energetica la lobby agricola europea è già riuscita a vanificare gli obiettivi dell’agricoltura ecologica. E i lobbisti della distribuzione sono riusciti a convincere l’UE ad annacquare le norme sull’importazione di olio di palma, uno dei principali protagonisti della deforestazione.
Il Trattato sulla Carta dell’Energia (ECT). Consente alle società energetiche di citare in giudizio i governi per politiche che potrebbero influire negativamente sui loro profitti, comprese le politiche climatiche. Nel febbraio di quest’anno, il gigante energetico RWE ha annunciato di aver citato in giudizio i Paesi Bassi per 1,4 miliardi di euro per aver pianificato l’eliminazione graduale del carbone. Investigate Europe calcola che l’UE, il Regno Unito e la Svizzera potrebbero essere costretti a pagare 345 miliardi di euro nei prossimi anni per politiche per il clima. Il Regno Unito, che è stato il primo grande paese ad approvare una legge sulle emissioni nette zero, è il più vulnerabile a possibili azioni legali, con attività coperte da ECT per un valore di 141 miliardi di euro. La stessa Commissione europea ha definito il trattato “obsoleto” e ne chiede la modernizzazione. Ma scienziati e legislatori di tutta Europa affermano che il trattato non è riformabile: l’unico modo percorribile è uscirne ora.
Tra le direttrici principali del PNRR presentato dall’Italia e approvato dal Consiglio e della Commissione Europea vi è, infatti, un corposo capitolo dedicato all’ambiente, la seconda delle sei “missioni” nelle quali è suddiviso il Piano, denominata “Rivoluzione verde e transizione ecologica”.
Per quest’ultima, il Piano del Governo stanzia 69,94 miliardi. Ciascuna missione, poi, è a sua volta suddivisa in componenti. La missione che ci interessa da vicino è divisa in quattro componenti: agricoltura sostenibile ed economia circolare; transizione energetica e mobilità sostenibile; efficienza energetica e riqualificazione degli edifici; tutela del territorio e della risorsa idrica. Etichette rassicuranti, a prima vista lodevoli e improntate alle migliori intenzioni.
Qualche mese fa il ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, ha rilasciato dichiarazioni in cui proponeva come possibile soluzione alla crisi energetica la fissione nucleare.
Non è stato un caso che la stessa governance europea ha espresso posizioni di apertura verso il nucleare, a cominciare da Ursula von der Leyen e Frans Timmermans, rispettivamente presidente e vice-presidente della Commissione Europea, che durante la Cop26 hanno espresso la necessità di guardare alla fissione nucleare come alternativa (insieme al gas ed alle fonti di energia rinnovabile) all’energia da fonti fossili. Di fronte alla pesante responsabilità di arrestare l’ulteriore riscaldamento climatico e abbattere le emissioni di CO2 si risponde dunque con un arretramento e con la falsa premessa che si tratti di una soluzione con minor impatto ambientale, che sfrutta materie prime inesauribili. In un contesto generale di crisi energetica le scelte sul nucleare, su cui la Commissione Europea stessa si pronuncerà con un posizionamento definitivo, non sono meramente scelte tecniche e di bilancio sui costi, come vogliono far credere, ma riguardano il ruolo strategico di competizione del polo imperialista europeo, in cui sono in gioco la sua indipendenza e resilienza energetica e gli equilibri che l’UE deve mantenere al suo interno e verso l’esterno. Un’eventuale conferma e affermazione del nucleare sarebbe dunque una scelta strategica dell’UE per non rimanere indietro nella competizione interimperialistica internazionale.
E dipingere di verde il nucleare è veramente difficile, oltre a tutte le questioni legate alla poca disponibilità di uranio, ai tempi lunghi e costosi di costruzione delle centrali, tutti processi che producono una grossa quantità di CO2, stoccaggio scorie, senza parlare dei pericoli determinati da questa fonte energetica, come dimostrato dai disastri avvenuti in vari paesi. Il nucleare, quindi, non è chiaramente una risposta alla domanda.
Per concludere il mio intervento vi ripropongo l’antica novella della rana e dello scorpione: “Uno scorpione chiede ad una rana di lasciarlo salire sulla sua schiena e di trasportarlo sull’altra sponda di un fiume. In un primo momento la rana rifiuta, temendo di essere punta durante il tragitto. L’aracnide argomenta però in modo convincente sull’infondatezza di tale timore: se la pungesse, infatti, anche lui cadrebbe nel fiume e, non sapendo nuotare, morirebbe insieme a lei. La rana, allora, accetta e permette allo scorpione di salirle sulla schiena, ma, a metà strada, la punge condannando entrambi alla morte. Quando la rana chiede allo scorpione il perché del suo gesto folle, questi risponde: “È nella mia natura!”
Bene, oggi la rana siamo noi, il “mondo di sotto” e tutto l’ecosistema che ci circonda.
Lo scorpione è il capitalismo, che per sua intrinseca natura non può far altro che seguire le bronzee leggi del mercato e della concorrenza, alle quali non potrebbe trovare alternativa se non snaturandosi, cambiando completamente paradigma sociale e produttivo. Ma noi, da atei impenitenti, non crediamo nei miracoli.
Il movimento comunista si costituì in rottura con chi, in forme diverse e con iniziali, buone ed utopistiche intenzioni, ipotizzò “patti fra produttori”, ipotesi cooperativistiche e modelli di società paralleli ed alternativi, senza mai scalfire l’essenza dei rapporti sociali di produzione in costruzione grazie alla nascente borghesia industriale, commerciale e finanziaria. Poi le buone intenzioni si sono trasformate, come ben sappiamo, nella socialdemocrazia del voto sui crediti di guerra, dei Noske, di Bad Godesberg e dei Tony Blair.
La razionalità del pensiero scientifico, sviluppatosi attraverso il materialismo dialettico e lo studio approfondito dei più intimi meccanismi del Modo di Produzione Capitalistico ci dicono oggi che le intuizioni marxiane si confermano nella loro sostanza e si materializzano nella attuale crisi sistemica, che attanaglia i paesi a cosiddetto capitalismo maturo.
Solo una violenta spallata a questo putrescente sistema potrà dare, forse, una prospettiva al genere umano ed al pianeta che abitiamo. Il resto sono solo bla bla di chi oggi, sul terreno della lotta ambientale, tira per la giacchetta un sistema morente senza chiamarlo per nome, con il rischio di essere schiacciato dal suo cadavere.