Francesco Piccioni in Contropiano anno 31 n°1 – Unione Europea: da polo a superstato imperialista?
Le ragioni di una caduta possono essere rintracciate proprio nelle caratteristiche principali che ne avevano sostenuto il successo. Dallo sganciamento del dollaro rispetto all’oro (1971) fino all’abolizione del Glass-Stagall Act (1999), passando per l’enorme aumento dei tassi di interesse sotto Reagan, gli Usa separano lo sviluppo del proprio benessere dalle capacità produttive interne, aprendo la lunga fase della cosiddetta “globalizzazione” e della finanziarizzazione dell’economia. Questo ha consentito di mandare fuori giri l’antagonista del dopoguerra (il socialismo reale), ma alla lunga la delocalizzazione produttiva ha fatto crescere i competitor, a cominciare dalla Cina ed altre economie emergenti. A risentirne negativamente sono stati gli altri assi strategici dell’egemonia Usa – sviluppo tecnologico e superiorità militare – che hanno visto diminuire rapidamente il vantaggio sulla concorrenza. Mentre l’enorme disoccupazione reale interna – in continua crescita – andava erodendo il consenso sociale ad un “sogno americano” sempre più limitato a pochissimi soggetti.
Gli Stati Uniti sono diventati vittime dei meccanismi che avevano usato per costruire la propria egemonia sul mondo e vincere il confronto son il “socialismo reale”, fondamentalmente con l’Unione Sovietica.
Il contesto economico-finanziario
1) Patto di ferro siglato nel febbraio del 1945 tra Ibn al-Saud e Franklin D. Roosevelt a bordo dell’incrociatore Quincy, in base al quale Riad avrebbe venduto greggio solo ed esclusivamente in cambio di dollari, come contropartita per la “protezione” diplomatica e militare garantita dagli Usa.
2) Cancellazione della parità tra dollaro e oro, rompendo il meccanismo deciso a Bretton Wood. Dall’agosto del 1971, gli Stati Uniti stampano e diffondono nel mondo una moneta flat, apparentemente disancorata da un bene fisico (l’oro, storicamente), e che funziona contemporaneamenteo come misura del valore, mezzo di pagamento interno e internazionale e riserva di valore. Un privilegio unico, mai verificatosi prima nella Storia.
3) Ma quello sganciamento, secondo la normale dinamica del mercato capitalistico, implicava “necessariamente” una forte svalutazione della moneta statunitense. Qui interviene l’importanza sia dell’accordo con i sauditi – rinnovato nel ‘74 tra Nixon e Faisal, ma adattato al nuovo scenario.
Le fortissime pressioni al ribasso sul dollaro, conseguenti allo sganciamento dall’oro decretato da Nixon, furono compensate dalla forsennata rivalutazione del prezzo del petrolio (+400%) verificatasi in seguito all’embargo petrolifero ai Paesi alleati di Israele imposto dai paesi arabi durante la Guerra dello Yom Kippur. In questo modo la “necessaria” svalutazione del dollaro venne trasformata in inflazione dei prezzi energetici per tutto il mondo.
E dato che l’energia è l’unica merce – insieme al lavoro umano – che entra nella formazione del prezzo di tutte le altre, ecco che il dollaro “a prezzo politico variabile” consente di scaricare sul resto del mondo ogni squilibrio interno Usa, nonché ogni problema insorgente nelle ragioni di scambio con gli altri paesi.
Non solo. L’enorme crescita della liquidità in dollari rastrellata a quel punto dai produttori di petrolio poteva essere vantaggiosamente riportata sui mercati finanziari statunitensi (il gran ballo dei “petrodollari”), ovviamente a prezzo della rinuncia di quei paesi a sviluppare un autonomo sistema industriale (cosa possibile per paesi “spopolati” come Arabia Saudita, Kuwait, Emirati vari del Golfo Persico, ma suicida se accettata da paesi con popolazione vasta e crescente, come Iraq, Iran, Venezuela, Nigeria, ecc).
Negli stessi anni (1973) entra in vigore il codice Swift per le principali transazioni finanziarie internazionali, divenendo lo standard di fatto. Tutte le transazioni lì trattate sono denominate in dollari, rafforzando anche su questo fronte lo strapotere “oggettivo” della moneta Usa.
4) Negli anni ’80, con Ronald Reagan alla Casa Bianca e Paul Volcker alla Federal Reserve, l’innalzamento dei tassi al 20% attuato per contrastare la stagflazione, finanziare i piani di riarmo indispensabili a “stressare” l’antagonista sovietico e colmare la voragine apertasi nei conti pubblici per effetto del radicale taglio delle tasse, determinò un colossale deflusso di capitali dai Paesi emergenti verso i mercati azionario e obbligazionario statunitensi. Il mondo “non socialista” viene così obbligato suo malgrado a finanziare il rafforzamento della potenza imperiale.
5) Il dollaro ne usciva rafforzato in modo anomalo, tanto da penalizzare pesantemente le capacita di export della produzione statunitense. Da lì prese il via la lunga fase delle “delocalizzazioni” per minimizzare i costi produttivi, agendo sull’unico elemento variabile sui mercati mondiali: il costo del lavoro, unica merce senza un prezzo internazionale ma differente da paese a paese (e anche all’interno dello stesso paese). Al tempo stesso, la grande forza del dollaro e l’obbligo di accettarlo come moneta per tutto il mondo – causa la forza militare Usa e il sistema dei pagamenti internazionali – permetteva agli Stati Uniti di compensare la mancata produzione interna con una fortissima capacità di importazione (carta moneta contro merci fisiche). Le buste paga dei lavoratori statunitensi potevano anche restare bloccate per anni, ma solo perché con la stessa quantità di dollari si poteva comprare una più vasta quantità di merci prodotte altrove (ad un certo punto la catena di supermercati WalMart è arrivata a convogliare da sola il 12% delle esportazioni cinesi negli Usa; merci-salario adeguate a quei salari). Il consenso sociale poteva così essere mantenuto entro livelli ampiamente gestibili.
6) Il grave peggioramento della bilancia commerciale (la differenza mostruosa tra import e export) sul breve periodo fu attutito dapprima con l’accordo del Plaza – 1985, attraverso il quale gli Usa imposero alle controparti europee e giapponese la svalutazione del dollaro – e successivamente con dazi pesantissimi su una vasta gamma di prodotti d’importazione (semiconduttori, ecc.). Le merci statunitensi tornano così “competitive” mentre si sta preparando la rivoluzione informatica, che ha in quel momento il baricentro negli States. Si ferma in qualche modo l’emorragia industriale, ma ciò che era stato delocalizzato non rientra più.
7) Dopo l’89, dominio assoluto del dollaro. Gli Usa hanno vinto, distruggono e colonizzano l’ex impero sovietico e i paesi del Patto di Varsavia. La Russia di Eltsin è una loro dependance fin quando Putin e il il Kgb non riescono a rovesciare la situazione con una fiammata di nazionalismo e lo spostamento del baricentro economico-finanziario ad una diversa cordata di oligarchi russi. E’ il periodo della “globalizzazione” apparentemente inarrestabile, con il mondo che viene messo in produzione per il capitale a centralità statunitense, che nel frattempo si avvia alla pressoché totale finanziarizzazione.
8) Il colpo finale è di Clinton – 1999 – con l’abolizione del Glass-Steagall Act del 1933, che cancella il confine tra banche d’affari e banche “normali”, aprendo le dighe alla speculazione finanziaria senza più limiti e dunque alla creazione di immense bolle pronte all’esplosione. E infatti c’è subito la crisi della new economy, che chiude l’epopea dei “maghetti” informatici che nascono nelle “cantine” e poi approdano a Wall Street. Da lì in poi il “sogno americano” sarà privilegio di pochissimi (Zuckerberg, Musk, pochi altri).
Si afferma senza resistenza il principio-sogno di “far soldi con i soldi” – nei termini de Il Capitale di Marx, D – D’ – ovvero di rastrellare velocemente profitti senza passare per il processo di produzione, che ha tempi di rotazione del capitale (dall’investimento alla produzione delle merci, alla loro vendita) e dunque di “realizzazione” del plusvalore decisamente più lunghi di un click. Da qui in poi, soprattutto per gli Usa, il capitale finanziario perde quasi ogni relazione con il territorio di appartenenza (dove la società ha sede e gli amministratori risiedono), e la possibilità di evadere le tasse stabilendo la sede legale nei centri off-shore che offrono segretezza bancaria, bassa o nulla tassazione e legislazione senza vincoli. Va ricordato che la finanza è (o era) “il sistema di allocazione capitalistico” delle risorse, sulla base delle prospettive di profitto dei diversi comparti industriali. Se invece diventa (ed è diventata) una “industria indipendente”, allora il “genio” della liberalizzazione dei movimenti di capitali esce dalla “bottiglia”; non è pensabile che vi rientri e quindi è impensabile di tornare ad un regime amministrativo e vincolistico ormai distrutto. Vi si può tornare solo a prezzo di una distruzione di capitale di dimensioni inimmaginabili.
9) La crisi del 2007-2008, iniziata con la bolla dei mutui subprime e con i salvataggi pubblici, poi esplosa con il fallimento di Lehmann Brothers, ha prima mostrato l’impossibilità anche pratica di mantenere questo “modello” di capitalismo finanziario.
Ma la necessità di non far crollare il castello di carte finanziarie costruito nel frattempo, che avrebbe gettato nel baratro non solo il “capitale fittizio” ma anche quello “reale”, o industriale in senso stretto, ha portato ad oltre un decennio di quantitative easing, tassi di interesse a zero o addirittura negativi. Una massa spaventosa di liquidità – le banche centrali principali hanno “emesso liquidità dal nulla”, comprando a prezzo pieno titoli di stato o corporate che semplicemente non valevano più niente o avevano perso gran parte del loro valore – è stata riversata sui mercati finanziari come una valanga d’acqua su un incendio.
Veniamo così ora da oltre un decennio di stagnazione produttiva in tutto l’Occidente neoliberista (principalmente negli Usa, ma anche in Europa) cui non è corrisposta alcuna vera crisi dei mercati azionari e finanziari. La liquidità messa a disposizione – e ancora emessa sia dalla Federal Reserve che dalla Bce, oltre ad altre minori – era sufficiente a tenere in piedi la speculazione finanziaria, ma non è mai riuscita a tradursi in finanziamento all’economia reale. “L’acqua c’è, ma il cavallo non beve”, perché l’investimento reale aveva ed ha margini di profitto troppo bassi e tempi di ritorno troppo lenti rispetto all’attività “di carta”, o meglio delle righe di codice informatico.
10) Ora però la pandemia può far riversare quella spaventosa massa di liquidità “senza sottostante” su sistemi economici e produttivi reali stressati, ma protesi a “recuperare” il tempo perduto. E quindi trasformarsi in inflazione galoppante. I primi segnali si cominciano a vedere a partire da materie prime e microprocessori, ma lo scenario è ancora più chiaro se si prende in esame il settore automobilistico, che è stato il pilastro industriale per eccellenza delle economie capitalistiche di tutto il Novecento. Nel settore automotive – scrive Roberto Sommella su Milano Finanza
“quello più labor intensive e più soggetto all’evoluzione tecnologica – si pensi alla carenza di microchips e alla corsa all’elettrico – le aziende che maggiormente capitalizzano in borsa sono ormai quelle che meno vendono.” “In quella classifica delle prime nove case automobilistiche mondiali, la leadership incontrastata è di Tesla, che stacca di netto tutte le altre. L’azienda-feticcio di Elon Musk, l’uomo che si fece imprenditore e poi influencer, svetta con una capitalizzazione di oltre 1.000 miliardi di dollari, a fronte di soli 31,5 miliardi di fatturato, seguita dal colosso Toyota, che a fronte di 244 miliardi di valore borsistico nera ricavi per 275.” Quattro volte il valore a fronte di ricavi inferiori di nove volte. “La terza, il colosso Volkswagen, vale sui mercati quasi 140 miliardi di dollan e fattura però per 275, seguita da Rivian, la semi-sconosciuta azienda che produce suv, per ora distribuiti solo ai suoi dipendenti, ma che già vale circa 124 miliardi sui listini, ossia sei più di MercedesDaimler (108, a fronte di ricavi per 154 miliardi).
Dopo quattro rivoluzioni industriali va spiegato agli operai di General Motors (89 miliardi di capitalizzazione è 122 di fatturato), Ford (80 miliardi di capitalizzazione e 127 di ricavi), Bmw (68 miliardi di valore contro 114 di ricavi) e Stellantis, la conglomerata Fca-Psa, (63 miliardi in Borsa, per intendersi il doppio rispetto a quando Sergio Marchionne prese le redini di Fiat, contro 155 di vendite) che la loro fatica alla catena di montaggio può esser vana.”
E’ il mondo rovesciato, così come aveva fatto intravedere un decennio in cui il costo del denaro è stato a zero o sottozero, e in cui – perciò – chi presta denaro accetta di vedersene restituire un po’ di meno anziché guadagnarci, pur di avere la certezza di non perdere tutto.
L’inversione di priorità capitalistica tra economia reale e finanza non poteva essere più netta. E’ uno stadio nuovo e impensabile del capitalismo, che ha nell’Occidente neoliberista l’epicentro.
Ma è anche uno stadio di crisi sistemica, vista la contemporanea esplosione della crisi ambientale e la palese diminuzione dell’egemonia Usa, che rende possibili “avventure” nazionalistiche prima impensabili e il moltiplicarsi di scenari instabili su tutto il pianeta.
Come spiegano infatti diversi analisti, “L’interrogativo che si fa pressante riguarda l’egemonia americana.
La potenza egemone produce un bene pubblico essenziale, la sicurezza internazionale, ma lo produce in modo ovviamente sub-ottimale e distorto perché lo produce a proprio vantaggio.” Abbiamo visto fin qui le cause economiche e finanziarie di questa crisi di egemonia, di fatto coincidenti con i meccanismi istituzionalizzati – sul piano mondiale – che l’avevano resa possibile e relativamente stabile.
a) Ruolo centrale del dollaro nel sistema dei pagamenti internazionali e sua “accettazione universale” per mancanza di alternative altrettanto credibili;
b) Conseguente indifferenza relativa per i livelli del debito pubblico (gli Usa non avrebbero mai potuto rispettare i “parametri di Maastricht”) e soprattutto per gli squilibri strutturali delle partite correnti; un modello di crescita tirata dal debito (negli ultimi cinque anni nel sistema USA il debito è cresciuto a ritmi del 14% all’anno, mentre in Europa o in Giappone cresceva al 5% circa – un ritmo quasi triplo rispetto al resto del mondo occidentale – anche se il differenziale di crescita del Pil è minimo);
c) Accordo di ferro con l’Arabia Saudita nella gestione del mercato petrolifero (con conseguente aggressività verso i paesi produttori variamente “indipendenti”: Iran, Libia, Venezuela, Iraq)
d) Superiorità tecnologica e nella ricerca scientifica
e) Superiorità militare e capacità di “proiezione della forza” su scala planetaria;
f) Consenso sociale interno fondato su livelli di benessere, occupazionali, salariali mediamente superiori a quelli del resto del mondo e sulla grande mobilità sociale (il “sogno americano”).
Queste ragioni avevano reso possibile “scaricare ogni crisi interna sul resto del mondo”, ripristinando o salvaguardando l’egemonia statunitense.
Ma… Il dollaro è ormai insidiato da altre monete, in crescita anche come riserva di valore e mezzo di pagamento internazionale. I Brics, negli ultimi anni, su impulso soprattutto russo e cinese, hanno cominciato ad ampliare le riserve di valute alternative al dollaro, a partire proprio dallo yuan; che era poi il piano di “internazionalizzazione dello yuan-renminbi” disegnato da tempo a Pechino. Nel marzo 2018, la Cina ha aperto a Shangai il primo mercato dei future sul petrolio denominati in yuan e convertibili in oro, e inaugurato un parametro di riferimento del mercato petrolifero alternativo al Brent e al West Texas Intermediate. Questa mossa apre uno grande spiraglio alle economie dei Paesi sottoposti a sanzioni Usa (a cominciare da Russia, Iran e Venezuela). E contemporaneamente rompe il monopolio dello Swift nel sistema dei pagamenti internazionali su cui – dal 2001 – Washington aveva imposto un controllo di fatto dopo l’11 settembre, con un accordo segreto al fine di controllare tutte le transazioni finanziarie mondiali (rendendo tra l’altro anche efficaci e inaggirabili le “sanzioni” decise a Washington). Pechino ha infatti consolidato l’alleanza con Mosca collegando gli istituti di credito russi, per tramite della Bank of Russia e della People’s Bank of China, alla propria camera di compensazione Clearing House International Payment System (Chips). Si allarga dunque la possibilità per una lista crescente di Paesi “sgraditi” agli Usa di intrattenere normali relazioni commerciali pagando con una moneta diversa e attraverso piattaforme non controllate dal ministero del Tesoro Usa. Anche la capacità di controllo del mercato petrolifero è diminuita di molto. Di recente l’Arabia Saudita ha minacciato di recedere dal patto di ferro siglato nel febbraio del 1945, cominciando quindi a vendere molto di più al altri paesi e ad accettare monete diverse dal dollaro (mossa che costò la vita a Saddam Hussein e Gheddafi, nonché la lunga guerra contro il Venezuela bolivariano). Una minaccia conseguente allo sforzo Usa di raggiungere l’indipendenza petrolifera ricorrendo al devastante shale oil. Peggio ancora, nel dicembre 2017, nell’ambito di un incontro fra il nuovo ministro delle Finanze saudita Mohammed Al-Jadaan e il governatore della People’s Bank of China, Zhou Xiaochuan, Cina e Arabia Saudita hanno siglato un accordo implicante il lancio di contratti denominati in yuan.
Di conseguenza, la Cina e altri paesi obbligati a importare petrolio hanno ora una minore necessità di comprare dollari per pagare il greggio, e dunque possono ridurre le proprie riserve di “biglietto verde”, diminuendo anche il valore stesso – nonché il “peso strategico” – di quella moneta.
Come nota l’economista russo Valentin Katasonov:
«l’America sta rapidamente incrementando la propria produzione di petrolio a scapito delle importazioni, comprese quelle dall’Arabia Saudita. Oggi i sauditi forniscono più petrolio a Cina, Giappone, India che agli Stati Uniti; le forniture saudite al mercato europeo e alla Corea del Sud stanno crescendo rapidamente.
Gli interessi economici dell’Arabia Saudita stanno lentamente trasferendosi dall’America ad altre parti del mondo. Inoltre, il petrolio è una merce molto richiesta da numerosissimi Paesi. Qualora l’Arabia Saudita dovesse passare dalle parole ai fatti rifiutando il dollaro come valuta di riferimento per la vendita del proprio petrolio, si vedrebbe precluso l’accesso al mercato americano, ma avrebbe comunque modo di orientarsi su altri mercati».
Gli effetti più evidenti del declino si vedono però in campo scientifico, tecnologico e militare.
La “conquista dello spazio” – una competizione che era stata la molla per la ricerca scientifica di base e una valanga di applicazioni tecnologiche – è di fatto quasi seppellita, tanto che su questo fronte le poche “imprese” – molto minime e banali, dal punto di vista astronautico – sono ormai divertimento per ricchi in cerca di emozioni forti (Elon Musk, Jeff Bezos, Richard Branson). Mentre la Cina arriva su the dark side of the moon… La “guerra del 5G” ha mostrato al mondo una realtà inattesa per la patria dell’informatica e delle telecomunicazioni: il sistema Huawei era semplicemente meno costoso e più efficiente, e solo una costosissima – in termini finanziari e diplomatici – “campagna bellica” contro quella società ha permesso di limitare (non cancellare) il numero di contratti siglati da altri paesi occidentali con una società cinese, peraltro “decapitata” con l’arresto in Canada della direttrice finanziaria e figlia del fondatore, Meng Wanzhou (di recente rilasciata).
La fuga dell’Afghanistan, infine, ha dimostrato in modo cinematografico come il “modello di guerra” Usa degli ultimi 30 anni può produrre – sì – la distruzione di alcuni stati, ma non produce nation building. I droni non costruiscono relazioni, egemonia, fascino, interessi comuni, com’era avvenuto nell’Europa distrutta dalla Seconda guerra mondiale e ricostruita grazie a massicci trasferimenti di capitale, management, tecnologia.
Ma del resto gli Usa non sono più in condizioni di condurre guerre con gli “scarponi sul terreno”, né di mobilitare grandi capitali per un “ricostruzione orientata”.
La guerra in Vietnam, altra sconfitta storica, aveva chiuso la stagione degli eserciti “misti” (una struttura di comando formata da professionisti e tecnici, una massa combattente fatta di soldati di leva) e aperto quella degli eserciti professionali, molto più snelli e con minori implicazioni sociali (le bare che rientrano a grappoli).
Eserciti che sono poi diventati rapidamente “scuole di formazione” per aspiranti mercenari o merce di scambio per immigrati che aspirano alla cittadinanza Usa.
Ma anche in campo missilistico la Cina sembra essere in corsia di sorpasso nella realizzazione di missili ipersonici, il che fa intravedere un rapido – e silenzioso – recupero dell’antico gap sul piano militare.
Un dato passato sotto silenzio generale, negli anni della presidenza Trump e della sua “guerra dei dazi” contro le importazioni soprattutto cinesi, riguarda poi la composizione dell’import e dell’export. Di fatto, gli Stati Uniti esportano verso la Cina soprattutto prodotti agricoli, carne e Harley Davidson. Mentre importano prodotti tecnologici di consumo (smartphone, tv, elettromestici, ecc).
Una bilancia commerciale da paese del terzo mondo, insomma, non da superpotenza egemone sul pianeta. Le stesse glorie di Wall Street sono di un genere molto particolare:
“Le prime 20 società tecnologiche pesano per il 45% nella composizione dell’indice Standard and Poor e valgono il 15% del PIL mondiale: nella storia dell’economia non c’è mai stata una simile concentrazione di ricchezza e di rischio nell’allocazione di portafoglio. Il credito speculativo circolante nell’economia americana è pari al 30% del PIL”.
Al centro di tutti questi arretramenti c’è – non paradossalmente – l’indebolimento della funzione pubblica e dello Stato, a favore delle “forze del mercato” (che non sono “nazionalistiche”, per natura).
Le privatizzazioni e i tagli strutturali delle tasse – dalla fine degli anni ‘70 ad oggi – hanno ridotto le entrate fiscali e condizionato negativamente la capacità di spesa dello Stato federale. Lì, oltretutto, il deficit pubblico e l’enorme gonfiamento del debito non era neanche imputabile a un welfare state che non è neanche mai esistito. Dunque il taglio delle spese – non potendo incidere sul complesso militare-industriale – è stato esercitato sugli investimenti infrastrutturali, sia sul versante della semplice manutenzione che su quello delle nuove “grandi opere”.
Dei 4.000 miliardi di investimenti progettati inizialmente dall’amministrazione Biden ne sono passati fin qui soltanto un migliaio, principalmente destinati al rinnovo delle infrastrutture (per cui servono comunque poca forza lavoro e molte macchine).
Lo stesso sistema delle “porte girevoli” che permette il passaggio dai consigli di amministrazione delle multinazionali ai vertici dell’amministrazione Usa e viceversa (storico l’esempio di Dick Cheney, ad anni alterni amministratore delegato di Hulliburton o ministro della difesa o vicepresidente degli Stati Uniti, ma anche della stessa dinastia Bush) ha progressivamente ridotto il sistema istituzionale Usa, fin dai vertici, ad utility di società multinazionali, sia industriali che finanziarie. Ma in una condizione del genere non si può fare nessuna seria “programmazione strategica” di lungo periodo, neanche subappaltandola alla struttura dello stato federale (Pentagono, Cia, ecc). Tanto meno sul piano economico.
E questo ci porta al problema dei problemi statunitensi.
Negli Usa il tasso di disoccupazione ufficiale è attualmente al 4,6%, corrispondente a circa 7,5 milioni di persone. Ma è un dato molto distorto, come in tutti i paesi neoliberisti, che distinguono statisticamente tra “disoccupati attivamente alla ricerca di un posto di lavoro” e “scoraggiati”, che ormai neanche più lo cercano (not in labor force, senza spiegazioni).
Ma nessun paese al mondo presenta in questa “sottocategoria statistica” la spaventosa cifra di 100 milioni e 500mila persone. Stiamo parlando di un paese con circa 329 milioni di abitanti! Togliendo gli ultrasettantenni e gli under 18 (oltre a carcerati e militari), la popolazione “in età da lavoro” è di appena 262 milioni. Di cui 108 senza uno straccio di lavoro e dunque di reddito. (https://www.bls.gov/news.release/empsit.a.htm)
Il dato non è una curiosità statistica, perché ha molte implicazioni.
La prima e più evidente riguarda il “modello statunitense” (il neoliberismo in versione anglosassone) che non riesce neanche ad utilizzare tutte le energie umane di cui dispone, anzi ne sacrifica – espellendole dalla produzione in senso lato – ormai ben più del 40%.
Uno spreco di energie che non può essere inquadrato sotto la categoria dei “perdenti”, come pure fanno da quelle parti, come fossero tutti “gente inutile”, incapaci, “pelandroni”, ecc.
La seconda, altrettanto evidente, è che il consenso sociale al modello statunitense è sotto forte stress.
L’assalto a Capitol Hill, del gennaio di quest’anno, portato quasi esclusivamente da “cittadini bianchi” – fin qui nella fascia medio-alta della stratificazione sociale – ha scoperchiato una pentola di risentimento sociale per la “proletarizzazione” in corso da decenni, specie nelle pianure del Mid West (la cui produzione agricola non regge la concorrenza internazionale neanche con i dazi imposti da Trump ad un certo punto) e negli ex distretti industriali svuotati dalle delocalizzazioni.
Basti ricordare che “per salvare Chrysler” Barack Obama fu costretto a ricorrere nientepopodimeno che alla … Fiat! Che riuscì nell’operazione solo chiudendo stabilimenti, ricevendo soldi pubblici e dimezzando i salari (corrompendo per questo i disponibilissimi sindacati Usa).
Se non si analizzano le ragioni della crisi sociale Usa, la popolarità del “trumpismo” ricade nel campo delle pure “ideologie”, sovrapponendo “sovranismi”, millenarismi, razzismo e altre parole che andrebbero a loro volta “spiegate”, ma che da sole non spiegano nulla.
Conclusioni
Il modo storico con cui gli Stati Uniti hanno risolto le precedenti crisi è stato quello di “buttarla in caciara”, scatenando guerre militari, corsa agli armamenti e tempeste finanziarie.
Come rileva l’economista Guido Salerno Aletta:
«il numero dei focolai di crisi deve essere talmente elevato da rendere impossibili risposte razionali: ognuna è infatti potenzialmente incompatibile con l’altra. Le variabili e le loro interconnessioni si moltiplicano a dismisura. Un nuovo ordine oltre il caos, per mezzo del caos. Il risk appetite degli investitori, con una crisi che deflagra dopo l’altra, svanisce.
Meglio investire nel “biglietto verde” che correre rischi sempre più probabili».
Finora, è andata quasi sempre così…
Ma tutta questa strumentazione si reggeva su quei pilastri che, come detto, non sono più sottoposti a un “regime di monopolio”: il ruolo centrale del dollaro, un solo sistema di pagamento internazionali (fortemente controllato), la superiorità militare, la superiorità scientifica e tecnologica, ma anche la straripante capacità di utilizzare la dinamica dei mercati finanziari per convogliare capitali verso gli Stati Uniti. E infine la storica solidità delle istituzioni statunitensi, cementate da un forte consenso sociale fondato sul benessere.
Recuperare l’egemonia e la leadership, con quelle ruote sgonfie, appare decisamente più complesso. Il multipolarismo competitivo è riemerso per quella crisi, e non può essere ricacciato indietro. Ed ogni tentativo di ritrovare l’egemonia unipolare – scontrandosi con “potenze” di peso diverso, ma cresciuto nel frattempo – non può che moltiplicare i rischi rispetto ai vantaggi.
Si aprono possibilità inedite per il cambiamento sociale proprio perché siamo alla confluenza di tre grandi crisi sistemiche (economica, ecologica, di egemonia) in una sola.
Ma chi non si mette a questa altezza, almeno con in pensiero, non avrà nulla da dire nella storia dei prossimi decenni.
CREDITS
Immagine in evidenza: Forca eretta vicino al Campidoglio degli Stati Uniti durante l’assalto del 6 gennaio 2021.
Autore: Tyler Merbler; 6 gennaio 2021
Licenza: Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)
Immagine originale ridimensionata e ritagliata