Leonardo Bargigli
La ripresa dell’inflazione è un sintomo estremamente significativo della congiuntura storica che stiamo vivendo, perché segnala che è in atto, a livello globale, un rallentamento nello sviluppo delle forze produttive. Questo rallentamento ha due cause distinte, che stanno agendo in misura differenziata sulle due principali componenti del blocco occidentale, USA e UE.
La prima causa è la riduzione dell’offerta di lavoro nelle economie occidentali, innescata dalla pandemia, che si è aggiunta a fattori negativi di lungo periodo quali l’invecchiamento della popolazione e le politiche anti-immigrati. Dopo che, nel 2021, gli USA hanno spinto sull’acceleratore della politica fiscale, stimolando al massimo la domanda aggregata, l’offerta di lavoro è rimasta ben al di sotto dei livelli prepandemici. Questo ha prodotto due conseguenze. La prima è che l’offerta aggregata non è cresciuta in proporzione alla domanda aggregata, e quindi i prezzi dei beni e servizi hanno cominciato ad aumentare. La seconda è che il mercato del lavoro USA si è surriscaldato e i salari hanno cominciato ad aumentare, innescando la spirale tra prezzi e salari che, in assenza di interventi correttivi, minaccia di rendere l’inflazione persistente. Questa prospettiva ha spinto la Federal Reserve ad adottare un orientamento restrittivo di politica monetaria. Questo significa, in pratica, che la crescita della domanda aggregata viene allineata, attraverso l’aumento dei tassi d’interesse, alla più debole crescita dell’offerta aggregata. Con ciò, fallisce miseramente il tentativo dei democratici USA di usare la politica fiscale per rilanciare il proprio paese nella competizione economica con la Cina.
La seconda causa è la crisi della produzione energetica. Da una parte, abbiamo che il concretizzarsi della transizione climatica ha iniziato a scoraggiare gli investimenti nelle fonti fossili. Dall’altra, gli ingenti investimenti necessari per la transizione stessa faticano a materializzarsi. In altri termini, la carenza di investimenti sta determinando una crisi strutturale nell’offerta di energia, che non riesce a tenere il passo della crescita della domanda post-pandemica. Questo si traduce in un aumento dei prezzi delle materie prime energetiche e, a cascata, del prezzo dell’energia elettrica e dei trasporti, che si trasferiscono a loro volta su quelli di tutti gli altri beni. L’impatto dell’inflazione energetica è molto più acuto in Europa che negli USA, a causa dello scontro in atto tra NATO e Russia e della debolezza dell’Euro rispetto al dollaro. Sebbene la politica fiscale europea sia stata molto più timida di quella USA e il mercato del lavoro sia tutt’altro che surriscaldato, l’inflazione energetica potrebbe spingere molto presto la BCE a seguire i passi della Fed. È ovvio che una restrizione monetaria peggiorerebbe notevolmente le prospettive di crescita nel vecchio continente.
In economia, la parola “investimento” designa, in modo equivoco, due tipologie di spesa distinte. La prima è la spesa in nuovi beni capitali (macchinari, attrezzature, impianti) o infrastrutture (reti di comunicazione, trasporti, reti energetiche). Chiamiamo questa tipologia investimento reale. La seconda tipologia è l’acquisto di asset, reali (case, terreni etc) o finanziari (titoli) allo scopo di trarne un reddito. Chiamiamola investimento finanziario. Agli investimenti finanziari possono o meno corrispondere investimenti reali, a seconda delle circostanze, ma questo non accade necessariamente. Le economie occidentali negli ultimi 40 anni hanno puntato principalmente sugli investimenti finanziari. Questa scelta ha portato loro notevoli vantaggi economici, visto che, attraverso i flussi finanziari internazionali, le imprese occidentali hanno potuto appropriarsi di una porzione ingente del pluslavoro dei paesi poveri, dovendo sostenere spesso un livello di investimento reale relativamente modesto. Oggi la transizione climatica proietta le economie ricche verso la necessità di finanziare un maggiore livello di investimenti reali, da realizzarsi sia in proprio sia fornendo assistenza ai paesi più poveri.
La dimensione degli investimenti reali richiesti è notevole. Mc Kinsey ha stimato recentemente che per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 si richiederà una spesa aggiuntiva annuale in capitale fisico di 3mila miliardi di dollari, pari a metà dei profitti annuali di tutte le imprese del mondo, e a un quarto di tutte le tasse pagate annualmente livello globale. In pratica, gli investimenti reali annuali dovranno aumentare del 60% rispetto ad oggi e restare su questi livelli più alti per 30 anni. In particolare, tra il 2026 e il 2030 occorrerà destinare agli investimenti reali, ogni anno, l’8,8% del PIL mondiale (un incremento del 2% rispetto al 6,8% corrente). Il prezzo maggiore, in termini relativi, dovrebbe essere pagato dai paesi a basso reddito, quando molti tra questi già faticano a mantenere un ritmo di crescita adeguato all’aumento della propria popolazione. Ad esempio, l’Africa sub-sahariana, l’America Latina e l’India dovrebbero sostenere un investimento reale annuo pari a circa il 10% del proprio PIL. In termini assoluti, la spesa aggiuntiva annuale di queste economie dovrebbe essere pari a poco meno di 1.000 mld di dollari, ovvero oltre 10 volte maggiore dei 100 mld di dollari annuali di assistenza promessi dai paesi occidentali al vertice di Parigi nel 2014, e ancora non raggiunti. L’area MENA (Medio Oriente & Nord Africa) e l’area ex sovietica dovranno sostenere una spesa più bassa in termini assoluti (500 mld circa), ma ancora più elevata in termini relativi (18% del PIL in media). In particolare, quando parliamo di America Latina, Africa sub-sahariana e MENA (con l’esclusione delle petromonarchie), dobbiamo essere consapevoli di riferirci ad aree economiche piagate fino ad oggi da conflitti sistematici, il cui reddito pro-capite nell’ultimo decennio è rimasto stagnante. È semplicemente impensabile che, nelle condizioni attuali, questi paesi possano finanziare con risorse proprie gli investimenti necessari.
La frenesia politica intorno alla transizione climatica evidenzia che la finanza privata non sarà in grado di risolvere da sola il problema di chi pagherà i costi della transizione. Senza la spinta, il coordinamento e il controllo del settore pubblico, i mercati finanziari non evolveranno spontaneamente nella direzione richiesta, e gli investimenti reali necessari non si materializzeranno. Ma il ruolo attivo del settore pubblico, all’interno dei singoli paesi o blocchi economici, non sarà ancora sufficiente per conseguire l’obiettivo. Occorrerà uno sforzo internazionale di coordinamento senza precedenti. A fronte di questa necessità, la realtà dei rapporti diplomatici internazionali è semplicemente sconfortante. Per realizzare la transizione climatica, non basterà scongiurare il rischio di una nuova guerra mondiale, servirà molto di più. Ma i circoli imperialisti occidentali non sono affatto propensi a sviluppare un quadro di cooperazione multilaterale basato su relazioni pacifiche e principi di parità tra tutti i popoli, e non intendono assumersi il costo delle responsabilità storiche che hanno verso le economie in via di sviluppo. L’indisponibilità occidentale a promuovere un quadro di cooperazione di questo tipo rappresenta l’ostacolo principale sulla via della transizione climatica. Al contrario, i paesi occidentali intendono proiettare i propri esorbitanti privilegi nel futuro, scaricando i costi della transizione sui paesi più deboli, mentre si accingono a rapinare da quegli stessi paesi le risorse minerali che rappresentano le componenti critiche per le tecnologie chiave della transizione.
Le molteplici crisi a cui stiamo assistendo rappresentano il fallimento storico della governance occidentale a guida statunitense. Abbiamo visto, infatti, che i fattori strutturali che ostacolano in questo momento lo sviluppo delle forze produttive conseguono dalla fallimentare gestione occidentale della pandemia e della transizione climatica. Non diversamente stanno le cose per quanto riguarda la guerra in Ucraina. Il conflitto in corso è figlio della decisione della NATO di escludere la Russia da un meccanismo comune di sicurezza in Europa, e di imboccare piuttosto la via dell’aggressione economica e militare, seguendo un copione più volte ripetuto. E così oggi i paesi europei si trovano a dover investire nei combustibili fossili, alla ricerca insensata di una minore dipendenza dalla Russia, piuttosto che nelle energie rinnovabili. Tutti questi fallimenti hanno una radice comune, che è la mentalità egemonica e razzista dell’occidente, la logica della guerra fredda, la filosofia della ipercompetizione aggressiva tra blocchi, dell’aggressione economica e militare verso i paesi più deboli. La transizione climatica passerà dalla via della cooperazione internazionale e non da quella di un’autosufficienza che è impossibile oggi e resterà tale anche in uno scenario di decarbonizzazione della produzione energetica, visto che la dipendenza dagli idrocarburi sarà sostituita da quella dai minerali critici per la produzione di energie rinnovabili.
Se tutto questo è vero, la buona notizia è che non c’è niente di ineluttabile nella crisi che stiamo vivendo. Infatti, le potenzialità di sviluppo dell’umanità sono ancora enormi. Per capire questo, basta considerare il fatto che l’84% della popolazione mondiale vive in paesi a basso e medio reddito. Poiché, a quei livelli di reddito, la crescita del reddito stesso e della felicità individuale sono strettamente correlati, il benessere dell’umanità aumenterà vertiginosamente se le economie emergenti riusciranno a svilupparsi. Ma questo potrà realizzarsi soltanto se le attività economiche cesseranno di alterare il clima. Se questo non succederà, l’umanità è destinata a decadere e stagnare per secoli, se non peggio. Ecco quindi che transizione climatica, sviluppo delle forze produttive e giustizia sociale sono intimamente legati. La speranza di una vita dignitosa per i popoli del Sud del mondo potrà realizzarsi soltanto attraverso un balzo in avanti delle forze produttive, e questo balzo potrà essere reso possibile solo dalla transizione climatica. Al tempo tesso, la transizione climatica potrà realizzarsi soltanto all’interno di un quadro internazionale di giustizia. Le economie povere dovranno ricevere l’assistenza dovuta, ma soprattutto dovranno essere garantite loro le condizioni politiche e di sicurezza necessarie a svilupparsi liberamente. Senza la minaccia di interferenze e aggressioni esterne, queste economie potranno creare autonomamente le risorse necessarie a finanziare una parte significativa degli investimenti per la transizione climatica, e potranno attivare meccanismi di integrazione regionale in grado di agire come moltiplicatori di crescita. La prospettiva di uno sviluppo autonomo dei popoli del Sud del mondo, troppo a lungo rimandata, deve finalmente potersi concretizzare. Perché ciò sia possibile, la filosofia colonialista e razzista dell’occidente deve fare spazio al più presto ad un nuovo ordine multipolare, dove non esistano potenze egemoni, ma solo popoli affratellati dal destino comune dell’umanità, liberi di commerciare per il proprio mutuo beneficio, senza imposizioni e ricatti. Affinché l’umanità possa progredire, l’imperialismo occidentale deve scomparire dalla Storia.