Leonardo Bargigli, Università di Firenze
1. Introduzione
L’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa ha innescato una forte controversia tra partiti comunisti. Il partito comunista greco (KKE) ha accusato il partito comunista della Federazione Russa (PCFR) di avere posizioni filo-imperialiste a causa del sostegno dato all’invasione. L’accusa del KKE riflette l’opinione, accolta da una parte della sinistra occidentale, che individua nella Russia una potenza imperialista contrapposta all’Occidente. In particolare, alcuni interpretano il conflitto in Ucraina alla luce di un nuovo tipo di scontro inter-imperialista, quello tra debitori e creditori. Secondo questa interpretazione, l’Occidente sarebbe costretto sulla difensiva dalla crescente forza economica della Russia e della Cina, che hanno costituito un nuovo, aggressivo, polo imperialista.
Per argomentare la propria accusa, il KKE si è appoggiato sulla tesi leniniana secondo cui “la rapina imperialista è sempre l’unico contenuto e motivo reale della guerra”. Il PCFR ha ribattuto sottolineando che esistono diversi tipi di guerre e che, nel passo menzionato, Lenin si riferiva specificatamente alla Prima Guerra Mondiale. Secondo il PCFR, accanto alle guerre imperialiste, l’esperienza storica del Novecento ha evidenziato l’importanza delle guerre di liberazione nazionale e delle guerre contro il fascismo. Spesso queste diverse guerre si sono così strettamente intrecciate da essere combattute, sugli stessi campi di battaglia, per motivazioni contradditorie [1]. Per questo, ogni guerra ha un carattere specifico e complesso, che deve essere individuato sulla base dei fatti. Nel caso dell’Ucraina, secondo il PCFR, l’intervento militare russo dovrebbe essere considerato come una guerra di liberazione nazionale, perché è diretto a sostenere la lotta avviata nel 2014 dalle popolazioni del Sud-Est ucraino, a difesa della propria identità culturale e dei propri valori antifascisti, contro l’aggressione del regime post-maidanista. Secondo quest’interpretazione, la natura capitalista dello stato russo ha ostacolato, piuttosto che favorire, l’intervento militare, perché l’élite economica si è fortemente opposta, temendo di perdere i privilegi connessi alle proprie relazioni con l’Occidente.
Se vogliamo rispettare la massima leniniana secondo cui “la sostanza stessa, l’anima vivente del marxismo è l’analisi concreta della situazione concreta”, le osservazioni del PCFR sul carattere specifico delle guerre dovrebbero essere prese seriamente in considerazione, anche se non necessariamente per concordare nelle conclusioni. Nella sua teoria, pubblicata 1917, Lenin designava con il termine “imperialismo” un’intera epoca storica, quella del “capitalismo moribondo”, che potrà concludersi solo quando l’umanità si volgerà verso il socialismo. Inoltre, sottolineava la preminente importanza, nell’epoca dell’imperialismo, dei flussi finanziari internazionali rispetto ai flussi commerciali. L’attualità di queste tesi conferisce alla teoria leniniana una portata generale, che la rende ancora valida. D’altra parte, Lenin sottolineava alcuni caratteri dell’epoca imperialista, come il completamento della ripartizione coloniale della Terra tra le grandi potenze capitaliste, che non riflettono la realtà odierna dei rapporti internazionali. In particolare, la ripartizione delle colonie costituiva, in quel momento storico, la principale posta in gioco nel conflitto inter-imperialista che poi sfociò nella Prima Guerra Mondiale.
Lenin era consapevole del fatto che i rapporti di forza tra gli stati mutano rapidamente. Questa mutevolezza è una conseguenza della “legge dello sviluppo ineguale del capitalismo”, di cui aveva sottolineato l’importanza nella sua analisi. In sostanza, Lenin evidenziava come la ineguale velocità di crescita delle nazioni, in una determinata fase storica, ponesse le basi economiche per una ridefinizione degli equilibri internazionali. A conferma di questa ipotesi, quando nel 1945 si concluse la IIa Guerra Mondiale, lo scenario internazionale era radicalmente mutato rispetto a quello del 1914. Dallo scontro tra le potenze imperialiste emergevano come unici vincitori gli USA. In conseguenza dell’avvenuta gerarchizzazione tra le potenze imperialiste, nessun nuovo conflitto diretto tra di esse è scoppiato dopo il 1945. Anzi, le alleanze politiche e militari, stabilite in quel periodo sulla base della supremazia statunitense, sono diventate col tempo sempre più strette. Questa circostanza non deve tuttavia essere male interpretata. L’apparente coesione politico-militare dell’Occidente non dovrebbe essere scambiata per una conferma della teoria del superamento delle contraddizioni inter-imperialiste (il cosiddetto “superimperialismo”). I contrasti d’interesse tra i Paesi occidentali sono infatti ben vivi ed operanti, sebbene restino sotto traccia. Questo accade perché essi devono fare i conti con il proprio declino relativo rispetto al resto del mondo, e si trovano quindi forzati a cooperare sempre più strettamente sul piano politico-militare, mentre lottano l’uno contro l’altro sul piano economico.
Secondo la visione leniniana del 1917, la lotta rivoluzionaria delle classi operaie nei paesi avanzati si sarebbe unita con i movimenti di liberazione nazionale nelle colonie, determinando il rovesciamento del capitalismo. La sconfitta storica delle forze rivoluzionarie in Occidente, che si è compiuta in un lungo, inesorabile, arco temporale, ha smentito questa previsione senza possibilità di appello. Dopo il fallimento della rivoluzione tedesca del 1918, Lenin era divenuto consapevole della divergenza tra quelle traiettorie che avrebbe desiderato veder convergere [2]. Seguendo l’esempio della rivoluzione russa, vittoriosa in un paese semifeudale arretrato, sono stati i popoli del Sud e dell’Oriente a compiere i più importanti progressi sulla strada dell’emancipazione e del socialismo. Nei Paesi Occidentali, invece, ampi strati sociali hanno potuto beneficiare dei dividendi dello sfruttamento imperialista. Lo sviluppo della classe media, realizzato a spese dei popoli sfruttati del mondo, ha isolato progressivamente le avanguardie rivoluzionarie e gli strati più combattivi della classe operaia. L’imperialismo ha creato il terreno economico su cui la solidarietà nazionale, interclassista, ha potuto radicarsi a spese di quella internazionale, di classe [3].
Ritornando alla guerra in Ucraina, l’interpretazione del conflitto del Donbass come guerra di liberazione nazionale è stata sposata da una recente dichiarazione congiunta di organizzazioni comuniste e operaie della Federazione Russa, dei Paesi ex sovietici e del Donbass. Per queste organizzazioni, tuttavia, l’invasione russa riveste, allo stesso tempo, il carattere di un conflitto inter-imperialista, essendo causata dal tentativo, da parte occidentale, di “soffocare le crescenti forze dell’imperialismo russo, sostenuto dalla Bielorussia, in parte dalla Cina e da altri alleati”. Sebbene, secondo queste organizzazioni, il coinvolgimento della Russia in Ucraina abbia un carattere difensivo, la natura imperialista dell’attuale regime russo non può essere messa in dubbio.
La dichiarazione congiunta ha il merito di sottolineare un punto fondamentale. Occorre prendere in considerazione la possibilità che, mentre le forze delle Repubbliche popolari stanno conducendo una guerra di liberazione nazionale in Donbass, lo stato russo stia conducendo, allo stesso tempo, una guerra imperialista. A questo riguardo, una cosa è certa. Affinché la guerra condotta dallo stato russo in Ucraina possa definirsi imperialista, lo stato russo medesimo deve potersi definire imperialista. Ecco che la questione della natura imperialista della guerra ucraina si può ricondurre ai seguenti interrogativi. È possibile individuare un insieme di requisiti per stabilire se un paese è imperialista o meno? E la Federazione Russa soddisfa questi requisiti?
I paragrafi che seguono rappresentano un tentativo di rispondere a queste domande, perché l’incertezza su una questione così importante come l’imperialismo non dovrebbe essere accettata passivamente. Al contrario, dovrebbe stimolare uno sforzo di approfondimento teorico, condotto su basi scientifiche.
2. Quando un paese si può definire imperialista?
Partiamo dal chiederci se questa domanda ha senso. Infatti Lenin ha definito l’imperialismo come un’epoca storica, non come la politica di uno stato particolare. Tuttavia, poiché quest’epoca storica è caratterizzata, per definizione, dalla disuguaglianza in termini di potere economico e militare tra gli stati, se ne conclude che la separazione tra paesi imperialisti e non imperialisti è un carattere che la definisce necessariamente. Domandarsi se un dato paese è imperialista, oppure no, non è dunque privo di senso. Chiediamoci allora quali siano le caratteristiche necessarie di un paese imperialista. Senza dubbio una caratteristica necessaria è avere un elevato livello di sviluppo economico, perché nessun paese arretrato potrà mai sostenere una politica imperialista. Ma questa caratteristica non basta a rendere un paese imperialista. Per comprendere perché, basta considerare gli esempi di stati molto ricchi ma troppo piccoli per condurre una politica imperialista (Svizzera, Lussemburgo etc). È quindi necessario che l’economia del paese considerato sia sufficientemente grande da generare quelle risorse economiche che possono finanziare una politica imperialista.
Dimensioni economiche e livello di sviluppo sono senza dubbio necessari, ma sono anche sufficienti per stabilire che un paese sia imperialista? Per provare a rispondere a questa domanda, osserviamo che il superamento dell’imperialismo consiste necessariamente nel superamento della disuguaglianza economica tra gli Stati, che rappresenta la base della loro disuguaglianza politica e militare. Da questo consegue che lo sviluppo economico di un paese non imperialista rappresenta l’uscita di quel paese da una condizione di disuguaglianza rispetto ai paesi imperialisti, verso una condizione di uguaglianza. Solo per questo fatto, lo sviluppo di quel paese fornisce un contributo oggettivo al superamento dell’imperialismo. Infatti, se tutti i paesi non imperialisti superassero la propria situazione di disuguaglianza rispetto a quelli imperialisti, per ciò stesso l’imperialismo cesserebbe di esistere.
Il ragionamento appena fatto si presta ad un’obiezione fondamentale. Se ci concentriamo sullo sviluppo economico in senso generale, e non sullo sviluppo del socialismo, non commettiamo un errore? Non dovremmo piuttosto considerare il socialismo come una condizione necessaria perché un determinato stato possa svilupparsi senza diventare imperialista? Osservando l’esperienza dello sviluppo capitalista dei paesi occidentali, che li ha condotti inesorabilmente a diventare imperialisti, saremmo tentati di rispondere affermativamente a questa domanda. Tuttavia può essere preferibile lasciare temporaneamente in sospeso la questione, per due validi motivi. Il primo è che non possediamo una nozione universalmente condivisa di socialismo. In questa sede non è possibile approfondire compiutamente questo problema, ma per comprenderne la complessità basta menzionare, a titolo di esempio, le profonde differenze che separano il modello sovietico di economia pianificata dall’economia socialista di mercato cinese o vietnamita, aggiungendo che entrambi questi modelli sono stati criticati, con motivazioni diverse, per non essere genuinamente socialisti. In breve, concentrarsi sullo sviluppo economico, piuttosto che sul socialismo, serve a isolare la nostra ricerca dalla controversia sulla natura socialista, o meno, di alcune economie oltre che sulla natura del socialismo stesso. Il secondo motivo è che una situazione in cui esiste ancora il capitalismo, e non più l’imperialismo, è astrattamente concepibile. Si tratta della situazione, descritta nella nota 4, in cui tutti gli stati capitalisti hanno raggiunto il medesimo livello di sviluppo. Per quanto possiamo trovare questo scenario poco verosimile, può essere utile accettarlo come caso limite, perché permette di distinguere logicamente capitalismo e imperialismo come fenomeni distinti, sebbene strettamente associati.
A scanso di equivoci, non si tratta qui di supporre che il capitalismo possa autoriformarsi o ritornare allo stadio pre-monopolistico del XIX secolo. Si tratta di considerare che la disuguaglianza tra gli esseri umani ha due componenti. La prima concerne le differenze di reddito o ricchezza individuale all’interno di un singolo paese (disuguaglianza interna). La seconda riguarda le differenze tra il reddito e la ricchezza medi dei diversi paesi (disuguaglianza tra paesi). Saremmo tentati di individuare nel capitalismo la causa della disuguaglianza interna, e nell’imperialismo la causa della disuguaglianza tra Paesi. Questo tuttavia non sarebbe corretto, perché l’imperialismo non è un fenomeno indipendente dal capitalismo. Al contrario, è il prodotto dello sviluppo dei rapporti capitalistici all’interno dei Paesi imperialisti.
Per quanto non sia affatto scontato che il socialismo consista nella rimozione completa delle disuguaglianze, è invece sicuro che sia incompatibile con gli attuali livelli di diseguaglianza, sia interna che tra Paesi. Per questo, possiamo affermare che il socialismo richiede il superamento dell’imperialismo nella stessa misura in cui richiede il superamento dei rapporti capitalistici interni. Questo significa che la diseguaglianza tra Paesi merita altrettanta attenzione della diseguaglianza interna. Anzi ne richiede di più, in particolare da parte dei comunisti che vivono in Occidente. Infatti, sul piano della diseguaglianza interna i Paesi imperialisti appaiono paradossalmente più virtuosi e quindi “più socialisti”. Questo accade perché una parte dei dividendi della rapina imperialista viene impiegata, in quei Paesi, per ridurre la disuguaglianza interna, proprio mentre la stessa rapina aggrava la disuguaglianza interna all’interno dei Paesi non imperialisti. Il “socialismo nazionale” dei Paesi imperialisti è costruito sulla rapina, ed è compito dei comunisti smascherarne la reale natura.
Quali implicazioni hanno tutti questi ragionamenti per le nostre domande iniziali? La prima implicazione è che, per stabilire se un dato paese è imperialista o meno, occorre prima di tutto considerare la sua economia in termini relativi, mettendo a confronto il suo reddito medio con quello degli altri paesi. Si tratta cioè di misurare la diseguaglianza in termini di livello di sviluppo tra quel paese e gli altri. Per raggiungere questo obiettivo, partiamo una misura relativa del PIL totale di un Paese, quale la seguente:
Questa misura non costituisce di per sé un indicatore del livello di sviluppo. Infatti, l’economia di un paese molto popoloso, come l’India, può risultare grande, in termini relativi, sebbene quel paese abbia in realtà un basso reddito pro-capite. Occorre quindi individuare una differente misura relativa che possa fungere da indicatore del livello di sviluppo. Qui ci viene in aiuto una seconda implicazione di quanto detto sopra. Supponiamo di essere in una situazione in cui non esista disuguaglianza tra paesi. Questo implica per definizione che il reddito individuale medio (reddito pro-capite) sarebbe il medesimo in tutti i paesi.
Chiediamoci quale sarebbe la quota relativa del PIL di ciascun paese in questa situazione. Poiché in generale, per ciascun paese, abbiamo che ,
e poiché abbiamo supposto che il PIL pro-capite sia il medesimo in tutti i paesi, se indichiamo questo livello con y, otteniamo che, per ciascun paese,
così come
In questa situazione, la quota percentuale del PIL di ciascun paese, che denotiamo con
diventa:
Il risultato, intuitivo, stabilisce che, se il reddito pro-capite è uguale in tutti i paesi, le quote del PIL sono uguali alle quote della popolazione. In questa situazione, i cittadini di tutti i paesi possono potenzialmente guadagnare il medesimo reddito. Se questo non avviene, è a causa della disuguaglianza interna. Possiamo ora definire il seguente indicatore relativo:
Nella situazione in cui la disuguaglianza tra paesi fosse azzerata, il valore di questo indicatore per ogni paese sarebbe uguale a 1. In una situazione in cui prevalgono rapporti imperialisti, invece, possiamo attenderci che i paesi imperialisti presentino un valore dell’indicatore molto maggiore dell’unità, mentre i paesi non imperialisti, e in particolare quelli più poveri, presentino un valore inferiore all’unità. Il valore di I può essere dunque utilizzato per verificare se un Paese rispetta la prima condizione necessaria per essere imperialista, quella relativa al livello di sviluppo (condizione A1).
È facile verificare che il valore di I è uguale al rapporto tra il PIL pro-capite del paese stesso e il PIL pro-capite globale [5]. Quindi un valore molto maggiore dell’unità indica che il Paese considerato ha raggiunto un livello di sviluppo economico molto maggiore di quello della media calcolata sull’insieme di tutti i Paesi. Ma questo non basta per identificare questo Paese come imperialista, perché abbiamo detto che un paese ricco, ma piccolo, non può sostenere una politica imperialista. Quindi, una volta verificata la condizione A1, occorre verificare anche la condizione A2, mettendo a confronto la dimensione relativa delle varie economie. Solo quelle che hanno una dimensione comparabile a quella degli USA, quale principale economia imperialista del mondo, soddisfano la seconda condizione necessaria per essere un’economia imperialista. Infine, occorre verificare che il paese soddisfi il requisito sufficiente di avere instaurato relazioni imperialiste ai danni di altri stati (condizione B). A questo scopo, come vedremo, è utile analizzare alcuni indicatori specifici, attinenti all’esportazioni di capitali e alla spesa militare.
3. Le condizioni necessarie dell’Imperialismo
Ora vogliamo applicare i requisiti necessari che abbiamo definito per rispondere alle nostre domande iniziali. Per fare questo ricorriamo, in prima battuta, al Maddison Project Database, che fornisce informazioni sulla crescita economica, sui livelli di reddito e sulla popolazione nel lunghissimo periodo.
Il Grafico 1 riporta il valore dell’indicatore I, che misura il livello relativo di sviluppo, per una selezione di Paesi, appartenenti a due raggruppamenti distinti. Nel primo rientrano alcune tra le principali economie occidentali. Nel secondo i Paesi che compongono i BRICS. Ricordiamo che il valore I = 1 sta ad indicare che il reddito medio del paese considerato è uguale al reddito medio globale. Seguendo i ragionamenti precedenti, solo i paesi che si collocano al di sopra di I = 1 possono essere considerati potenzialmente imperialisti. Vediamo che tutti i Paesi occidentali soddisfano largamente questo criterio. In particolare, gli USA hanno un valore di I = 3,64 nell’ultimo anno disponibile (2018). Come possiamo interpretare questo numero? Ricordiamo che I è anche il rapporto tra la dimensione relativa attuale dell’economia considerata e la sua dimensione relativa nella situazione teorica in cui non esistesse disuguaglianza tra paesi. Il valore osservato indica quindi che l’economia USA è 3,64 volte più grande, in termini relativi, di quello che sarebbe se l’imperialismo non esistesse.
In sostanza, un valore di I maggiore dell’unità quantifica il beneficio economico che un Paese riceve dalla sua partecipazione al sistema imperialista. Il beneficio coinvolge, oltre agli USA, gli altri Paesi occidentali, inclusi quelli non riportati nel grafico, come l’Italia (I = 2,25 nel 2018). Come stanno le cose invece per i BRICS? La prima cosa da notare è che, tra questi Paesi, solo la Russia soddisfa la condizione necessaria I > 1. Inoltre, vediamo che, a partire dal 1980, solo la Cina e, in misura minore, l’India hanno migliorato il proprio livello relativo di sviluppo. Nello stesso periodo, gli altri Paesi di questo raggruppamento, Russia inclusa, hanno mantenuto costante, se non ridotto, il proprio valore di I.
Riguardo alla Russia si può osservare quanto segue. Prendendo in considerazione i dati riferiti all’insieme degli stati appartenenti all’ex URSS, che coprono un lasso di tempo più esteso rispetto a quelli della sola Federazione Russa, vediamo che questo aggregato attraversa la linea I =1 tra il 1930 e il 1940, per raggiungere il proprio massimo nel 1960 (I = 1,43). Quindi riduce il proprio livello relativo di sviluppo, toccando il minimo nel 2000 (I = 0,83), per poi recuperare solo in parte negli ultimi anni (I = 1,28 nel 2018). La dinamica della Federazione Russa, per quanto si collochi su livelli più elevati di sviluppo relativo rispetto agli altri paesi ex sovietici, non si differenzia significativamente da quella di questi ultimi. Questi dati rispecchiano alcuni fatti storici, ben noti, del processo di sviluppo dei paesi considerati. Il primo tra questi è che il principale balzo in avanti delle forze produttive si è realizzato nella fase iniziale della pianificazione sovietica, tra il 1920 e il 1940. Il secondo è che la dissoluzione dell’URSS è stata una vera e propria catastrofe, che ha riportato questi paesi, Russia inclusa, indietro di 60 anni.
Sulla base di queste informazioni, possiamo avanzare alcune considerazioni sul processo di sviluppo della Federazione Russa. La prima è che questo Paese soddisfa la prima condizione necessaria dell’imperialismo (I>1) solo grazie alla crescita acquisita quando la sua economia era maggiormente lontana dai rapporti di produzione capitalisti basati sulla proprietà privata. La seconda è che, dopo il 1960, il processo di convergenza verso le economie imperialiste si è arrestato, e la Russia è caduta nella cosiddetta trappola del medio reddito, non diversamente da molte altre economie emergenti, tra cui, come si vede dal grafico, Brasile e Sud Africa.
Sembra quantomai improprio, sulla base di questi dati, parlare di crescenti forze dell’imperialismo russo. A titolo di esempio, possiamo confrontare l’andamento della Russia, negli ultimi anni, con quello della Germania e del Giappone nel periodo delle due guerre mondiali. Dal grafico si vede chiaramente come questi paesi si stessero sviluppando rapidamente in quel periodo, mentre non si osserva nulla di tutto questo, per la Russia, negli anni a noi più vicini. In particolare, se osserviamo l’andamento della Germania, vediamo che il suo processo di convergenza verso le economie più forti è ripreso con maggiore forza dopo la sconfitta della prima guerra mondiale, ed è proseguito anche dopo la sconfitta nella seconda. Nulla di simile è accaduto in Russia, prima e dopo la sconfitta nella Guerra Fredda. La conclusione che possiamo trarre da tutti questi ragionamenti è che, nell’interpretazione meno favorevole, la Russia soddisfa debolmente il primo criterio necessario dell’imperialismo. Nell’interpretazione più favorevole, la Russia è un’economia capitalista emergente, che si ritrova soltanto ad essere un po’ più sviluppata delle altre, grazie all’eredità storica della prima parte del periodo sovietico.
L’indicatore I permette di ottenere anche una valutazione complessiva del livello di disuguaglianza tra paesi. Data la sua definizione
può essere considerato come il rapporto tra due distribuzioni normalizzate. Infatti, se sommiamo tra di loro rispettivamente le quote percentuali di PIL e di popolazione di tutti i paesi, otteniamo in entrambi i casi, per costruzione, un valore pari a 100. Allora possiamo pensare di ricorrere a indicatori pensati per confrontare le distribuzioni normalizzate, allo scopo di misurare la distanza tra la disuguaglianza osservata tra le economie, che è misurata dalle quote di PIL, e la disuguaglianza teorica tra le medesime economie se i livelli di sviluppo fossero gli stessi, che è misurata dalle quote di popolazione. Un indicatore di questo tipo è la divergenza di Kullback-Leibler , normalmente indicata con .
Senza perderci in dettagli, possiamo dire che, nel nostro caso
aumenta quando la disuguaglianza tra paesi aumenta, diminuisce in caso contrario, e si annulla solo quando la disuguaglianza tra paesi si annulla. In pratica
ha la capacità di sintetizzare al massimo l’evoluzione storica dell’imperialismo.
Dal Grafico 2 vediamo che il livello di diseguaglianza tra paesi è aumentato drammaticamente nel XIX secolo e, in modo ancora più forte, nel primo ventennio del Novecento, l’epoca d’oro dell’imperialismo. Vediamo anche che le due guerre mondiali non hanno ridotto significativamente la diseguaglianza tra paesi. Al contrario, a partire dal 1970 la diseguaglianza ha ripreso a crescere, raggiungendo il proprio massimo storico nel 1980. Solo a partire dall’inizio del XXI secolo le distanze economiche tra Paesi hanno cominciato a ridursi significativamente. La tanto vituperata globalizzazione ha coinciso, quindi, con un’epoca di riequilibrio dello sviluppo a favore delle economie emergenti. Nonostante questo, il livello di diseguaglianza tra Paesi è ancora maggiore di quello che si poteva osservare all’inizio del Novecento. Questo conferma, se ce ne fosse stato bisogno, che l’epoca dell’imperialismo è tutt’altro che conclusa.
Il Maddison Project Database ha il vantaggio di includere informazioni di lunghissimo periodo, che non rientrano negli altri dataset disponibili a livello internazionale. Presenta tuttavia un problema significativo per i nostri scopi. I dati sul reddito sono calcolati, in dollari, facendo riferimento ad un tasso di cambio che non corrisponde a quello di mercato, ma è ottenuto usando l’approccio della “parità nel potere d’acquisto” (Purchasing Power Parity o PPP). In breve, il tasso di cambio PPP tra la valuta A e la valuta B corrisponde a quel valore che rende uguale il prezzo delle merci vendute nel Paese che emette A al prezzo delle merci vendute nel Paese che emette B. L’utilizzo dei tassi PPP è giustificato quando il PIL viene impiegato come misura del livello individuale di benessere, perché i tassi PPP riflettono il rispettivo potere di acquisto delle valute sul proprio mercato interno. Infatti, quando confrontiamo i livelli medi di benessere, ad esempio, tra India e Stati Uniti, non siamo tanto interessati a comparare l’operaio indiano con quello statunitense quantificando ciò che il primo potrebbe acquistare con il suo stipendio negli Stati Uniti, o il secondo potrebbe acquistare in India, quanto a comparare quello che ciascuno dei due può acquistare nel proprio Paese.
Sappiamo che i flussi internazionali di capitale sono una componente fondamentale dell’imperialismo. E un’impresa multinazionale che decide di effettuare un investimento in India, così come un governo africano che rimborsa i propri debiti, pagano al tasso di cambio corrente, non a quello PPP. Il fatto è che questi due tassi sono sistematicamente disallineati. In particolare, i tassi di cambio PPP delle valute imperialiste (principalmente Dollaro, Euro e Yen) sono sistematicamente inferiori rispetto ai tassi di mercato. Questo implica che la dimensione delle economie imperialiste risulta sistematicamente sottovalutata se si adottano i tassi PPP. Da che cosa dipende la sopravvalutazione delle valute imperialiste rispetto ai tassi PPP? In parte, dalla maggiore produttività delle economie imperialiste. In parte, per quanto possa sembrare paradossale, dai flussi di capitale che dai paesi non imperialisti fluiscono verso i paesi imperialisti. Una parte di questi flussi è costituita da profitti rimpatriati dalle imprese dei paesi imperialisti. Una parte non meno importante è costituita da investimenti effettuati dalle élite dei paesi emergenti, desiderose di mettere al sicuro all’estero i propri guadagni.
La sopravvalutazione delle valute imperialiste è una componente fondamentale dell’egemonia economica dei paesi che le emettono, perché consente loro di acquistare a bassi prezzi e vendere ad alti prezzi sui mercati internazionali. Poiché determina un aumento della disuguaglianza tra Paesi, essa non dovrebbe essere ignorata nel tipo di analisi che stiamo conducendo, in special modo quando confrontiamo il peso relativo di diverse economie. Per questo, allo scopo di verificare la seconda condizione necessaria dell’imperialismo, ricorriamo alla banca dati della Banca Mondiale, che fornisce valori dei PIL nazionali convertiti in dollari ai tassi di cambio di mercato. In particolare, il Grafico 3 riporta il rapporto tra il PIL dei paesi selezionati e quello degli USA. L’obiettivo è quello di stabilire se l’economia di un dato paese possiede o meno le dimensioni per poter competere con la prima economia imperialista del mondo. Dal confronto emerge chiaramente che nessun paese singolarmente preso, eccetto la Cina, soddisfa questo requisito. L’unico altro polo economico che può confrontarsi con USA e Cina è quello formato dai paesi che aderiscono all’Unione Europea. Tra quest’ultima e la Cina c’è però una differenza fondamentale. Infatti, se calcoliamo nuovamente i valori di I, questa volta utilizzando i dati della Banca Mondiale (Grafico 4), troviamo conferma del fatto che la Cina non soddisfa il primo requisito dell’imperialismo (I = 0,96 nel 2020), mentre l’Unione Europea lo soddisfa abbondantemente (I = 3,13 nel 2020).
Dal Grafico 4, vediamo come l’impetuoso processo di sviluppo cinese sia servito, fino ad oggi, a portare questa nazione nel gruppo delle economie a medio reddito, cui appartengono Brasile, Russia e Sud Africa. Per conciliare l’apparente contrasto tra la dimensione e il livello di sviluppo dell’economia cinese, si consideri che, se la Cina e gli USA avessero il medesimo reddito pro-capite, l’economia cinese dovrebbe essere 4,3 volte quella degli USA, visto che questo è il rapporto tra le rispettive popolazioni. In realtà, nel 2020 l’economia cinese valeva, a tassi di cambio correnti, il 76% dell’economia USA. Il contrasto è ancora maggiore se si considera l’India, la cui economia vale attualmente il 13% di quella USA, mentre la popolazione indiana è 4,16 volte quella statunitense. L’India, infatti, è ancora molto lontana dal raggiungere il livello medio globale del reddito pro-capite (I = 0,18 nel 2020).
Se consideriamo ora la Russia, vediamo che la sua economia nel 2020 valeva, a tassi di cambio correnti, il 7% dell’economia degli USA. Per dimensione, l’economia russa si colloca subito sopra quella della Corea del Sud e subito sotto quella del Brasile. Vediamo quindi che la Russia non ha un’economia sufficientemente grande per reggere uno scontro militare diretto con gli USA, né sufficientemente dinamica per sfidarli sul piano della competizione economica. Infatti, l’economia russa, dopo il 1990, è cresciuta a ritmi molto inferiori a quelli statunitensi, e il suo livello relativo di sviluppo si è ridotto, come si vede dal Grafico 3. Se a ciò aggiungiamo che lo scontro strategico sul teatro europeo coinvolge l’insieme dei paesi della NATO, vediamo che la Russia si confronta con un blocco militare la cui economia vale ben 27 volte la propria! È oggettivamente impossibile far rientrare uno scontro così squilibrato nella categoria dei conflitti inter-imperialisti. A ciò si può aggiungere che i dati sul livello relativo di sviluppo, calcolati sempre a tassi correnti, ridimensionano il risultato ottenuto sulla base del Maddison Project Database, evidenziando come il PIL pro-capite russo, nel 2020, fosse pari al 92% del reddito medio globale. In generale, i dati a tassi correnti evidenziano con forza maggiore la differenza tra le economie occidentali imperialiste e le economie non imperialiste dei BRICS, Russia inclusa. Basti considerare che, secondo i dati riportati nel grafico 4, il valore di I per gli USA, nel 2020, era pari a 5,8, ovvero molto maggiore di quello calcolato in precedenza. Questo risultato convalida l’affermazione precedente che i tassi di cambio PPP comportano un sistematico sottodimensionamento delle economie imperialiste.
Poiché i dati calcolati al tasso di cambio corrente danno un quadro sensibilmente diverso da quelli calcolati con i tassi PPP, ci possiamo chiedere se anche l’evoluzione complessiva dell’imperialismo, misurata attraverso , possa risultare diversa quando calcolata in questo modo. Nel grafico 5 riportiamo i dati più completi disponibili, che partono dal 1990, quando i paesi ex sovietici sono stati per la prima volta inclusi nel database della Banca Mondiale. Il quadro dinamico che ne possiamo ricavare è coerente con quanto abbiamo già visto in precedenza. In aggiunta, vediamo che la riduzione della diseguaglianza tra paesi è in gran parte attribuibile al processo di sviluppo cinese. In particolare, il livello di diseguaglianza sarebbe rimasto sostanzialmente stabile nell’ultimo decennio se escludessimo l’apporto della Cina. Questo risultato rafforza la conclusione, tratta in precedenza, sulla persistente vitalità dell’imperialismo. Dobbiamo infine osservare che, come ci si poteva attendere, il livello corrente di diseguaglianza tra Paesi, calcolato a tassi correnti, è molto maggiore di quello calcolato a tassi PPP.
4. Le condizioni sufficienti dell’imperialismo
Nella Tabella 1 sono riassunti, a beneficio di chi legge, i risultati dell’analisi sulle condizioni necessarie dell’imperialismo, applicata ai principali soggetti geopolitici dello scenario internazionale. Resta inteso che, al di fuori dei soggetti elencati, nessun Paese singolarmente preso soddisfa entrambe queste condizioni. Secondo la nostra ipotesi, il mancato soddisfacimento congiunto di queste condizioni rende impossibile, per un determinato paese, condurre una politica imperialista. Ma in che cosa consiste una politica imperialista? Questa è la domanda a cui dobbiamo rispondere ora. Il primo aspetto che viene alla mente è quello militare. Tuttavia, sappiamo che, alla base dell’espansionismo militare, si trova l’espansionismo economico. Occorre quindi definire quest’ultimo.
Paese | Livello di sviluppo | Dimensione dell’economia |
Stati Uniti | + | + |
Unione Europea | + | + |
Federazione Russa | – | – |
Cina | – | + |
Tabella 1. Possesso delle condizioni necessarie per l’imperialismo, in Paesi/raggruppamenti selezionati
In breve, possiamo dire che l’espansionismo economico consiste nella proiezione esterna dell’economia nazionale sia sul piano commerciale che finanziario. Tuttavia, occorre fare una distinzione tra questi due piani. Nel contesto internazionale attuale, non necessariamente la competizione sul piano commerciale si realizza attraverso conflitti militari, come accadeva nell’epoca del colonialismo. Sotto l’egemonia statunitense, la tendenza prevalente a livello internazionale è stata quella della rimozione delle limitazioni frapposte al commercio internazionale, realizzata attraverso accordi bilaterali e multilaterali. A questo riguardo, è istruttivo notare come i recenti tentativi protezionistici dell’amministrazione Trump, in funzione anti-cinese, siano falliti, visto che, dopo la pandemia, le esportazioni cinesi verso gli Usa hanno ripreso a crescere più di prima. Questo suggerisce che la tendenza allo sviluppo del commercio internazionale sia attualmente molto più forte dei tentativi di farla deragliare. Non si può escludere con certezza un ritorno, in futuro, al protezionismo ma, allo stato dei fatti, non è questo lo scenario più probabile. Al contrario, la resilienza del commercio internazionale evidenzia che gli scambi internazionali, nonostante siano condotti spesso in condizioni di diseguaglianza economica, determinano benefici per molti Paesi, inclusi quelli non imperialisti.
La minaccia principale contro il funzionamento del commercio mondiale viene, in questo momento, dalle politiche sanzionatorie unilaterali adottate dai Paesi occidentali. Tuttavia, non possiamo dire che queste misure siano rivolte a ripristinare il protezionismo. Al contrario, sono rivolte ad escludere alcuni Paesi dai benefici della partecipazione al mercato mondiale, e in particolare dall’accesso ad alcune tecnologie critiche. In altri termini, le sanzioni rappresentano il tentativo di sfruttare a fini politici l’egemonia occidentale sul commercio mondiale, non di distruggere il sistema stesso.
Anche nel campo degli investimenti finanziari ha prevalso nel tempo la tendenza verso la liberalizzazione dei flussi internazionali. Tuttavia, questa liberalizzazione è stata attuata in maniera più selettiva rispetto ai flussi commerciali. Per capire come mai, occorre considerate la distinzione fondamentale tra investimenti di portafoglio e investimenti diretti. Mentre i primi sono di tipo passivo, i secondi prevedono che l’investitore eserciti un’influenza significativa sulla gestione di un’impresa residente nell’altra economia. Tra gli investimenti di portafoglio rientrano l’acquisto, sui mercati finanziari, di titoli di debito pubblici e privati, così come di quote azionarie di minoranza. Tra gli investimenti diretti rientrano gli investimenti azionari di controllo e i flussi internazionali di debito tra entità controllate dagli stessi soggetti.
Per un paese imperialista, accettare investimenti di portafoglio dall’estero non è problematico dal punto di vista geopolitico. Il flusso di capitali in entrata porta benefici economici, permettendo a quel paese di finanziare il proprio consumo in eccesso rispetto alla produzione interna, e non implica particolari costi politici, perché gli investitori esteri non acquisiscono un potere diretto di influenza sull’economia domestica. In linea di principio, gli investitori passivi nei Paesi imperialisti acquisiscono influenza in quanto creditori, ma questo potere d’influenza è limitato dal fatto che essi non hanno alternative altrettanto valide di investimento, perché le infrastrutture finanziarie sono monopolizzate dai Paesi imperialisti. Si tratta, ad essere rigorosi, di una condizione di monopsonio, in cui è il debitore, ovvero l’acquirente, a dominare il mercato, attraverso i privilegi monetari e finanziari di cui gode.
All’opposto, gli investimenti di portafoglio sono una persistente fonte di instabilità nelle economie non imperialiste, perché possono defluire rapidamente, determinando il crollo della valuta domestica e una grave crisi economica. Per questo motivo, molte economie emergenti, tra cui la Cina, adottano restrizioni sui movimenti di capitali. Se la difficoltà dei Paesi non imperialisti a finanziarsi all’estero, da una parte, dipende dal monopolio finanziario dei Paesi imperialisti, dall’altra questa stessa difficoltà contribuisce a rafforzare questo monopolio. Infatti, gli investitori, specialmente in una situazione di crisi, preferiscono muovere i propri capitali verso la sicurezza offerta dalle valute imperialiste. Si crea così un circolo vizioso di subordinazione finanziaria che diventa impossibile da spezzare.
Nel caso degli investimenti diretti, l’investitore estero, come abbiamo detto, controlla direttamente una porzione dell’economia domestica. Ma controllare un’impresa vuol dire accedere alle tecnologie di sua proprietà. E, se il monopolio è il cuore dell’imperialismo, il controllo della tecnologia è la quintessenza del monopolio. Per questo i paesi imperialisti, pur lasciando formalmente liberi gli investimenti diretti dall’estero, hanno riservato ai propri governi tutti i poteri necessari per bloccare le operazioni sgradite, ovvero quelle che potrebbero indebolire il loro monopolio tecnologico.
In definitiva, la maggiore importanza degli investimenti finanziari rispetto ai flussi commerciali, da una parte, e degli investimenti diretti rispetto agli investimenti di portafoglio, dall’altra, confermano le tesi leniniane secondo cui l’imperialismo è la fase monopolistica del capitalismo, nella quale l’esportazione dei capitali prevale per importanza su quella delle merci. Possiamo trovare conferma degli argomenti sopra esposti nell’analisi degli investimenti diretti in entrata e in uscita dagli USA. Nel Grafico 6 è riportata la suddivisione per area geografica degli investimenti diretti in essere a fine 2020. Il Grafico evidenzia tre elementi in modo molto chiaro. Il primo elemento è che il vincolo degli investimenti diretti lega con forza i partner dell’alleanza militare occidentale. In aggiunta al peso di Europa e Canada, occorre considerare che, nell’area asiatica e del Pacifico, i partner principali degli USA, in entrambe le direzioni, sono il Giappone, l’Australia e Taiwan. L’egemonia militare statunitense sui propri alleati fa sì che i primi possano accettare un grande livello di apertura della propria economia agli investimenti diretti provenienti dai secondi. D’altra parte, questi ultimi accolgono una parte preponderante degli investimenti diretti statunitensi, che costituiscono un potente veicolo d’influenza all’interno delle loro economie.
Il secondo elemento è che questa grande apertura non vale per il resto del mondo. Infatti, vediamo che la quota degli investimenti in entrata provenienti dal mondo non occidentale è molto minore della quota degli investimenti in uscita. In particolare, la quota di investimenti diretti provenienti dalla Cina è molto bassa. Quest’asimmetria si spiega con la criticità degli investimenti diretti per i motivi sopra ricordati. In particolare, il governo statunitense ha attuato negli ultimi anni un vero e proprio blocco degli investimenti diretti cinesi, che è stato imitato da molti Paesi europei. Nel caso dell’America Meridionale e del Medio Oriente, che sono sottoposte a vincoli politici meno stringenti, è ragionevole attribuire l’asimmetria tra investimenti in entrata e in uscita ad un classico rapporto di tipo neocoloniale. In altri termini, le economie in questione non sono in grado di generare un movimento di investimenti diretti verso gli USA che sia pari a quello che fluisce in senso opposto. Infine, il terzo elemento è il peso irrilevante dell’Africa. Questo non deve stupire particolarmente, perché il ruolo assegnato dall’Occidente alle economie africane è semplicemente quello di rimanere arretrate, fornendo materie prime e forza lavoro a prezzi stracciati. Un’economia di questo genere non richiede grandi investimenti.
Qual è la posizione finanziaria complessiva degli USA? Com’è ben noto, gli USA hanno un enorme debito estero, ma questa condizione non li rende un Paese sull’orlo della bancarotta, perché il monopolio monetario e finanziario, che essi esercitano, obbliga tutti gli altri Paesi ad acquistare i titoli finanziari, pubblici e privati, che emettono. È più interessante osservare che la loro posizione finanziaria verso l’estero non è passiva soltanto negli investimenti di portafoglio, ma anche negli investimenti diretti. Questo sembrerebbe rendere l’economia statunitense direttamente dipendente, per una componente significativa, dagli investitori esteri. Questi ultimi, tuttavia, sono in gran parte provenienti da Paesi imperialisti su cui gli USA esercitano la propria egemonia militare, e quindi, in ultima istanza, si tratta di investitori a loro volta controllabili.
Poiché l’interdipendenza finanziaria tra i Paesi occidentali è molto elevata, non è corretto valutare la posizione finanziaria netta di ciascuno di essi preso isolatamente, tanto più che si muovono all’unisono sullo scacchiere internazionale. Per quantificare la forza finanziaria dei Paesi imperialisti, occorre misurare la posizione complessiva dell’Occidente verso il resto del mondo. Nel Grafico 7 riportiamo la posizione netta in termini di investimenti diretti del “nocciolo duro” imperialista formato da Stati Uniti, Unione Europea, Giappone, Regno Unito e Australia, messa a paragone con quella dei Paesi BRICS. Il confronto, impietoso, evidenzia con chiarezza quali Paesi possano definirsi imperialisti, nel senso dell’esportazione di capitali, e quali no. Per la cronaca, la posizione netta dell’Occidente, in termini di investimenti diretti esteri, valeva nel 2020 1,8 bilioni di dollari correnti (ovvero 18 seguito da 11 zeri).
Quali conclusioni possiamo trarre dall’analisi sull’espansionismo economico? La prima conclusione è che l’esportazione di capitali, di per sé, non è un motivo sufficiente per qualificare un paese come imperialista. Abbiamo visto, infatti, che anche le economie non imperialiste generano flussi di capitali verso le economie imperialiste. In questo occorre vedere non un segnale della loro forza ma al contrario, come abbiamo detto, un segnale della loro subordinazione ai privilegi finanziari dell’imperialismo. L’esempio dello scippo delle riserve valutarie russe è, a questo riguardo, istruttivo [6]. Per tutti questi motivi, il criterio più appropriato per misurare l’imperialismo appare essere quello degli investimenti diretti, che sono strettamente collegati al monopolio tecnologico esercitato dall’imperialismo stesso a livello internazionale. La risposta offerta da questo indicatore, come abbiamo visto, non lascia spazio a dubbi.
La seconda conclusione è che la crescita delle esportazioni di merci e servizi di un Paese non è un motivo sufficiente per qualificarlo come imperialista. Nelle questioni riguardanti il commercio internazionale, occorre stare molto attenti a non gettare via il bambino con l’acqua sporca. In questo caso, il bambino sono i guadagni di efficienza determinati da una divisione del lavoro più estesa, e l’acqua sporca è l’imperialismo, che impone patti ineguali in materia commerciale.
Nella misura in cui tutte le economie si sviluppano, è ragionevole attendersi che si approfondisca la divisione internazionale del lavoro, e che dunque aumentino anche i flussi commerciali internazionali. Se lo sviluppo del commercio avviene in un contesto multilaterale, al di fuori di imposizioni esterne e con opportune garanzie, non ci sono motivi per cui la crescita degli scambi debba avere ricadute negative sulle popolazioni interessate. D’altra parte, è utopistico pensare che il socialismo possa realizzarsi senza una maggiore divisione internazionale del lavoro. Infatti, uno scenario in cui prevale l’autarchia nazionale è incompatibile con il livello di sviluppo delle forze produttive necessario per la transizione al socialismo. Ma allora possiamo ritenere che l’evoluzione del sistema internazionale degli scambi commerciali verso un ordinamento più giusto, basato su un multilateralismo equilibrato, sia un requisito necessario per la transizione verso il socialismo. Per questo, un’economia socialista dovrebbe, se possibile, partecipare attivamente al sistema internazionale degli scambi commerciali, contribuendo a trasformarlo in senso progressivo, piuttosto che isolarsi. Ma, se questo è vero, se ne conclude, appunto, che la partecipazione di un Paese al commercio internazionale non è una condizione sufficiente per definirlo come imperialista.
Per ultimo, resta da esaminare l’aspetto militare. Anche a questo riguardo, come abbiamo fatto per la misurazione della forza economica, è opportuno distinguere scala e intensità. Infatti, la spesa militare di un paese può apparire relativamente alta perché il Paese in questione è molto esteso o molto popolato. Per questo occorre quantificare anche l’intensità della spesa, definita in rapporto alle sue dimensioni. Inoltre, occorre considerare che la spesa militare può avere finalità differenti. In primo luogo, può servire a difendere i confini nazionali. In secondo luogo, può servire a proiettare la propria forza nelle aree confinanti, che possono, o meno, contenere fonti di minaccia. In terzo luogo, può servire a proiettare la propria forza a livello globale, in chiave prettamente imperialista.
Per valutare la spesa militare occorre considerare, quindi, molti aspetti contemporaneamente. Per questo, nella Tabella 2 sono riportati i valori di 5 variabili, calcolate sulla base dei dati SIPRI, che cercano di coprire i vari aspetti menzionati. Tra i Paesi elencati nella Tabella 2, solo gli USA e, in misura minore, il Regno Unito mantengono una proiezione militare globale, che si realizza in misura rilevante attraverso il dominio dei cieli e dei mari. In particolare, lo strapotere militare degli USA è evidente, visto che la spesa statunitense supera la somma di quella di tutti gli altri Paesi elencati. Al contrario, possiamo trovare conferma della natura prevalentemente difensiva della spesa militare dei BRICS nel numero molto limitato di basi mantenute all’estero da questi Paesi. Per quanto riguarda la Russia, in particolare, occorre osservare che 7 delle 8 basi estere si trovano in Paesi confinanti, che una volta facevano parte dell’URSS.
La situazione della spesa militare nei BRICS è molto diversificata. Sud Africa e Brasile hanno una spesa molto bassa, potendosi avvantaggiare dell’assenza di minacce significative ai propri confini. L’India e, soprattutto, la Cina hanno una spesa maggiore, che non raggiunge però l’intensità di quella dei Paesi imperialisti, sia in termini pro-capite che in rapporto all’estensione dei confini. Riguardo a questi due Paesi, occorre considerare la presenza di situazioni di conflitto militare congelato ai confini (per l’India il Pakistan, per la Cina Taiwan e la penisola coreana), oltre alle dispute territoriali che li coinvolgono direttamente.
Paese/Area | Spesa Paese/ Spesa USA% | Spesa % su PIL | Spesa pro-capite ($ correnti) | Spesa per Km di frontiera terrestre (milioni di $ correnti) | Basi militari all’estero |
USA | 100 | 3,5% | 2405 | 66,5 | 750 |
EU | 32 | 1,6% | 575 | 17,6 | 22 |
Regno Unito | 8 | 2,2% | 1002 | 137,0 | 145 |
Brasile | 2 | 1,2% | 90 | 1,3 | 0 |
Russia | 8 | 4,1% | 452 | 3,3 | 8 |
India | 10 | 2,7% | 55 | 5,4 | 5 |
Cina | 37 | 1,7% | 203 | 13,2 | 3 |
Sud Africa | 0,4 | 0,9% | 54 | 0,7 | 0 |
Tabella 2. Spese militari in Paesi/raggruppamenti selezionati (Fonte: SIPRI Military Expenditure Database)
La Russia ha una dimensione di spesa relativamente piccola, pari appena all’8% di quella statunitense, ma un’intensità di spesa relativamente grande, sia in termini pro-capite che in proporzione al PIL. Invece, la spesa in rapporto alla lunghezza dei confini è relativamente bassa. Questi dati riflettono le caratteristiche fondamentali di questo Paese, costituito da un immenso territorio, relativamente poco popolato, che è sottoposto da tempo a tentativi di destabilizzazione provenienti dall’esterno. Il fatto che la Russia, e in misura inferiore l’India, abbiano una spesa in rapporto al PIL relativamente alta non significa necessariamente che questi Paesi siano più aggressivi degli altri, ma soltanto che devono mantenere, a causa dei fattori specifici appena menzionati, un apparato militare relativamente oneroso rispetto alle possibilità della loro economia. Al contrario, grazie alla maggiore dimensione economica, la Cina è in grado di finanziare, con uno sforzo comparativamente minore, una spesa militare più alta rispetto a quella degli altri BRICS.
Nell’insieme, l’analisi della spesa evidenzia che esiste attualmente un’unica superpotenza in termini militari, con ambizioni di proiezione globale, e questi sono gli Stati Uniti. I principali Paesi dello schieramento occidentale (USA + UK + EU) hanno una spesa pari a 3,5 volte quella del duo formato da Russia e Cina, nonostante i primi abbiano una popolazione pari al 54% dei secondi e assommino confini terrestri per una lunghezza pari al 70% (al netto dei confini comuni tra alleati). Se la proiezione militare occidentale fosse di natura difensiva, almeno nella stessa proporzione in cui lo è quella cinese e russa, la spesa occidentale dovrebbe ridursi tra 5 volte (3,5 diviso 0,7) e 7 volte (3,5 diviso 0,54) rispetto alla dimensione attuale. Niente di più lontano dalla realtà, visto che i Paesi europei, con la Germania alla testa, stanno programmando un forte riarmo, per aumentare la propria capacità aggressiva in funzione antirussa e per ribilanciare l’alleanza occidentale, sul piano militare, in termini più favorevoli all’imperialismo dell’UE.
5. Conclusioni
Le conclusioni derivanti dall’analisi della spesa militare collimano con quelle dell’analisi dell’esportazione di capitali. Il fatto che soltanto l’Occidente soddisfi le condizioni sufficienti dell’imperialismo conferma la precedente analisi delle condizioni necessarie, evidenziando come la base dell’espansionismo dei Paesi imperialisti sia di natura economica.
Dall’analisi delle condizioni necessarie e sufficienti dell’imperialismo possiamo derivare una risposta molto chiara in merito alla nostra domanda iniziale. La Russia non può essere un Paese imperialista perché le mancano le basi economiche necessarie per condurre una politica imperialista. La Russia è, da molto tempo, un Paese a medio reddito, che non solo non riesce a recuperare posizioni rispetto ai Paesi imperialisti ma che, per molti aspetti, sta perdendo terreno sul piano economico. La sua struttura produttiva riflette la sua collocazione subordinata nella divisione internazionale del lavoro, in quanto fornitore di materie prime. Le sue capacità tecnologiche sono concentrate nel settore della difesa, e il suo potenziale militare convenzionale, relativamente elevato per un’economia emergente, è diretto principalmente a controllare la sicurezza dei propri confini e a proiettarsi verso i Paesi immediatamente circostanti, che sono costantemente oggetto delle mire espansionistiche dell’Occidente. Il suo arsenale nucleare svolge una funzione di deterrenza nei confronti di una minaccia militare diretta proveniente dagli Stati Uniti. Queste sono le fondamentali coordinate strategiche, ereditate dal crollo dell’Unione Sovietica, che la Russia capitalista cerca oggi, con grande difficoltà, di portare avanti.
Se si esaminano i fatti, non si può che concludere che la sfera d’influenza russa sia storicamente in declino rispetto all’apice raggiunto nel 1945. Piuttosto che essere frutto di una forza crescente, l’invasione dell’Ucraina appare essere il tentativo di approfittare di una fase di relativa debolezza dell’Occidente per invertire, dopo decenni di arretramenti, una tendenza declinante che era arrivata al punto di rottura, costituendo una minaccia esistenziale per lo stato russo. I propositi aggressivi del regime ucraino contro la Crimea e il Donbass, e la politica di ucrainizzazione forzata, condotta ai danni di milioni di russofoni residenti in Ucraina, rappresentano una violazione così grave degli interessi vitali della Russia che il governo russo, dopo mille tentennamenti, ha dovuto alla fine rispondere.
Se lo analizziamo dal punto di vista economico, il conflitto in Ucraina è una piramide di asimmetrie. Infatti, l’economia dell’Ucraina è pari al 7% di quella russa, mentre quest’ultima è appena il 4% del totale delle economie dei Paesi NATO. Se la guerra coinvolgesse solo Russia ed Ucraina, il suo esito sarebbe già scritto a favore della prima. D’altra parte, se la NATO utilizzasse a pieno il proprio potenziale militare convenzionale a sostegno dell’Ucraina, la Russia uscirebbe sicuramente sconfitta. Ma quest’opzione non è realmente disponibile a causa della deterrenza esercitata dal potenziale nucleare russo. Per questo, l’Occidente ha cercato di sconfiggere la Russia principalmente ricorrendo alla guerra economica. Fino ad oggi, questo tentativo è fallito, perché la maggior parte dei Paesi del mondo ha scelto di non seguire l’Occidente su questa strada. La Russia può resistere alle sanzioni occidentali perché i Paesi che si sono rifiutati di isolarla rappresentano poco meno della metà del PIL mondiale. Gli stessi Paesi, è bene ricordare, rappresentano l’80% della popolazione mondiale.
Troppo spesso, la sinistra occidentale dimentica colpevolmente che, accanto alle contraddizioni sociali interne a singoli Paesi e alle contraddizioni inter-imperialiste, esiste anche la contraddizione tra l’élite ristretta delle cosiddette nazioni civili e democratiche, e la grande maggioranza dell’umanità, che vive nei Paesi non imperialisti. In particolare, nel conflitto in Ucraina, uno stato capitalista, ma non imperialista, si trova contrapposto al fronte comune delle potenze imperialiste. Considerata la forza rispettiva degli attori coinvolti nello scontro militare in atto, questo conflitto, innescato dall’Occidente nel 2014, riveste per la Russia capitalista il carattere di una guerra nazionale difensiva.
Se collochiamo invece la guerra in Ucraina nel suo contesto globale, vediamo che al fronte comune imperialista si contrappone il fronte comune delle economie non imperialiste, che cerca di sottrarsi alle imposizioni e alle aggressioni occidentali. A ben guardare, nessuno dei due schieramenti è compatto perché, al loro interno, ciascun Paese, o blocco di Paesi, ha interessi e prospettive divergenti. Ma è l’oggettiva esistenza di una base comune d’interessi, determinata dalla oggettiva collocazione dei diversi Paesi all’interno dei rapporti internazionali, a produrre il collante che li tiene uniti. Vediamo quindi che le forze in gioco nel conflitto ucraino hanno una portata storica. Il suo esito definirà gli equilibri mondiali futuri, determinando se vivremo in un mondo sempre più dominato dall’imperialismo occidentale, oppure se si aprirà la strada verso un diverso sistema di relazioni internazionali, più giusto ed equilibrato.
In conclusione, è opportuno ricordare che l’evoluzione degli equilibri internazionali non è disgiunta dalla nostra quotidianità, perché lo sviluppo delle contraddizioni interne ai singoli Paesi, e in particolare a quelli imperialisti, dipende strettamente dall’esito di questo conflitto. L’eventuale sconfitta dell’imperialismo non potrà che tradursi in una crisi sociale e politica in grado di rimettere in discussione gli equilibri interni dei Paesi occidentali. In caso contrario, la vittoria dell’Occidente sancirà la persistenza degli equilibri attuali per molti decenni a venire.
NOTE
[1] ↑ Ad esempio, durante la IIa Guerra Mondiale, mentre gli angloamericani combattevano in Italia una guerra imperialista di invasione, i partigiani combattevano una guerra di liberazione dal fascismo e, in molti casi, una guerra rivoluzionaria.
[2] ↑ “L’esito della lotta dipende, in ultima analisi, dal fatto che la Russia, l’India, la Cina etc. costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione del globo. Ed è appunto questa maggioranza che negli ultimi anni, con una rapidità mai vista, è entrata in lotta per la propria liberazione, sicché in questo senso non può sorgere ombra di dubbio sul risultato finale della lotta mondiale” (Meglio meno, ma meglio, 1923).
[3] ↑ Un riferimento classico a questo riguardo è A. Emmanuel, “The Delusions of Internationalism”, Monthly Review, 22(2), Giugno 1970.
[4] ↑ A questa conclusione si può arrivare attraverso un’argomentazione per assurdo. Infatti, se tutti i paesi non imperialisti che si sviluppano diventassero imperialisti, potrebbe darsi una situazione in cui tutti i paesi sono imperialisti. Ma questo è assurdo perché, se tutti i paesi avessero lo stesso livello di forza (come richiesto dal loro essere imperialisti), nessun paese potrebbe imporre relazioni imperialiste agli altri e quindi, in realtà, nessun paese sarebbe imperialista.
Il vantaggio di presentare l’indicatore come fatto nel testo diventerà chiaro quando esamineremo i grafici 2 e 5.
[6] ↑ Si tratta, per la verità, dell’ultimo di una lunga serie di scippi commessi dall’Occidente, con le stesse modalità, ai danni delle economie emergenti. Altro che imperialismo dei creditori!
CREDITS
Immagine in evidenza: Moscow, Russia
Autore: Steve Harvey, 25 giugno 2020
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