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Giacomo Marchetti – Rete dei Comunisti
Un dato era certo anche prima del voto: qualsiasi governo fosse scaturito dalla maggioranza premiata alle urne il 25 settembre, avrebbe dovuto affrontare un’agenda fitta, in un periodo inedito, per rispondere ai desiderata da un lato di Bruxelles e Francoforte, dall’altro di Washington – quasi mai coincidenti – oltre che dagli immensi problemi posti dalla crisi.
E in questo stretto sentiero il “governo Meloni” – forse – comincerà a muovere i primi passi. Avrà ridottissimi margini di manovra che prevedibilmente ben presto provocheranno la consueta erosione del consenso elettorale accumulato stando in finta opposizione, approfondendo così una crisi politica i cui tempi e modi saranno alquanto imprevedibili.
L’attuale situazione di stagnazione economica procede infatti verso la recessione.
Le fosche previsioni dell’agenzia di rating Fitch sul PIL del 2023 sono solo l’ultimo capitolo di una serie di revisioni al ribasso avviate da uno stuolo di uffici studi e agenzie di valutazione.
La “recessione mite” di cui parlava Confcommercio una settimana fa è un ossimoro, una contraddizione in termini, elaborato per sdrammatizzare una situazione molto meno che rosea.
Stando al Sole24Ore di domenica: «molti osservatori prevedono un segno negativo per l’ultimo trimestre dell’anno, con il risultato che le stime ufficiali sul 2023 non andranno oltre lo 0,7-0,8%».
Questo venerdì è atteso il rating di Moody’s, che già oggi vede il debito italiano all’ultimo scalino prima del livello dei titoli considerati più a rischio, in gergo “non investment grade”.
E si sa, il voto dei mercati influenza pesantemente, nelle ex democrazie occidentali, il risultato uscito dalle urne. Tanto da far dire, da qualche decennio, che la “sovranità” sta nei mercati, non più “nel popolo”.
I segni di una rallentamento che precede la recessione sono già visibili pienamente nel settore base di ogni economia – il manifatturiero – cresciuto appena dell’1,2% in sette mesi a causa di una congiuntura economica non brillante, perché già prima dell’escalation bellica del febbraio scorso stavano cronicizzandosi alcuni fenomeni come l’inflazione e l’interruzione di molte filiere produttive.
L’impennata dei prezzi dell’energia, e a cascata di tutti gli altri, nonché la violenta stretta monetaria dopo anni di quantitative easing, hanno dato la mazzata finale all’illusione di rapida una ripresa post-covid per una economia industriale che, comunque, non aveva mai raggiunto i livelli precedenti alla crisi del 2007-2008. A pagare il prezzo più alto sono naturalmente i comparti più energivori.
Un particolare spesso sottovalutato: il costo dell’energia per il made in Italy è superato complessivamente i 76 miliardi, cioè quasi 50 in più rispetto rispetto allo stesso periodo del 2021, ribaltando il saldo commerciale da un attivo di 37 miliardi ad un passivo di quasi 14.
Tradotto: il costo dell’energia annichilisce un sistema paese – legato prevalentemente alle catene del valore franco-tedesche – che aveva fatto della strategia orientata all’export di prodotti a basso valore aggiunto l’alfa e l’omega della propria politica industriale.
A beneficiarne, per quanto concerne il gas, per esempio sono principalmente due paesi NATO che non fanno parte della UE: Norvegia e soprattutto Stati Uniti, che ci vendono il gas di scisto tre volte più di quello che pagavamo dalla Russia.
Rispetto ai prezzi pre-crisi i valori (Pun, prezzo unico nazionale) si sono moltiplicati quasi per nove nel caso dell’elettricità, per sedici in quello del gas, passato dai 12 euro per MWH a settembre del 2019, ai quasi 200 oggi (dopo picchi ancora più alti)!
E qui si capisce la scarsa lungimiranza – diciamo così – del non avere avviato per tempo nessuna “transizione ecologica” che, anzi, sarà in parte “sostituita” dal carbone, dal gas di scisto e persino dal ritorno al nucleare.
Un’idiozia, quindi, non solo rispetto all’infarto ecologico del pianeta ma anche per l’economia tout court, e che fa coppia con la scelta di privatizzare il mercato dell’energia.
Se Francia ha ri-nazionalizzato EDF e la Germania sta facendo lo stesso con il colosso energetico Uniper, qui una scelta del genere viene ancora tacciata di vetero-bolscevismo!
E le bollette, dal 1° ottobre, sono destinate a salire ulteriormente e non di poco, mentre già appare sempre più impattante il fenomeno della “morosità per necessità”, anche per le utenze condominiali.
L’inflazione su base annua ad agosto è arrivata all’8,4% in Italia, ed è destinata a salire; ha raggiunto livelli che non si vedevano dal 1985, più o meno in media con quella dell’eurozona.
Potremmo andare avanti, ma non serve.
In soldoni, la situazione è pessima, e senza risolvere le cause che l’hanno generata (guerra e meccanismi speculativi tipici del mercato privato dell’energia in primis come peso e per ultimi come tempi) il nostro paese sarà il vaso di coccio tra i vasi di ferro della UE – Germania e Francia – e resterà al palo subendo le condizioni che gli verranno imposte per il rilancio dell’asse franco-tedesco.
La probabile futura presidente del consiglio dovrà affrontare da subito una corsa ad ostacoli che prevede l’approvazione della Legge di Bilancio in tempi record: teoricamente il Parlamento, che si insedierà il 13 ottobre, dovrebbe inviare due giorni dopo alla UE il proprio programma di bilancio (Nadef), che slitterà ma comunque dovrà essere completato in meno di un un mese, e sarà naturalmente sotto “sorveglianza speciale” (sia per il peso del debito pubblico, sia per la natura “incerta” della “nuova classe politica”).
Diciamo pure che dovrà fare un semplice copia-incolla di quello che gli propone la UE, forte dei meccanismi stringenti del Pnrr (rate di prestito contro “riforme” indicate una per una).
A novembre ci sarà il check UE sui conti. Una verifica importante perché la BCE subordina l’ammissibilità al Tpi (il nuovo scudo antispread) al conseguimento di target e milestone – cioè i punti qualificanti – del Pnrr, oltre che all’assenza di squilibri macroeconomici.
La Commissione sarà prevedibilmente piuttosto fiscale nel voler vedere rispettate le “raccomandazioni” fatte già a maggio, e di fatto vaglierà contestualmente la Legge di bilancio e lo stato di avanzamento del Pnrr, come condizione preliminare all’accesso alla terza tranche di “aiuti” del Next Generation EU.
Vanno raggiunti entro l’anno 55 “obiettivi”, 29 dei quali probabilmente ottenuti dal governo uscente.
Uno degli scogli più duri sarà certamente il varo della “legge per la concorrenza”, che andrà ad intaccare anche interessi della base sociale della coalizione del centro-destra: si pensi alle concessioni balneari. Sarà una bagno di sangue sulle concessioni pubbliche.
Non è peregrino pensare che, come per la Legge di Bilancio, qualcuno darà “indicazioni” cogenti su come raggiungere la quindicina di obiettivi del Pnrr ancora da completare.
Con la recessione in arrivo, l’imposizione della riduzione del debito in valori percentuali crescenti a fronte si un PIL calante, ed i rigidissimi parametri fissati a Bruxelles per rientrare nella categoria dei salvati, anziché dei sommersi, è chiaro che gli spazi di manovra saranno strettissimi.
Probabilmente si andranno ad assottigliare ulteriormente, tenendo presente la necessità di perpetuare alcune pallidissime misure che il precedente esecutivo aveva preso per alleviare l’impoverimento crescente: il taglio del cuneo fiscale del 2% per i redditi fino a 35 mila euro, la conversione del Dl aiuti-ter con gli ultimi sostegni conro il caro energia, indicizzazione degli assegni pensionistici, la cassa integrazione, ecc.
Per non parlare di una lunghissima serie di “aiuti alle imprese”…
Sia detto per inciso: dal primo gennaio del prossimo anno si ritornerà alla legge Fornero nuda e cruda., cassando “quota 102”, “opzione donna” e “Ape sociale”.
Per quanto riguarda la politica estera, sarà in discussione in ambito UE l’ottavo pacchetto di sanzioni verso la Russia, ed eventuali altre decisioni drastiche rispetto ad una eventuale ulteriore escalation, tenendo conto del salto di qualità (e di rischio) dopo l’approvazione dei referendum di adesione alla Russia delle due auto-proclamate repubbliche del Donbass e degli altri territori ora sotto controllo della Federazione.
Per i due Consigli europei previsti in ottobre ci sarà una condivisione “forzata” tra il governo uscente e quello entrante, ma è chiaro che le decisioni che verranno prese non saranno certo ascrivibili all’ordinaria amministrazione: Giorgia ballerà la musica che suonerà Draghi.
Già dai primi mesi, quindi, il nuovo esecutivo dovrà porgere il collo al doppio cappio-euroatlantico, scontentare una parte non irrilevante del blocco sociale che lo ha votato, e fare i conti con una temperatura sociale surriscaldamento.
Il 2 dicembre ci sarà uno sciopero generale di tutto il sindacalismo di base e conflittuale, ma le mobilitazioni contro il caro-bollette e il movimento studentesco potrebbero riservare sorprese. Positive, da nostro punto di vista.
Gli slogan a là Meloni stavolta serviranno a poco ed ogni possibile, per quanto improbabile o velleitario, tentativo di “alzare la voce a Bruxelles” non verrà tollerato.
D’altronde Ursula von der Leyen aveva già avvertito sugli “strumenti” di cui dispone l’UE, esibendo la più becera logica da strozzino che un cravattaro ordo-liberista può ostentare.
La Meloni, prima di diventare Premier, è già un’anatra zoppa che dovrà fare i conti con i suoi alleati in una logica da fratelli-coltelli, con la tipica dinamica a tratti irrazionale che contraddistingue gli attuali politicanti, come già dimostrato dalle parossistiche elezioni del Presidente della Repubblica.
I tempi della futura crisi di governo non sono certo prevedibili, ed è chiaro che il compito di una opposizione politico-sociale – in questo caso totalmente “extra-parlamentare” – è quello di accelerare il processo di disgregazione dell’esecutivo prima ancora della sua nascita e di costruire una alternativa ad un’accozzaglia post-fascista che si reggerà con lo sputo.
Non provarci sarebbe un errore peggiore di un crimine.